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Dinanzi al diritto sacrosanto (e costituzionale) alla salute, nell’ultimo anno ben sette milioni di italiani sono stati costretti a indebitarsi per potersi curare.

Si può riflettere, sviscerare, dibattere, ma alla fine alcuni dati sono semplici, e dicono tutto. Dinanzi al diritto sacrosanto (e costituzionale) alla salute, nell’ultimo anno ben sette milioni di italiani sono stati costretti a indebitarsi per potersi curare, in ragione di un ammontare di circa 150 milioni di euro di esami e visite non rimborsate dal Servizio Sanitario Nazionale, tanto da sollevare sentimenti di “rancore” verso lo stesso. Sono cifre divulgate dal Censis, e sono parallele a quelle pregresse sui milioni di italiani che addirittura rinunciano alle terapie per difficoltà economiche.

Sempre in questi giorni, un altro studio, elaborato dalla Fondazione Gimbe, ha denunciato un problema strutturale di “de-finanziamento pubblico” della sanità, dinanzi a un quadro di fabbisogno crescente, complice tra l’altro l’invecchiamento della popolazione. Avanti così, nell’arco di pochi anni si creerà un “buco” di una ventina di miliardi di euro, a detrimento anche dei livelli attuali di assistenza. Poche risorse, ma anche troppi “sprechi”, notano gli osservatori. E tra i principali sprechi, come più volte denunciato dalle associazioni dei pazienti – inclusa la più estesa, Cittadinanzattiva, promotrice tra l’altro della campagna “IoEquivalgo” – figura proprio il ricorso ancora insufficiente ai farmaci generici, nonostante l’equivalenza nei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica, nonché i costi inferiori.

Sono stati fatti  passi in avanti innegabili, ma siamo ancora indietro rispetto agli altri Paesi europei: sul totale delle ricette, senza distinzioni di classi di rimborso, solo il 20% è 'senza marca. Una proporzione inferiore alle medie continentali, che poi si scompone in gravi sperequazioni sul territorio nazionale. Segnalando tra l’altro un nesso: le Regioni che ricorrono di più ai medicinali equivalenti sono tendenzialmente quelle (perlopiù nel Nord Italia) dove l’assistenza sanitaria risulta più capillare e qualitativa. La ragione è semplice, risparmiare sui generici consente di liberare risorse private e pubbliche consentendo di ampliare la platea dei pazienti e delle cure.

Le cifre aggregate e i tanti appelli, perfino quando arrivano dai pazienti, possono risultare a limitato impatto nella percezione delle persone, ma se ad associarsi sono ora i “primi custodi” della salute, ossia gli stessi medici di base, il messaggio sale ulteriormente di potenza e significato. “Non esistono farmaci più sicuri dei generici, perché straordinariamente testati”, ha dichiarato recentemente Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (Simg).

Il motivo della superiore sicurezza è molto semplice: si tratta di medicinali utilizzati   da un tempo così lungo da superare la scadenza brevettuale, potendosi replicare quindi come “generici”, salvo per giunta ulteriori controlli a certificarne l’equivalenza. Concetto semplice e anche “etico”, perché è una scelta che può fare la differenza tra potersi curare o meno, per ciascuno di noi e per la collettività.

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