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Riconoscere un problema è il primo passo per poterlo superare. L’importanza, definita “epocale” di una ricerca anglo-americana, risiede proprio in questo: l’esser riusciti a visualizzare per la prima volta, ad altissima risoluzione, i dettagli atomici della cosiddetta “proteina Tau”.

Riconoscere un problema è il primo passo per poterlo superare. L’importanza, definita “epocale” di una ricerca anglo-americana, risiede proprio in questo: l’esser riusciti a visualizzare per la prima volta, ad altissima risoluzione, i dettagli atomici della cosiddetta “proteina Tau”, largamente ritenuta la molecola celebrale chiave nel processo neuro-generativo legato all’Alzheimer.

Il notevole passo avanti, annunciato anche dalla rivista Nature, è di un gruppo di scienziati del britannico Medical Research Council assieme all’Indiana University School of Medicine. Lo studio ha permesso di individuare con chiarezza i filamenti della proteina, invisibili ai tradizionali microscopi, la cui presenza è considerata un marcatore dell’Alzheimer, alterando la funzionalità “stabilizzante” della molecola. Il risultato è stato ottenuto tramite “crio-micro-spia elettronica”, una tecnica utilizzata di recente per la visualizzazione molecolare a temperature molto basse.

“Si tratta di risultati scientifici importanti e promettenti, i più importanti nell’ultimo quarto di secolo”, sottolineano i ricercatori. E sarebbe un’ottima notizia per una patologia che coinvolge in Italia circa 600mila ultrasessantenni, e che richiede anzitutto una diagnosi tempestiva, su cui si fa in effetti molta ricerca nel nostro Paese, fino a poter predire forme di demenza “con un anticipo di otto anni”, secondo un recente approfondimento dell’Università di Firenze sulla base di dati comportamentali.

Sempre dall’Italia, è emersa di recente, dall’Università Campus Bio-Medico di Roma, la scoperta di un meccanismo di origine della malattia, scovato nell’area cerebrale della produzione della dopamina, neurotrasmettitore cruciale sulle dinamiche “umorali”, coinvolgendo anzitutto la cosiddetta area tegmentale ventrale, prima ancora dell’ippocampo. In altre parole, i processi di perdita della memoria non nascerebbero dall’area a essa primariamente associata, ma dal malfunzionamento di tali “meccanismi emozionali”.

Sono intuizioni preziose, che dal nostro Paese allargano la metodica e l’orizzonte dello studio della patologia. Dallo studio anglo-americano emerge però ora la possibilità coadiuvante di “vederla”, come prima non era mai stato possibile. Con quel che potrebbe rapidamente conseguire per dettagliare la comprensione del problema, dalla sua genesi ai potenziali terapeutici.

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