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Chi fotografa ricorda meno di chi si limita a guardare. Una ricerca californiana chiarisce il problema dello “scarico cognitivo” nell’era digitale, ennesimo fattore di rischio del cosiddetto Internet Addiction Disorder. Meglio tenere da parte gli smartphone, e, come documentato da un altro studio psico-cognitico, tornare alla fisica prossimità della chiacchiera, perfino se futile

Sull’impiego degli schermi, e in particolare dei contemporanei dispositivi digitali, la lista delle possibili controindicazioni è oramai entrata nel linguaggio medico, a partire dalla concetto di Internet Addiction Disorder, già ricordato più volte in questi spazi. I problemi peraltro non compaiono solo in presenza di “abusi”, ma perfino in coincidenza con l’atto, in apparenza “creativo” o quantomeno “documentale”, dello scatto di una fotografia.

Lo spiega in questi giorni uno studio dell’Università della California-Santa Cruz, pubblicato sul Journal of Applied Research in Memory, che ha monitorato una quarantina di propri studenti impiegati in una visita virtuale a un museo. In particolare, è stato confrontato l’impatto cognitivo tra coloro che si limitavano a osservare le opere e quelli che invece le fotografavano con il loro smartphone.

Il confronto può far sobbalzare qualche professionista dello scatto, convinto (per ottime ragioni) che la fotografia possa aiutare a “guardare meglio” e a cogliere particolari che a occhio nudo potrebbero sfuggire, oltre a “rendere eterno” l’oggetto o lo scenario immortalato. L’esito di tale ricerca, eseguita tramite test mnemonici successivi alla visita, rovescia tutto. Chi fotografa sembra ricordare meno di ciò che ha visto rispetto a chi si limita a osservare, ed è una differenza netta, conteggiata in un calo mnemonico medio di circa il 20%. Lo scarto si attuava perfino tra coloro che usavano lo “Snapchat”, sapendo cioè che le immagini avrebbero avuto una durata di soli dieci secondi. La ragione, spiegata dagli studiosi, è l’attivazione di quel che viene chiamato “scarico cognitivo”, o “disimpegno attenzionale”, in cui l’attenzione cerebrale viene ridotta, in quanto “delegata” al dispositivo. 

Il fenomeno concettualmente rimanda a un’altra ricerca, pubblicata in queste settimane sulla rivista Psychological Science, condotta dall’Università dell’Arizona sull’impatto della “chiacchiera futile” e superficiale sul benessere psichico. Studi precedenti l’avevano derubricata a fonte di infelicità, nel paragone con l’esercizio di discorsi “importanti e impegnativi”. Adesso arriva la smentita: anche la più banale delle interazioni è necessaria. Gli studiosi lo spiegano con una metafora sui farmaci. “Ognuno ha un principio attivo, e non potrebbe esserne privo – spiegano – e lo stesso riguarda le chiacchiere, sono in tutti casi un tassello essenziale della nostra vita sociale”, purché avvengano nella fisica prossimità.

Sui pericoli di “dipendenza” nell’era digitale la letteratura è estesa, con moniti rivolti in particolare ai più giovani, per la duplice ragione di trovarsi nell’età dello sviluppo e per il fatto di non aver sperimentato il mondo che c’era prima di tale era. Spunta peraltro una buona notizia. Uno studio sudcoreano, tra gli altri, ha recentemente documentato come il processo dell’Internet Addiction Disorder, con i relativi danni cognitivi, sia rapidamente reversibile, tramite appositi percorsi di “terapia cognitiva-comportamentale”. L’importante è saper riconoscere il problema, e possibilmente prevenirlo.

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