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Nel 2015 il valore dell'industria farmaceutica ha superato la soglia dei 30 miliardi di euro, quasi quanto la produzione in Germania, e ben di più rispetto a tutti gli altri paesi europei, incluse Francia (23 miliardi) e Regno Unito (18), segnando un balzo del 5% rispetto all’anno precedente

Imprenditori e sindacalisti lo sanno bene. Firmare un contratto collettivo in tempi di crescita a volte può esser perfino più complicato che in tempi di crisi, in quanto l’asticella delle richieste naturalmente tende a elevarsi. Nonostante ciò, la scorsa settimana è stata apposta la firma definitiva al nuovo contratto di lavoro del settore chimico-farmaceutico, con reciproca soddisfazione delle parti. E l’annuncio è avvenuto a poche ore di distanza dalla presentazione degli ultimi dati sulla produzione farmaceutica italiana, che sono molto incoraggianti.

Nel 2015 il suo valore ha superato la soglia dei 30 miliardi di euro, quasi quanto la produzione in Germania, e ben di più rispetto a tutti gli altri paesi europei, incluse Francia (23 miliardi) e Regno Unito (18), segnando un balzo del 5% rispetto all’anno precedente, nonché un incremento delle esportazioni del 4%. I benefici rimbalzano sul lavoro, con un aumento dell’1% dell’occupazione, che coinvolge più di 65mila addetti. E la ricaduta è anche sulla ricerca, con l’incremento delle domande di brevetto e degli studi clinici, pari oramai al 18% di quelli che si svolgono nell’intera Unione Europea.

“L’eccellenza italiana”, sintetizza Il Sole 24 Ore: da tempo l’Istat mette l’ambito farmaceutico al primo posto sulla competitività e, di recente, Bankitalia lo ha promosso quale l’unico ad aver aumentato la capacità produttiva. I dati sono, infatti, in palese controtendenza rispetto al resto del settore manifatturiero: nell’insieme, la produzione nazionale è scesa del 7% nell’ultimo quinquennio, mentre la farmaceutica è aumentata del 10%.

I margini sono potenzialmente ancor più rosei, notano gli osservatori internazionali, in vista di un aumento della quota di farmaci generici, ancora inferiore rispetto ad altri paesi europei. Con ovvi benefici, in questo caso, anche per le tasche dei consumatori e quindi per le possibilità e qualità delle terapie, oltre che, come dimostrano anzitutto gli Stati Uniti (al vertice mondiale nell’uso degli equivalenti), per liberare ulteriori risorse per la ricerca.

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