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Il gene BPIFB4, nella sua variante LAV (Longevity Associated Variant), già noto come “gene della longevità”, sembra avere un ruolo chiave nel rendere più resistente il cuore, aiutandolo a tornare a funzionare in modo efficiente persino dopo un infarto. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Cell Death and Disease, il gene in questione sarebbe responsabile della produzione di una proteina che agisce direttamente sui cardiomiociti - le cellule che, con la loro attività contrattile, servono a far pulsare il cuore - rendendoli più performanti. In questo modo, l’organo reagisce meglio di fronte all’infarto, accusandone meno gli effetti e ripristinando più velocemente la sua funzionalità.

Il lavoro, si è articolato in tre fasi, una clinico-osservazionale, una in vivo e una in vitro. Nella prima sono stati analizzati i campioni di plasma di 492 pazienti tra i 59 e i 76 anni, che avevano subìto un infarto, ed è emersa una correlazione inversa tra i livelli di proteina BPIFB4 circolante nel sangue e la gravità della patologia coronarica: i pazienti con malattia trivasale, la forma più severa e fatale che vede il restringimento di tutte le tre arterie coronariche, presentavano i livelli più bassi di proteina circolante. I risultati della fase in vivo vanno nella stessa direzione, dimostrando un effetto protettivo di LAV-BPIFB4 sul cuore, mediante il potenziando della funzione e della vascolarizzazione cardiaca. In una popolazione di topi ai quali era stato indotto l’infarto, i soggetti più resistenti, che avevano reagito meglio all’evento riportando meno danni, erano quelli a cui era stato trasferito il gene della longevità, che aveva quindi rafforzato i loro cuori.

“Riteniamo che la proteina abbia un forte potenziale terapeutico - sottolinea Monica Cattaneo, ricercatrice del Gruppo MultiMedica, primo autore della pubblicazione - preservando l’equilibrio e lo stato di salute del cuore e opponendosi al dannoso rimodellamento cardiaco che contribuisce all’insorgenza delle patologie ischemiche”.

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