Il “c’era una volta” qui non vale più, anche se si tende, colpevolmente, a pensare il contrario. Le “malattie socialmente trasmissibili” (Mst) rappresentano non solo una perdurante attualità, bensì perfino un fenomeno di ritorno, anche su patologie ritenute debellate. L’allarme è stato rilanciato nei giorni scorsi, all’ultimo Congresso nazionale dell’Associazione Dermatologi Ospedalieri (Adoi) a Roma.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le Mst più diffuse coinvolgono addirittura mezzo miliardo di persone, con tendenze all’aumento. In Europa, ad esempio, dal 2008 sono più che raddoppiati i casi di gonorrea. Il dato più impressionante in Italia è sulla sifilide, che si è quadruplicata dal 2000. Nel complesso, i contagi di Mst sono stati circa 3500 nel 2006, pochi anni più tardi sono stimati al doppio. Gli aumenti più netti riguardano le malattie batteriche, ma coinvolgono anche quelle virali, incluse le epatiti e l’Hiv.
La tendenza al recupero è iniziata “dalla metà degli anni ’90, soprattutto nelle grandi città”, spiega Antonio Cristaudo, presidente del Congresso, che punta il dito sulla “facilità degli incontri sessuali occasionali”, alimentata, a suo dire, anche dalla diffusione della comunicazione digitale a livello globale. Tra i casi limite, c’è il “linfogranuloma da Chlamydia”, prima confinato all’India e America Latina, e diffusosi negli ultimi quindici anni nel Vecchio Continente, al punto che l’European Surveillance of Sexually Transmitted Infections non lo considera più una “malattia rara”, ma un’autentica “epidemia”.
Cruciale, naturalmente, la prevenzione. “Allargare tra i ragazzi l'uso routinario del preservativo”, l’appello rinnovato dall’Adoi, ed è un'urgenza documentata da recenti indagini sui comportamenti degli adolescenti italiani, la metà dei quali non userebbe il profilattico, neppure in rapporti occasionali. Attenzione, però, perché il problema non riguarda solo i giovani. Al contrario, gli ultimi dati rivelano un picco di infezioni da Hiv soprattutto nella popolazione over-50, come se oltre una certa età ci si sentisse al riparo dai rischi.
Prevenzione comunque non significa solamente l’uso di contraccettivi. “Migliorare l’accesso alle strutture cliniche per le persone che sospettano un’infezione”, esorta Massimo Giuliani, dell'Istituto Dermatologico San Gallicano di Roma, ricordando tra l’altro l’esistenza di tecniche semplici, rapide e fuori dall’ospedale: “Oggi si può diagnosticare una sifilide su una goccia di sangue da un dito o fare nello stesso modo un test HIV a casa”.
Non è più fantascienza ma scienza, con qualche applicazione già avviata da qualche anno, soprattutto in superficie. La possibilità di rimediare a ferite senza ricorrere ad aghi e fili è una realtà che si alimenta di progressivi riscontri scientifici di promettente applicazione nel breve-medio periodo. L’ultima novità in materia arriva dall’Università di Harvard, in collaborazione con altri istituti americani e australiani, che in una pubblicazione sulla rivista Science Translational Medicine annuncia una “supercolla” chirurgica, altamente efficace e completamente biocompatibile.
L’hanno battezzata “MeTro”, acronimo di MEthacryloyl-substituded TROpoelastin, e avrebbe la capacità di chiudere le ferite, anche interne, in meno di un minuto. “Un buon sigillante dev’essere elastico, adesivo, non tossico e biocompatibile, la maggior parte dei prodotti attualmente sul mercato possiedono un paio di queste caratteristiche, ma non tutte”, spiegano da Boston, annunciando che la sostanza elaborata, invece, le avrebbe.
A renderlo possibile, tra l’altro, è il fatto che la proteina è derivata da fibre che compongono i tessuti umani, il che ne assicura al contempo la biocompatibilità e un’elasticità tale da poter funzionare dinanzi a tessuti altamente umidi e in movimento, come cuore, polmoni e arterie.
