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Ogni anno si accertano nel mondo quasi dieci milioni di nuovi casi di demenza, raggiungendo la cifra complessiva di circa 47 milioni di persone. L’appena trascorsa 24esima “Giornata Mondiale” dedicata all’Alzheimer è stata anche l’occasione per fare il punto sulla patologia, e su come affrontarla.

L’appena trascorsa 24esima “Giornata Mondiale” dedicata all’Alzheimer, tra convegni scientifici, rapporti, conferenze ed eventi socio-pedagogici allestiti in decine di città italiane, è stata anche l’occasione per fare il punto sulla patologia, e su come affrontarla. Con segnali per certi versi poco incoraggianti, tra il consenso crescente sullo scarso esito delle terapie sviluppate contro la demenza conclamata e le previsioni sul dilagare del problema. Ogni anno si accertano nel mondo quasi dieci milioni di nuovi casi di demenza, raggiungendo la cifra complessiva di circa 47 milioni di persone, due terzi delle quale specificamente malate di Alzheimer. L’Italia è all’ottavo posto nella triste classifica, con 1,4 milioni di malati di qualche forma di demenza, in circa la metà dei casi Alzheimer. E le proiezioni dicono che questi numeri si triplicheranno a livello mondiale entro il 2050, complice l’invecchiamento della popolazione. A fronte di questo, mancano ancora trattamenti risolutivi. “Gli anticorpi contro il peptide beta amiloide (primo indiziato tra i presunti colpevoli dell'Alzheimer) che sono stati oggetto di tanti studi clinici – spiega tra gli altri Stefano Govoni, dell’Università di Pavia - non hanno raggiunto esiti clinici apprezzabili e i benefici per i pazienti, sin qui osservati, sono davvero molto modesti”. Il riconoscimento di un sostanziale “fallimento” finora è pressoché unanime, così come l’annuncio di un “cambio di paradigma”, legato alla natura “complessa e multifattoriale” del problema, che include processi infiammatori, fattori molecolari, problemi vascolari e anche aspetti sociali (incluse le percezioni altrui) e comportamentali (ovvero gli stili di vita). Ma è proprio in quel cambiamento che la buona notizia c’è, soprattutto sul fronte della prevenzione, incluso l’aspetto diagnostico. L’orizzonte, ritenuto imminente, è quello di un insieme composito di test. Si tratta cioè di combinare una serie di esami facili e a basso costo, del sangue (per cercare molecole presenti solo nel plasma di chi è destinato ad ammalarsi anche 10-20 anni dopo), della retina e di altri tessuti che possano presentare anomalie predittive, nonché di una risonanza cerebrale decodificata da un software messo a punto, a quanto annunciato, dall’Università di Bari. Saranno esami destinati a individuare fattori di rischio, riscontrati i quali potranno eseguirsi test più costosi e invasivi (dalla tomografia all’esame cerebro-spinale). In quel cambio paradigmatico c’è anche una dimensione di pubblica informazione, a iniziare dall’imperativo di “combattere lo stigma”, tuttora attuale. Nelle parole di Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, “la persona con demenza deve essere vista per quello che è: prima di essere un malato, è una persona esattamente come tutti noi, con una dignità che va rispettata e tutelata”.

 

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