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E’ il dilemma di tante mamme (e papà). Il bimbo sta maluccio, ma non malissimo, magari si sta riprendendo dopo qualche giorno di assenza, e sale la tentazione di rimandarlo subito a scuola. Il dilemma c’è ed è spesso comprensibile, date anche le esigenze lavorative dei genitori.

E’ il dilemma di tante mamme (e papà). Il bimbo sta maluccio, ma non malissimo, magari si sta riprendendo dopo qualche giorno di assenza, e sale la tentazione di rimandarlo subito a scuola. Il dilemma c’è ed è spesso comprensibile, date anche le esigenze lavorative dei genitori. Ed è un dubbio che coinvolge gli stessi pediatri, sovente messi sotto pressione per il rilascio del loro fatidico consenso al rientro in aula.

Al quesito ha dato ora un approfondimento di inchiesta e analisi un centro ospedaliero di ricerca dell’Università del Michigan, con l’epilogo di una serie di raccomandazioni alle famiglie che, viste dall’Italia, suonano per la verità assai “morbide”. Dal sondaggio, che ha coinvolto quasi 1500 genitori con almeno un figlio tra i 6 e i 18 anni, emerge che in oltre la metà dei casi essi scelgano di mandarlo a scuola anche se ha una leggera febbre, nel 42% se ha vomitato una volta, nel 20% se ha la dissenteria. Le proporzioni sfiorano poi il 90% in caso di tosse o raffreddore.

Insomma, emerge una notevole disinvoltura tra le famiglie americane, ma - e qui sta la sorpresa maggiore - la risposta degli scienziati del Michigan non pare affatto orientata a una “stretta”. Bene mandarlo a scuola, dicono, se ha solo il naso che cola senza altri sintomi di rilievo (appetito, letargia, problemi umorali), idem nel caso di un “picco di febbre”, purché poi non si protragga oltre le 24 ore, o anche in presenza di un episodio singolo di vomito se non accompagnato da dolore o febbre.

E’ un approccio che fa di certo sobbalzare gli esperti italiani, e le stesse famiglie, per la nostra maggior cautela dinanzi ai sintomi e ai rischi di complicanze e di esposizione ad altri contagi. “Raccomandazioni” così morbide possono rintracciarsi tra i portali scientifico-divulgativi italiani solo quando citano, per l’appunto, ricerche americane.

Da noi la parola d’ordine rimane invece quella di “non avere fretta a rimandare i figli a scuola”, e di attenersi alla tempistica suggerita dal pediatra, perfino per i ragazzi più grandi, quando i problemi e i rischi di ricaduta diminuiscono. Il precetto di almeno un giorno senza febbre dopo un’influenza, ad esempio, rimane un imperativo, così come l’assenza di altri chiari sintomi di malessere. Altrimenti si espone il figlio al rischio di malattie ricorrenti, nonché di diffondere il virus in classe. “Rischiare”, del resto, non ne vale la pena, anche perché sono le stesse scuole a chiamare anzitempo i genitori se si accorgono del malessere dell’alunno, e lo fanno perché hanno il dovere di tutelare la salute anche degli altri. Poi, certo, c’è il problema che oggi uno stipendio non basta e magari i genitori sono privi di “coperture” in caso di malattia del figlio. E questo è un problema reale, che chiama all’attenzione i decisori pubblici ben al di là del settore sanitario.

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