Si tratta di uno sviluppo che segue un’altra scoperta annunciata quest’anno dalla stessa Università americana, che aveva fatto leva sulle lumache, ossia sul loro muco, dotato di qualità assai adesive. L’esito di sperimentazioni su vari animali e su diversi organi, incluso il cuore e il fegato, è stato valutato molto positivamente.
Il passo in avanti di MeTro sarebbe in una tempistica accelerata dell'azione collante e nella sua origine umana, che permetterebbe al corpo di “riconoscere” subito la sostanza adesiva e poi assorbirla senza controindicazioni. Al contatto col tessuto, com’è emerso anche qui in test su animali con ferite interne, il gel si solidifica immediatamente, mantiene le sue proprietà per il tempo necessario alla completa saldatura (pochi secondi, per le piccole lacerazioni, ma nei casi più gravi il processo naturalmente può richiedere mesi), terminata la quale esso si degrada senza lasciare alcuna traccia di tossicità. Serviranno ulteriori riscontri da sperimentazioni umane, ma il passaggio clinico è oramai all’orizzonte, con i benefici che potrà apportare alla chirurgia, e anche alla medicina di pronto soccorso.
“Il problema è così grave da mettere a rischio le conquiste della medicina moderna”, scriveva già tre anni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) prendendo il caso talmente sul serio da prospettare l’allarme di “un’era post-antibiotica” e produrre un voluminoso rapporto, destinato a governi e cittadini. Questo suggeriva sostanzialmente due cose: che non va fatto l’errore di mettere in discussione l’importanza della terapia antibiotica, imprescindibile in molti contesti e settori, ma che al contempo serve con urgenza un monitoraggio “coordinato e armonizzato” oltre che un salto in avanti nell’informazione ai cittadini.
A tale obiettivo è stato ultimato in questi giorni un Piano nazionale, sulla scia di consultazioni regionali, nonché un vero e proprio “decalogo” presentato al ministero della Salute, alla presenza della Fao e della stessa Oms, da parte del “Gruppo Italiano per la Stewardship Antibiotica”. Quest’ultima è una società scientifica orientata proprio a un approccio multidisciplinare al problema “attraverso il confronto equo tra specialisti e prescrittori”. La presenza degli attori internazionali è cruciale per la natura globale del fenomeno, che in altri Continenti assume proporzioni ancor maggiori, mettendo a rischio le eventuali buone pratiche locali.
La strategia comprende tra l’altro una catena di “laboratori sentinella” a livello ospedaliero, sistemi di coordinamento regionali e nazionale, standard uniformi di monitoraggio, programmi di formazione, aggiornamento e ricerca, metodi accelerati di diagnostica, un ambito di comunicazione tramite un apposito sito web. Su tutti, però, emerge la priorità di un buon uso individuale dei farmaci, e di una maggiore attenzione in proposito da parte dei medici di base.
“Abbattere l’uso scorretto, spesso dovuto alle cure fai da te, ma ottimizzare anche l’impatto terapeutico, soprattutto nei pazienti più a rischio, cercando di ricorrere alla terapia più adeguata e per il minor tempo possibile”, sintetizza Francesco Menichetti, Presidente del Gisa. Nel piano, si fissa l’obiettivo di un a riduzione dell’impiego degli antibiotici entro il 2020 di almeno il 10% in ambito territoriale, del 5% in ambito ospedaliero, e del 30 nel settore veterinario.
Il tema è serio, le stime riferiscono di 4 milioni di infezioni l’anno da germi antibiotico-resistenti in Europa, con la conseguenza di oltre 37mila decessi prematuri. L’Italia è amaramente ai vertici, con una proporzione di pazienti infetti che arriva al 10%, ossia circa 300mila persone, con proiezioni che vedono per il futuro un’ulteriore impennata del fenomeno, fino a superare le morti causate dai tumori. Drammi personali, alti costi, anche pubblici, per le infezioni, stimati sui 230 milioni di euro l’anno, più o meno gli stessi che vengono spesi per i piani vaccinali. Sui farmaci serve appropriatezza e aderenza terapeutica (e questo riguarda anche gli animali, specie di allevamento), col fai da te si rischia un abuso che finisce a vanificarli.
