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È possibile sapere in anticipo, cioè prima dell'intervento chirurgico, se un paziente rischia l'occlusione del bypass aortocoronarico impiantato. Un gruppo d ricercatori dell’Unità di Biologia cellulare e molecolare cardiovascolare del Centro Cardiologico Monzino ha infatto identificato un biomarcatore che può fornire al cardiochirurgo informazioni preziose per ottimizzare la terapia farmacologica e quindi il risultato dell'operazione di bypass. Si tratta di un insieme specifico di microvescicole, particelle infinitesimali che vengono rilasciate dalle cellule dei vasi sanguigni e del sangue, che rispecchiamo uno stato di attivazione delle piastrine e di produzione di trombina, due condizioni favorevoli ai processi che portano all’occlusione del bypass. I risultati del lavoro italiano sono stati pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology.

«L’occlusione del bypass a un anno dalla chirurgia si verifica in circa il 20-25% dei pazienti, malgrado l’assunzione della terapia antiaggregante piastrinica a base di aspirina» spiega Marina Camera, autrice dello studio. «Il problema è capire in anticipo chi appartiene a quella percentuale, per potergli eventualmente somministrare una doppia terapia antiaggregante. Sappiamo infatti da studi recenti - continua - che somministrare più di un antiaggregante piastrinico, generalmente due, è più efficace nel prevenire la chiusura del bypass, anche se ciò potrebbe esporre maggiormente il paziente stesso al rischio di sanguinamento. Questi farmaci pertanto non devono essere somministrati a tutti indiscriminatamente, ma il loro impiego gioverebbe di un approccio personalizzato». Nello studio i ricercatori mostrano come sia possibile “pesare” il rischio di occlusione del bypass aortocoronarico attraverso lo studio delle microvescicole. «Queste particelle infinitesimali sono utilizzate da ogni cellula per la comunicazione con le altre cellule, come fossero 'postini biologici'», spiega Camera. «Sono riconducibili alle cellule di origine e, proprio per questo, sono in grado di segnalare un’alterazione dell’organo o tessuto da cui provengono, studiandone la quantità circolante ed il loro contenuto. Sfruttando la biobanca di plasmi costituita durante l’arruolamento di 330 pazienti sottoposti a bypass, abbiamo dimostrato - continua - come la presenza di una determinata combinazione di microvescicole, la cosiddetta firma molecolare, fosse associata a occlusione del bypass a un anno dall’intervento».

I risultati della ricerca mostrano infatti che, a parità di fattori di rischio, i pazienti con bypass occluso avevano un numero da 2 a 4 volte superiore del nuovo biomarcatore, cioè la firma molecolare di microvescicole, oltre ad una maggiore capacità coaugulante rispetto ai pazienti con bypass pervio. La firma rispecchia infatti una maggiore attivazione delle piastrine che, aggregandosi, possono formare trombi all’interno del bypass e generare molecole di trombina. Questa proteina, oltre al suo ruolo nella coaugulazione, può promuovere infiammazione e processi di proliferazione cellulare che inducono l’occlusione del bypass. «Il nostro studio offre uno strumento reale per personalizzare il trattamento farmacologico - dice Camera – perché il nuovo biomarker può aiutare il cardiochirurgo nella scelta del paziente da trattare con terapia antiaggregante più intensa e in quale misura. Ora i risultati andrebbero confermati in uno studio più ampio e multicentrico. Noi al Monzino siamo già pronti ad intraprendere questo nuovo studio perché disponiamo di un laboratorio tecnologicamente avanzato e di un team di ricercatori formati a un dialogo e ad una collaborazione permanente con i clinici».

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