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Il dato di sintesi è che nell’ultimo triennio il 5,6% degli italiani tra 18 e 69 anni ha sofferto di sintomi depressivi, tanto da percepire come “compromesso” il proprio benessere psicologico per una media di quindici giorni al mese.

È un tema per definizione “scivoloso”, perché sconta ambiguità e percezioni soggettive che, se di per sé utili, richiedono comunque una corretta interpretazione. E anche la stampa ha dato letture assai diverse, per certi versi agli antipodi, all’annuncio del calo della depressione in Italia, in seguito a un’analisi di “Epicentro”, portale epidemiologico dell’Istituto Superiore della Sanità.

Il dato di sintesi è che nell’ultimo triennio il 5,6% degli italiani tra 18 e 69 anni ha sofferto di sintomi depressivi, tanto da percepire come “compromesso” il proprio benessere psicologico per una media di quindici giorni al mese. La cifra è considerevole: si parla di circa quattro milioni di italiani, sicché il problema c’è e su larga scala. Ma il segnale statisticamente più rilevante è un altro, quello di un calo, piuttosto rilevante, rispetto a qualche anno prima. Nel 2008 la quota di “depressi” quindici giorni al mese era pari al 7,8%.

Non a caso il 2008 fu l’anno in cui esplose la recessione più grave dal dopoguerra. E questo alimenta qualche conclusione su un’evoluzione in parallelo tra l’andamento dei disturbi depressivi e le variabili macro-economiche: una ripresa, sia pure lenta, c’è stata e questo si rifletterebbe anche sullo stato d’animo dei cittadini. Il rebus è proprio qui, perché le date sembrano indicare quasi il contrario. La crisi è esplosa negli ultimi mesi del 2008, ma i suoi effetti sono stati avvertiti, specie dai ceti deboli, soprattutto in seguito. Oggi i dati ufficiali e le agenzie di rating, segnalano una ripresa  timidamente in atto, ma le condizioni generali non sono ancora tornate ai livelli pre-crisi… insomma, il nesso appare quasi rovesciato: la depressione è più bassa oggi, quando lo stato dell’economia è ancora peggiore di quello di ieri.

Il tema in ogni caso è complesso: dai dati regionali emerge ad esempio che i disturbi depressivi in Italia sono più alti in Molise, Sardegna e Umbria, che non sono le Regioni più ricche, ma neanche le più povere. Inoltre gli immigrati irregolari risulterebbero meno “depressi” degli italiani, a dispetto della precarietà economica, e anche di cittadinanza.

La correlazione, allora, se c’è va forse rovesciata. La “depressione”, in senso clinico, non dipende soltanto dalle condizioni materiali di vita, può valere anche il contrario: come dicono gli economisti, la “fiducia” nell’avvenire ha essa stessa ricadute economiche. Nel 2008 era molto bassa, oggi è salita, il che è di per sé una buona notizia, anche per l’avvenire. Su questo però c’è una variabile in più, ed è quella sanitaria: c’è un nesso stretto tra lo stato di salute e i rischi depressivi. Avere cura delle persone avrebbe una ricaduta diretta sugli andamenti economici, personali e generali. Ebbene, secondo il Censis, vi sono 12 milioni di italiani  che rinunciano alle cure per le proprie difficoltà finanziarie. Dato inaccettabile, non solo sull’etica dell’assistenza, ma dunque anche per le prospettive del nostro benessere.

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