http://www.informasalus.it/it/articoli/antibiotico-resistenza-italia-rischio.php
Qualcuno la chiama il “mal di testa del suicidio”, tanto è dolorosa, assidua e invalidante. Sulla cefalea a grappolo cronica – come peraltro per altri disturbi alla testa – le conoscenze mediche e i rimedi sono ancora parziali, a dispetto della gravità del problema. Una speranza arriva proprio dal nostro Paese, con la sperimentazione di una serie di anticorpi (alcuni prossimi alla commercializzazione) che, come annunciato all’ultimo congresso della Società Italiana di Neurologia a Napoli, addiverrebbero a risultati fin qui sconosciuti.
La ricerca è stata centrata su un piccolo “peptide”, chiamato Calcitonin Gene Related Peptide (CGRP), coinvolto nella trasmissione dei segnali dolorosi. “I suoi livelli aumentano in concomitanza delle crisi e tornano alla normalità quando l’attacco si risolve”, spiegano gli studiosi. Bloccandone l’azione, si arriverebbe quindi a disinnescare o a prevenire la crisi.
Ed è con tale obiettivo che si è tentata la strada degli anticorpi monoclonali. Sono in corso attualmente quattro sperimentazioni, che hanno finora fornito segnali assai promettenti. Il più vicino all’impiego clinico (su cui è già stata presentata domanda di autorizzazione al commercio presso l’apposita Agenzia europea), denominato Erenumab, a detta dei ricercatori è capace di “ridurre in media del 70% la frequenza e l’intensità degli attacchi di emicrania cronica con una sola iniezione sottocute al mese”.
La previsione è che i nuovi farmaci saranno utili soprattutto ai pazienti più gravi, ossia in presenza di cefalea cronica (oltre 14 attacchi al mese da almeno tre mesi) o episodica ma senza rispondenza dalle terapie farmacologiche standard. “Nella nostra casistica ci sono perfino pazienti che hanno di fatto risolto il mal di testa liberandosi dalle crisi”, riferiscono gli scienziati.
La speranza è dunque concreta e in un orizzonte temporale stimato abbastanza corto. Nel frattempo, come è emerso anche all’ultimo Congresso Europeo delle Cefalee a Glasgow, permane un problema che riguarda i farmaci preventivi, ed è il loro mancato utilizzo, stimato al 90% dei casi. Omissioni terapeutiche da superare con urgenza, considerando anche l’ampiezza del disturbo, che coinvolgerebbe circa l’1% della popolazione, che merita di essere curato.
Diversi giornali si sono “stuzzicati” citando soprattutto il caso dell'imminente scadenza brevettuale di un farmaco copiosamente acquistato contro le disfunzioni erettili, ma il tema è ben più vasto. Si tratta della salute degli italiani, ovvero delle possibilità di curarsi, purtroppo messe seriamente a repentaglio – all'evidenza di diverse indagini – dalle difficoltà economiche che coinvolgono una parte rilevante della popolazione. Tanti rinunciano, perché costa troppo. E la scadenza del brevetto vuol dire proprio questo: a “scadere” non è il prodotto, bensì la possibilità di produrlo e acquistarlo senza dover pagare i pur legittimi costi del suo “copyright”.
E quello in corso, per i farmaci generici, è un anno importante, perché le scadenze coinvolgono diversi medicinali, alcuni di amplissima diffusione. Si va dall'antistaminico all'anticolesterolo, dal farmaco per i problemi di prostata all'antipertensivo, dall'antivirale all'antiallergico, dall’analgesico all’antibiotico, dall’immunosoppressore all’antinfiammatorio. L'elenco è insomma copioso e include un vasto spettro terapeutico.
