MENU
Il caso di un giocatore di basket affetto da sclerosi multipla fermato per "doping" riporta l'attenzione su questa terribile patologia.

Si chiama Chris Wright, è un 26nne giocatore di basket. Viene dal Maryland, è alto 1,85 metri, che è pochino per un professionista della massima serie italiana. Invece gioca, ed è anzi tra i migliori, in forza come playmaker nella gloriosa Varese. Ha peraltro un handicap ulteriore, ben più grave. Quattro anni fa gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla, la sta combattendo e al contempo si sta esponendo molto in incontri pubblici per raccontarla, e spiegare come la si può affrontare, almeno in parte ma perfino ad altissimi livelli sportivi.

Ora, almeno per il momento, il giovane statunitense si è “bruciato”. E’ stato sospeso per l’imperdonabile onta della positività al doping. La sua società si è subito schierata con lui declamando che il farmaco contestato, uno stimolatore , è utilizzato per difendersi dalla patologia. Motivazione plausibile, a tale scopo lo hanno usato in molti, ma questo non viene formalmente riconosciuto dalle autorità sanitarie, anche italiane (eccetto per combattere la narcolessia), mentre è incluso nell’elenco dei prodotti dopanti. Lo sa, e infatti non ha granché protestato, autorità sportive incluse, e la legalità è imprescindibile. Nondimeno, e qualunque sia l’esito, il caso “illustre” getta un po’ di luce sulle difficoltà a ad affrontare tale patologia, e sulla solitudine in cui si trova spesso il paziente alla faticosa ricerca di una terapia.

Quella solitudine è documentata anche dal silenzio con cui è passata nei giorni scorsi la diciottesima “Settimana della sclerosi multipla”, culminata nella Giornata “mondiale” il 25 maggio, coinvolgendo una settantina di paesi. Largamente sotto silenzio nei media, nonostante le decine di convegni e la mobilitazione massiccia dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, fondata oramai quasi mezzo secolo fa e nutrita da oltre settemila volontari, e quotidianamente mobilitata – al di là della settimana – nell’assistenza sanitaria e amministrativa, nella pressione politica, nella promozione della ricerca e nell’organizzazione di campagne on-line e di piazza per la sensibilizzazione.

In Italia ne sono affette circa 110mila persone, e ogni anno sono accertati 3400 nuovi casi, uno ogni tre ore, in larga parte prima dei 40 anni. “ E’ una malattia neurodegenerativa demielinizzante – spiega il professor Giancarlo Comi, del San Raffaele di Milano, tra i massimi esperti italiani - Per motivi ancora poco chiari, i linfociti T, cellule responsabili della risposta immunitaria specifica, vengono sensibilizzati, si attivano e attraversano le pareti dei vasi sanguigni, superando la barriera emato-encefalica e penetrando nel sistema nervoso centrale ”.

Tuttavia, anche dinanzi agli sviluppi peggiori della malattia, ossia quelli “progressivi”, Comi riferisce ad esempio degli ottimi esiti dell’Ocrelizumab, “un anticorpo monoclonale in grado di distruggere in modo selettivo la popolazione dei linfociti B”. Insomma molto si può fare oggi, e molto altro si potrà con lo sviluppo della ricerca. Senza dover ricorrere a sostanze “dopanti”. L’importante è andare avanti, e smetterla col silenzio.

 

Credits foto: Pallacanestro Varese

Articoli Correlati

x