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Una vera e propria rivoluzione, che per una volta è partita da noi, sfidando diffidenze e paure globali.

 

Eventi, conferenze, celebrazioni da Roma alle periferie (a iniziare da Trieste e Gorizia, dove la rivoluzione cominciò), e stavolta parecchia eco mediatica. Il 13 maggio di esattamente quarant’anni fa venne varata la legge 180, che stravolse i paradigmi della salute mentale, abolendo i manicomi, “scarcerando” i pazienti e avviando tutt’altra logica terapeutica, che da un approccio solo farmacologico, oltre che reclusivo, ha incluso quello di un’attenzione sociale e psichiatrica organica. Nelle parole semplici di Franco Basaglia: “Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata”.

Una vera e propria rivoluzione, che per una volta è partita da noi, sfidando diffidenze e paure globali. “L'Italia ha dimostrato che si può fare a dispetto di molti in Europa che pensavano fosse troppo rischioso chiudere i manicomi – nota il presidente della Società Italiana di Psichiatria Bernardo Carpiniello – tanto che le riforme che sono state fatte in questi decenni in diversi Paesi vanno sì verso l'umanizzazione delle cure, ma non si ha il coraggio di chiudere queste strutture tout court. Noi l'abbiamo fatto, con coraggio”.

Tra le tante difficoltà, quella norma ha condotto a una catena di esiti concreti. I manicomi non ci sono in effetti più, in parte sostituiti da strutture residenziali o semi-residenziali aperte e assistite nell'orizzonte, al contempo, dell'autonomia individuale e dell'integrazione sociale, interna ed esterna. E è stata allestita una rete di servizi sociali, tra Dipartimenti e Centri di salute mentale, diffusa abbastanza capillarmente sul territorio nazionale, tanto da risultare esemplare per l'“assistenza territoriale”, sempre più invocata per l'intero sistema sanitario.

Anche gli ultimi dati sul personale dell'assistenza psichiatrica sono parzialmente positivi: nel 2016 erano quasi 32mila, oltre duemila in più rispetto all'anno precedente. “Permane però un'importante carenza”, ricorda Massimo Cozza, coordinatore del Dipartimento di salute mentale più copioso in Italia (dell'Asl Roma 2, al servizio di 1,3 milioni di abitanti): l'obiettivo governativo è fissato ad almeno un operatore per 1500 abitanti, e per raggiungerlo ne servirebbero quasi novemila in più.

A complicare il quadro è che ad aumentare sono anche i pazienti, con la complicità – riconosciuta unanimemente dagli addetti ai lavori – delle difficoltà economiche aggravatesi in questi anni. Gli utenti censiti e seguiti dai Dipartimenti sono stati 807mila nel 2016, quasi trentamila in più sull'anno precedente. Ulteriore concomitanza, il disagio contribuisce all'affollamento dei Pronto soccorso. Oltre mezzo milione di italiani  vi si sono recati per disturbi psichiatrici nell'ultimo anno. “Nella metà dei casi erano solo sindromi nevrotiche e somatoformi, che avrebbero potuto essere gestite altrove”, nota ancora Cozza. La “Sanità territoriale” dovrebbe servire proprio a questo, e ciò non vale naturalmente solo per la psichiatria. “Servono risposte adeguate e una cultura che non riduca la malattia alla medicalizzazione”, incalza Franco Rotelli, storico braccio destro di Basaglia.

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