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Il “Negative Emotion Index” è ai minimi storici. L’indagine globale Gallup può suonare discutibile ma l’estensione del campione va presa sul serio. Il nesso tendenziale tra stato d’animo e benessere fisico è accertato dalla scienza, e le sue criticità rinnovano l’importanza della ricerca, individuale e collettiva, dell’agognata “felicità”. Sapendo che alcune categorie sono più “a rischio” di altre. Ad esempio, le donne

Tra una fatica e l’altra tendiamo spesso a “tirare la corda” e a perdere di vista che la nostra salute dipende anche dal nostro benessere interiore e da quel che si chiama “qualità della vita”. E poi, nel nostro “individualismo”, tendiamo anche a caricare noi stessi e gli accadimenti che ci coinvolgono di ogni responsabilità, con conseguenze anche depressive. Dimenticando che ci sono forze e contesti più grandi di noi, verso i quali non siamo onnipotenti.

Per questo è importante alzare gli occhi e vedere quel che dicono le indagini collettive in proposito. Uno strumento interessante è il Gallup Global Emotions Report, che indaga annualmente oltre 150mila persone in 145 Paesi intorno alla semplice, fondamentale domanda: “Come stai?”. All’esito dell’ultima indagine, pubblicata nei giorni scorsi, è emerso che il 2017 è stato “l’anno più deprimente da oltre un decennio”.

Conflitti, difficoltà economiche, disgregazioni sociali, crisi di ideali, invecchiamento medio. Le ragioni aggregate possono esser tante, ma la tendenza è accertata quanto preoccupante. L’indagine prende in esame diversi parametri quali i livelli di preoccupazione, stress, tristezza e dolore fisico. Tutti hanno palesato un aumento (arrivando mediamente intorno al 40%), incrementando il cosiddetto “negative emotion index”. Con una sola eccezione: la “rabbia”, accertata nel 20% del campione, ma senza incrementi. Come se il disagio interiore aumentasse, arrivando a fiaccare perfino la forza di reazione allo stesso.

La filosofia, come le neuroscienze, si è interrogata sin dagli albori su qual siano gli “ingredienti della felicità”, arrivando talora perfino (come gli utilitaristi britannici di fine ‘700) a elaborare classifiche con variabili “oggettive” per quantificarla. Le risposte sono naturalmente molto più “plastiche” di qualsiasi sintesi, ma vale qualche criterio di fondo. “La felicità è “un’attitudine personale profonda e autentica, per cui non basta raccontarsi che ‘va tutto bene’”, sintetizza Nicola De Pisapia, neuroscienziato a Trento. “Sviluppare attenzione verso quello che dentro di noi possiamo controllare, in modo da poter gestire meglio quello che fuori di noi non possiamo impedire. E vanno vissute profondamente le nostre relazioni, coltivando la capacità di comprensione degli altri. Occorre aprirsi ai continui cambiamenti delle cose e delle persone intorno a noi, superando i piccoli egoismi individuali”, ricorda lo studioso.

Dobbiamo insomma aver cura di noi stessi e della nostra “qualità di vita”, sapendo che non tutto è in nostro controllo, ma qualche margine c’è. Consapevoli che i rischi depressivi sono alimentati da fattori esterni, che prendono di mira alcune categorie più di altre. E questo riguarda anche il genere. Lo ricorda lo stesso ministero della Salute: “Le donne hanno maggior probabilità di soffrire di disturbi depressivi rispetto agli uomini, una prevalenza lifetime, che inizia a prendere consistenza attorno ai 13-15 anni, con un gap che aumenta gradualmente e, attorno ai 18 anni, si assesta su valori simili a quelli degli adulti e torna gradualmente a ridursi dopo i 55 anni”.

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