Le possibilità di risparmio sono notevoli, e in parte già in atto, tant’è che un’agenzia internazionale di monitoraggio, l’Ims Health, ha stimato una diminuzione del prezzo de farmaci in Italia del 15% negli scorsi cinque anni, proprio in relazione all’avanzata degli equivalenti. Ed è una tendenza destinata appunto ad accelerarsi con la quantità di brevetti in scadenza. Il settore è infatti in crescita, arrivando quest’anno al 21% del mercato in volumi (l’11,6% in valore, proprio per il minor prezzo), anche se si può fare molto di più, vista la comparazione con altri Paesi avanzati, e vista anche la discrepanza regionale, col Mezzogiorno ancora in ritardo. Insomma, si perdono ancora occasioni di risparmio a parità di cure, sia a livello individuale sia a livello ospedaliero, tant’è che nel “salvadanaio della salute” di Assogenerici si calcola nell’ordine di oltre 835 milioni di euro il differenziale pagato dal cittadino negli acquisti di medicinali “branded” rispetto agli equivalenti nel solo periodo da gennaio a settembre 2017.
È dunque cruciale alzare il livello di consapevolezza di tutti sull’importanza della posta in gioco, che tra l’altro non incide solo sulle tasche dei consumatori, ma perfino sull’efficacia delle cure. Un interessante studio americano ha recentemente documentato come la differenza di prezzo abbia un “effetto placebo” o addirittura “nocebo” sui pazienti: e cioè, se il farmaco costa di più, sono portati a pensare che esso sia più “potente”, sia sugli effetti terapeutici che su quelli avversi, e questo sembra poter indurre a un impatto psico-fisico reale, almeno nella loro percezione.
Sono pertanto i pazienti stessi ora a mobilitarsi per una svolta in proposito, ad esempio con la loro principale rete associativa, Cittadinanzattiva, che sta conducendo un apposito tour nelle regioni italiane. Si chiama “IoEquivalgo”, e mira a informare la collettività su una verità semplice quanto ancora, per l’appunto, osteggiata da qualche resistenza psicologica: la completa equivalenza dei generici – per legge e per rigorosi controlli - rispetto ai farmaci di marca. Il principio attivo è lo stesso, così come l’efficacia e la sicurezza terapeutica, a cambiare è solo il prezzo.
Una donna di 51 anni, un tumore sottomucoso allo stomaco. Sebbene fosse quindi localizzato nei suoi strati più profondi, l’asportazione non ha richiesto l’uso di larghi bisturi, è bastata una procedura endoscopica. È successo in Italia, per la prima volta nel mondo, presso l'Istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione (Ismett) di Palermo, ed è un risultato che tra l’altro conferma, pur tra mille problemi, ostacoli ed emigrazioni di cervelli, il permanere di eccellenze nel nostro Paese.
La donna è stata sottoposta a una delicata “gastrectomia cuneiforme”, ossia all'asportazione di un pezzo del tessuto dello stomaco a forma di cuneo. L'innovazione ha riguardato soprattutto la fase successiva, e cioè la chiusura della parete gastrica, avvenuta con una metodologia di sutura endoscopica, senza dover ricorrere, come da prassi, a pesanti tagli sulla parete addominale o a dolorose intubazioni di drenaggio.
“La letteratura scientifica riporta pochi tentativi di approccio endoscopico, solo in Cina alcuni interventi analoghi sono stati portati a termine ma con tecniche di sutura obsolete”, spiegano i medici siciliani, rivendicando un esito che può trovare applicazioni di vasta scala, considerando che si diagnosticano fino a 900 tumori analoghi in Italia. Di più, spiegano che “la tecnica può essere utilizzata per altri tumori anche in altre parti dell'intestino come il retto il colon e l'esofago”.
Si diceva delle eccellenze italiane, e in questo settore in effetti abbondano. È cambiato radicalmente il paradigma. “Grande taglio, grande chirurgo” si diceva un tempo, mentre oggi si dice il contrario, l'orizzonte è divenuto quello della “chirurgia mini-invasiva”, per arrivare ora perfino alla sola endoscopia, con acclarati benefici sull'esito terapeutico dell'intervento, oltre che sui tempi di recupero.
