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C’è un problema di “treatment gap” in Italia sulla depressione. Le possibilità di “guarigione” sono altissime, nota la Società Italiana di Psichiatria, ma solo il 17% delle persone affette riceve cure adeguate. Tra le ragioni principali, la scarsa conoscenza del problema e delle possibilità stesse di porvi rimedio. E c’è anche un tema “di genere”, data la sua netta prevalenza femminile

La parola chiave è “treatment gap”, ossia la distanza tra le possibilità crescenti di curarsi efficacemente e l’effettiva messa in atto di una terapia adeguata. Se ne è discusso nei giorni scorsi al Congresso della Società Italiana di Psichiatria (Sip) a Torino, che ha analizzato tra l’altro una recente indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, con dati assai poco incoraggianti, specie per il nostro Paese, nonostante le sue ottime tradizioni in materia di trattamento dei disturbi mentali. 

Lo studio, condotto in 21 Stati, ha evidenziato che in quelli a basso reddito solo il 2% delle persone che soffre di depressione riceva un trattamento minimamente adeguato agli standard internazionali. La proporzione sale tra i Paesi ad alto reddito, ma comunque a una proporzione modesta, il 23%. L’Italia va peggio, fermandosi al 17%. “Questo dato fa rabbia, perché oggi la depressione maggiore può essere guarita nel 70 per cento dei casi – spiega il presidente Sip Bernardo Carpiniello - guarigione è un termine che non si usa mai con leggerezza, ma in questo caso possiamo farlo senza timore”

La ragione non è tanto nella mancanza di una risposta sufficiente da parte delle strutture sanitarie (stimata al 43% dei casi, ove sollecitata, in linea con gli altri Paesi), quanto in difetti nella “domanda”. Si stima che a soffrire clinicamente di depressione sia almeno il 3% degli italiani adulti, ma che metà di essi non la percepisca come una vera “patologia” da curare, proporzione che sale a due terzi negli altri Paesi avanzati. A mancare è insomma anzitutto un’adeguata coscienza collettiva sulla natura del disturbo, così come sulle possibilità di uscirne, tanto che la stessa Sip sollecita da tempo l’attivazione di una vera e propria “campagna nazionale” di sensibilizzazione contro la depressione.

In essa si profila anche una questione di genere, data la prevalenza femminile, e anche rischi di “comorbidità” con altre patologie. In particolare, ricorda Claudio Mencacci, past president della stessa Sip, “la comorbidità tra depressione e malattie cardiovascolari sarà la prima causa di disabilità al mondo già nel 2020, e le donne avranno un rischio doppio”.

A prendere atto dell’ampiezza problema è anche il dicastero della Salute. “La salute mentale rappresenterà il principale problema sanitario del prossimo futuro e non può essere lasciata solo alla responsabilità dei servizi sanitari psichiatrici ed ai loro operatori”, ha detto la ministra Grillo in un messaggio al Congresso, auspicando una strategia che integri l’ambito farmacologico con un’attenzione complessiva alla persona. A proposito di messaggi “istituzionali”, da notare che il presidente Mattarella ha usato parole analoghe commentando l’ultimo rapporto, preoccupante, della Caritas sulla povertà. Sottolineando come essa non vada combattuta solo sul piano “materiale”, ma soprattutto tramite uno sforzo integrato di promozione umana. Le persone, cioè, anzitutto non vanno lasciate sole.

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