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Si è scritto tanto sulla compianta Tina Anselmi, eppure forse non abbastanza, soprattutto per quanto riguarda l’incarico che ricoprì nella Sanità italiana.

Crediti immagine: Tribuna di Treviso


Si è scritto tanto sulla compianta Tina Anselmi, eppure forse non abbastanza. La “cadetta partigiana” di Castelfranco Veneto, che seppe farsi largo tra i maschi del sindacato e del suo partito (la fu Democrazia Cristiana) tanto da diventare la prima donna ministro della Repubblica Italiana, fece una cosa, tra le altre, su cui i posteri la ricorderanno ancor più di quel che si fa adesso. Correva il 1976, e Giulio Andreotti le affidò l’incarico del Lavoro, ma l’esperienza le valse soprattutto due anni dopo, quando prese l’incarico della Sanità, su cui vent’anni prima non esisteva neppure un Ministero.

Erano tempi difficili, il cuore degli “anni di piombo”, culminati nel rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Ma proprio in quell’anno la stessa ministra (che allora non si coniugava ancora al femminile) firmò una delle “riforme” più importanti della storia repubblicana, anzi forse la più importante di tutte, la legge 833 del 23 dicembre 1978 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.

Oggi lo diamo quasi per scontato, pur tra uno scricchiolio e l’altro, e se lo ricordano oramai solo gli anziani, ma prima di soli 38 anni fa quel Servizio non esisteva. Chiamavamo “la mutua” quel po’ di assistenza precedente, e così abbiamo continuato a chiamarla per un bel po’ anche dopo il ’78. Era infatti un sistema “mutualistico”, nel quale diversi enti assicurativi coprivano le esigenze dei rispettivi settori lavorativi. Mancava dunque l’equità, e mancava soprattutto la copertura di coloro che non rientravano in tali settori, a iniziare dai disoccupati.

Se si pensa al nostro strampalato e giovane paese traboccante di storia e di storie eterogenee, si pensa all’epica di Garibaldi, alle scuole, alla radio e alla televisione che ci hanno coinvolto in una sola lingua ma, se è vero che “la salute è la prima cosa”, siamo diventati una comunità (se lo siamo diventati) solo in quell’anno. Prima eravamo una somma di corporazioni, lì abbiamo costruito un “sistema”. Non una panacea di tutti i mali, crisi e diseguaglianze, ma un approdo sanitario a disposizione di tutti è stato comunque creato.

Quell’approdo non è roba da poco, è stato un passo epocale anche in termini di qualità. A collocare il Servizio Sanitario italiano ai vertici mondiali non è qualche politico di turno ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questione di copertura della popolazione, e perfino di efficienza della spesa, come ha documentato anche di recente l’agenzia Bloomberg. Poi ci sono i problemi, le denunce e le sacrosante lamentele dei pazienti, i ticket, le discrepanze regionali, le nuove crisi, ma quell’“efficienza” rimane accertata, ed è un indicatore anche del sacrificio di molti che operano in ambito medico e farmaceutico. Molto si può e deve fare, incluso un maggior ricorso ai farmaci equivalenti, per quel che possono contribuire a estendere efficacemente la platea dei pazienti, ma la base c’è. Quella base ha un padre, anzi una madre, e si chiamava Tina Anselmi.

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