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I medici hanno tentato un nuovo “approccio”, sperimentando una metodica immunoterapica, orientata a riattivare e potenziare le difese interne.

Creare illusioni con roboanti annunci è uno degli errori più frequenti e colpevoli dell’informazione sulla salute, specie con riferimento a uno degli ambiti più drammatici, quello della patologia tumorale. Su questo, tuttavia, la ricerca sta compiendo reali passi avanti, in aggiunta ai traguardi già raggiunti negli ultimi decenni, che hanno significativamente innalzato la speranza di vita e di guarigione di molti. Negli ultimi giorni, in particolare, sono state annunciate novità di rilievo che convergono sull’obiettivo di limitare il ricorso ai trattamenti più invasivi, in particolare la chemioterapia.

Il caso più clamoroso - che ha trovato ampia eco nella stampa divulgativa (specie anglosassone), oltre che su quella scientifica - è quello di una 52enne americana affetta da un cancro al seno, su cui ben sette diversi cicli chemioterapici erano risultati privi di efficacia. Giunta a uno stadio di metastasi, estese in tutto il corpo (con ben 62 mutazioni tumorali), i medici hanno tentato un nuovo “approccio”, sperimentando una metodica immunoterapica, orientata a riattivare e potenziare le difese interne.

L’esito, a due anni di distanza, è una completa guarigione. “Ho iniziato a sentirmi meglio già dopo due settimane, e anche i dottori ballavano per la felicità”, ha raccontato la paziente. Il trattamento consisteva in un “trasferimento cellulare adottivo” basato sul prelievo di alcune centinaia di “cellule-T” poi moltiplicate in oltre 80 miliardi di globuli bianchi, che hanno poi avuto la meglio sulla malattia. Un “cambio di paradigma”, sottolineano gli scienziati, anche quelli estranei all’esperimento, ricordando che “per molti anni si era pensato che il carcinoma mammario diffuso non potesse essere attaccato dal sistema immunitario”. Invece, ai fatti, si può.

Il caso è stato tra l’altro discusso in queste settimane anche al Congresso annuale a Chicago dell’American Society of Clinical Onclolgy, dove sono emersi ulteriori riscontri di analoga portata. Uno studio newyorkese, in particolare, ha sperimentato un test su 21 geni tumorali di donne colpite da cancro al seno. In sintesi, è emerso che la chemio dopo l’intervento sarebbe evitabile per il 70% delle pazienti. Sarebbe loro sufficiente una meno invasiva terapia ormonale. Si prospetta dunque un cambio notevole nella pratica clinica, riconosciuto anche dagli scienziati italiani. “Parliamo di milioni di donne che potranno evitare la chemioterapia: è entusiasmante”, commenta il professor Giuseppe Curigliano, dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.

E non si parla solo del tumore al seno. Da un’altra ricerca presentata al medesimo Congresso, è stato documentato come, dinanzi al cancro alla prostata metastatico, una terapia “chemio-free”, costituita da un trattamento ormonale standard con l’aggiunta di una molecola, l’“abiraterone”, permetta di ridurre il rischio di morte del 36%.

Un’altra conferma allo stesso concetto: è il nostro corpo a essere depositario delle migliori difese. La medicina del futuro, e in parte già del presente, è quella che sa riconoscerle e “risvegliarle”.

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