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I cardiologi sono generalmente bravi e tempestivi nel rispondere agli infarti dei pazienti, ma, come già segnalato in questi giorni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ancora molto rimane da fare dopo, quando si viene sovente dimessi con un cuore ancora malato.

I cardiologi sono generalmente bravi e tempestivi nel rispondere agli infarti dei pazienti, ma, come già segnalato in questi giorni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ancora molto rimane da fare dopo, quando si viene sovente dimessi con un cuore ancora malato. L'appello è stato rilanciato nei giorni scorsi da un convegno scientifico organizzato dall'Università di Brescia, “Heart Failure - Drug development at the crossroad”.

Il consesso ha ribadito la posizione italiana di “capitale” continentale del settore, sulla scia del recente Congresso romano della Società Europea di Cardiologia, preludio a quello della sezione nazionale che si terrà a dicembre, sempre nella capitale (proprio in questi è in scadenza la presentazione degli “asbstacts” per la Conferenza). Un primato che si ribadisce nell'efficacia crescente di molti degli interventi di emergenza nel nostro paese, grazie a buoni livelli di tempestività, chirurgie di precisione e farmaci salvavita adeguati.

Ma c'è un dato che viceversa non migliora, ed è quello della mortalità nei primi sessanta giorni dopo le dimissioni dall'ospedale al seguito di un infarto. Era ed è, dieci anni fa come oggi, mediamente del 4%, proporzione che sale al 10% per i pazienti ritenuti ad alto rischio.

Il nodo critico è soprattutto nell'“insufficienza cardiaca”, in cui il cuore non riesce a pompare abbastanza sangue per le esigenze dell'organismo. Oltre i 65 anni è la prima causa di ricovero in Italia, dove ne soffrono 600mila persone all'anno, con una frequenza che raddoppia all'avanzare di ogni decade d'età, arrivando al 10% tra gli ultrasessantacinquenni. Ebbene, i rischi tendono ad aumentare al seguito di un infarto.

Per prevenirli, è anche la scienza a dover compiere dei passi dinanzi alla varietà e complessità dei disturbi cardiaci, spiega la cardiologa Savina Nodari, presidente del Congresso bresciano: “ Abbiamo farmaci capaci di correggere meccanismi come l’attivazione dei sistema simpatico e del sistema renina-angiotensina, ma – aggiunge - non abbiamo terapie mirate sui meccanismi alla base ”. Servono insomma sperimentazioni e terapie meno generalistiche e più “personalizzate ”. E serve forse anche un'attenzione supplementare di tutti alla cautela post-operatoria. In assenza, l'effetto è quello di “nuovi ricoveri, una condizione di salute in costante peggioramento e per molti di essi la morte per arresto cardiaco”. In ciò non c'è alcuna “efficienza” sanitaria, oltre che alcuna cura.

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