MENU
Dall’Università del Texas si annuncia, con una pubblicazione sulla rivista Nature, l’identificazione di una molecola che, agendo su i sistemi interni di conservazione/rinnovamento quanto di degradazione, potrebbe rappresentare un potenziale “elisir di lunga vita”.

“Mangiare se stessi”. L’etimo greco è esplicito, e viene utilizzato dalla scienza contemporanea per descrivere un meccanismo cellulare alla base dei sistemi interni di conservazione/rinnovamento quanto di degradazione. Dall’Università del Texas ora si annuncia, con una pubblicazione sulla rivista Nature, l’identificazione di una molecola che, agendo su tale dinamica, potrebbe rappresentare un potenziale “elisir di lunga vita”.

La proteina si chiama “beclin-1”, e sarebbe appunto alla base della cosiddetta “autofagia”. Attivandone una “mutazione”, avrebbe la capacità di promuovere la longevità e ridurre il rischio di diverse malattie cardiovascolari e renali, e anche di tumori. Sperimentata sui topi, riuscirebbe ad allungare l’aspettativa di vita media di circa il 12%. “Un esito importante, che dimostra come sia possibile interferire sui meccanismi dell’invecchiamento, ritardandone i segni”, commentano scienziati estranei allo studio.

Da notare che la ricerca dell’università americana segue il filone di un’altra, che ha dimostrato un notevole impatto di tale metodica dinanzi a patologie neuro-degenerative come l’Alzheimer. Su quest’ultima, inoltre, uno studio californiano ha annunciato la scoperta di un gene, l’“apoE4”, presente in circa un quarto della popolazione, neutralizzando il quale permetterebbe di dimezzare l’esposizione e il decorso della patologia. Esiti che destano parecchia speranza tra gli studiosi americani. “La ricerca sull’Alzheimer ha conosciuto molti fallimenti negli ultimi dieci anni, ma entro i prossimi dieci – pronostica ad esempio Michel Goedert, dell’Università di Cambridge – diventerà una malattia perlopiù gestibile”.

Tornando allo specifico dell’“autofagia”, si tratta ancora di meccanismi, nell’insieme, largamente da esplorare. Gli accademici texani rivendicano anche potenziali antitumorali alla loro metodica, tuttavia altri studi hanno viceversa rilevato come la stessa autofagia tenderebbe a favorire la progressione cancerogena, sia negli effetti cellulari che nella modulazione del “microambiente tumorale”.

In altri termini, l’autofagia sarebbe un meccanismo necessario non solo alla “sopravvivenza” del paziente, ma anche a quella dei tumori, sicché i due obiettivi potrebbero, almeno in alcuni casi, risultare alternativi. Ed è chiaro che serviranno ancora anni di studi perché si arrivi a far pendere la bilancia dal lato giusto.

Articoli Correlati

x