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E’ una male piuttosto comune, ma poco noto e senza cura. Si chiama demenza frontotemporale ed è una patologia neurodegenerativa, che è la seconda causa di demenza dopo la malattia di Alzheimer prima dei 65 anni d’età. Uno studio italiano potrebbe riaccendere la speranza di molti malati affetti da questa malattia. Ci sarebbe infatti una terapia che sembra in grado di rallentare la progressione della malattia, migliorando alcune funzioni cognitive e comportamentali dei pazienti.

“La demenza frontotemporale ha caratteristiche diverse dalla malattia di Alzheimer nonostante spesso vengono confuse con la conseguenza di diagnosi tardive e trattamenti non idonei”, spiega Giacomo Koch, neurologo e direttore del Laboratorio di Neuropsicofisiologia sperimentale della Fondazione Santa Lucia. “A differenza dell’Alzheimer la demenza frontotemporale - continua - colpisce in maniera selettiva alcune parti del cervello, prevalentemente lobo frontale e temporale, e dal punto di vista clinico i sintomi non interessano la memoria ma il comportamento: i malati cambiano personalità, diventano disinibiti, apatici o irritabili. In alcuni casi presentano deficit del linguaggio molto spiccati, forme di afasia progressiva con perdita della capacità di parlare e, in altri, anche un deficit intellettivo, la demenza semantica che comporta un’erosione di tutte le conoscenze acquisite nel corso della vita”.

Recenti evidenze scientifiche mostrano come anche nel caso della demenza frontotemporale la neuroinfiammazione sia coinvolta nel processo neurodegenerativo sin dalle prime fasi della malattia. “Sta emergendo in maniera sempre più chiara come le cellule non neuronali, in particolare microglia ed astrociti dalle quali dipende la neuroinfiammazione, precedono e accompagnano la neuro degenerazione”, spiega Koch. “Recenti studi dimostrano il coinvolgimento della neuroinfiammazione non solo a malattie come Alzheimer o Parkinson - continua - ma anche alla demenza frontotemporale. E’ una strada nuova che stiamo percorrendo per determinare attraverso l’uso di farmaci il controllo della neuroinfiammazione e in definitiva della patologia”. Da uno studio condotto dalla Fondazione Santa Lucia arrivano dunque risultati incoraggianti.

“Recentemente abbiamo eseguito uno studio pilota per indagare la potenziale efficacia e la sicurezza di PeaLut (palmitoiletanolamide co-ultramicronizzata con Luteolina) in un campione di quindici pazienti con nuova diagnosi di demenza frontotemporale”, riferisce Koch. “Lo studio, presentato ad Oslo - continua - ha mostrato che dopo un mese di trattamento i pazienti riportavano un miglioramento di circa il 15% in una batteria di test che misurava le funzioni cognitive del lobo frontale ed una riduzione del 20% dei disturbi comportamentali. I pazienti sono apparsi meno agitati, più tranquilli, parlano e ragionano meglio. Inoltre sono emersi evidenti cambiamenti dell’attività cerebrale, con un aumento della plasticità cerebrale e un ripristino dei meccanismi di inibizione: controllando la neuroinfiammazione gli endocannabinoidi hanno ripristinato anche l’attività sinaptica”. Lo studio ha dimostrato come PeaLut, molecola che modula l’interazione tra le cellule non neuronali disregolate, sia in grado di controllare il meccanismo neurodegenerativo prevenendo il danno neuronale e potenzialmente ritardando la progressione della patologia. “Sulla base di questo studio e per confermare il dato promettente - annuncia Koch - abbiamo avviato un trial clinico randomizzato in doppio cieco per avere una casistica più ampia e con un gruppo di controllo”.

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