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Uno studio scientifico getta luce sui meccanismi "sociali" attraverso cui alcuni batteri resistono agli antibiotici.

La guerra fredda è alle spalle, ma Oltreoceano non cessa di scatenare i maestri hollywoodiani e perfino gli scienziati. E così, da un paper di tre ricercatori dell'Università del Vermont, è rispuntato lo spettro del “socialismo”. In ballo non sono però le caricature della storia, bensì i batteri, scoperti in azione comunitaria ben al di là delle loro “leggi di mercato”, ovvero delle “minacce esterne”.

Fuori dalle suggestioni socio-politiche, il tema è di concreto interesse per la scienza medica. Si documenta non solo come le cellule di una comunità batterica utilizzino le proteine per attivare meccanismi difensivi collettivi – fatto già accertato in precedenza - ma ora addirittura che lo facciano mentre non sono bersagliate dagli antibiotici, con l'esito ultimo di poter rigenerare l’infezione quand'anche ne sopravvivano pochissime.

La resistenza e le mutazioni dei batteri sono in cima agli incubi dei ricercatori, non senza qualche rischio di “procurato allarme” nell’opinione pubblica. Nelle scorse settimane è emerso ad esempio, in allevamenti maiali britannici oltre che in precedenza in Cina, un ceppo batterico resistente perfino alla colistina, tra gli antibiotici più potenti, inducendo poi diversi scienziati (e la rivista Nature) a minimizzare sui rischi per la salute pubblica. Altri biologi, nell’ottica della rassicurazione, hanno recentemente anche messo in discussione, rovesciandolo, l’assunto che il corpo umano abbia più batteri che cellule, tema che peraltro appare di scarsa ricaduta scientifica.

In ogni caso la novità qui non sta nella natura o nella quantità dei batteri, bensì nel loro comportamento “sociale”. L’identificazione di quel “ sistema socialista” di difesa sembra indicare nuove direzioni alla ricerca. In particolare, negli auspici degli scienziati del Vermont, il potenziale è nella comprensione di patologie fin qui senza guarigione, come la fibrosi cistica.

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