Nella fattispecie, la paziente è stata in grado di muoversi già al risveglio dall'anestesia, di rialimentarsi autonomamente dopo 48 ore e di lasciare l'ospedale a soli tre giorni dall'intervento. L'esito è straordinario, del resto in linea con interventi endoscopici già diffusi su altri ambiti, incluso quello cardiologico, nel quale, assicurano altri studiosi italiani, tale metodologia arriverà presto ad applicarsi sul 70% delle operazioni.
Consulti gratuiti, piazze allestite in tutta Italia per informare, sensibilizzare cittadini e istituzioni e aiutare tutti “a vederci chiaro”. Lo slogan della Giornata Mondiale della Vista, celebrata nei giorni scorsi in tutte le Regioni su iniziativa della Iapb Italia – sezione nazionale dell’International Agency for the Prevention of Blindness – rappresenta un richiamo all’importanza cruciale della materia (la vista è tra l’altro fonte dell’80% delle informazioni che riceviamo) quanto all’esigenza di affrontarla anzitutto con l’arma della prevenzione.
I numeri sono impressionanti: sono oltre 250 milioni le persone che vivono con una disabilità visiva, un decimo dei quali è irreversibilmente cieco. Ma sui problemi oculari in senso lato si arriva a quasi la metà della popolazione mondiale, e gli ipovedenti (con un residuo visivo che, nei casi più gravi non supera la frazione di 1/10) sono stimati a circa 227 milioni. Danni per certi versi ineludibili, e destinati ad allargarsi dato l’invecchiamento complessivo della popolazione, e tuttavia l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, nell’80% dei casi, si tratta di problematiche evitabili con la prevenzione, che nell’insieme risulta insufficiente.
“Se non si garantiscono adeguati servizi di prevenzione, cura e riabilitazione visiva – incalza Giuseppe Castronovo, presidente della Iapb – il numero di coloro che perderanno la vista o diventeranno ipovedenti è destinato ad aumentare inesorabilmente; la salute visiva deve avere maggiore rilievo nell'agenda sanitaria pubblica, per evitare che al dramma umano della sofferenza si aggiunga un aggravio di spesa sociale per lo Stato”.
Il richiamo è alle istituzioni, ma vale anche per ciascuno di noi, a iniziare dall’esigenza preventiva di periodiche visite oculistiche, al fine di affrontare il problema prima che sia troppo tardi. Sono consigliate (anche in assenza di disturbi) alla nascita, intorno ai tre anni, nel periodo scolastico, poi verso i quaranta - con l’insorgenza fisiologica della presbiopia, e infine, dopo i cinquanta, a scadenze suggerite dallo specialista.
Ci sono le visite ma, non meno importante, ci sono i comportamenti, che nei tempi moderni possono essere deleteri, per l’onnipresenza dei monitor, a iniziare dai computer. Su questo, i piccoli accorgimenti possono fare la differenza. Tenere una distanza di circa 70 centimetri, osservare una pausa almeno ogni due ore per evitare il sovraccarico, mantenere nella stanza una luce uniforme e diffusa per non affaticare troppo la vista (male la lampada da tavolo col buio intorno). E poi, spiega su Repubblica l’optometrista Idor De Simone, è importante un po’ di “allenamento” per l’occhio. Ad esempio, “coprire alternativamente un occhio, per metà del tempo, e poi l'altro, osservando l’avvicinamento lento alla punta del naso di una penna che poi allontaniamo”. Esercizio facile, quanto prezioso.
Il tema è affascinante quanto promettente, il presupposto è presto spiegato. Larga parte delle molecole utilizzate in medicina viene da organismi terrestri, e al contempo larga parte della superficie del pianeta è ricoperta da mari e oceani, dove vivono migliaia di microorganismi ancora non studiati. Questo universo sommerso è stato al centro del Festival della ricerca “Trieste Next 2017”, dove sono state perorate prospettive multidisciplinari di ricerca che includono anche l'ambito “sociologico”, e perfino quello della “comunicazione”.
Non si tratta di “scienza della fantasia”: il mare ha già consegnato da tempo, tra ricci, vongole e tunicati, la materia prima di vari medicinali. Viene citato, tra gli altri, la trabectedina, un antitumorale concepito quasi 50 anni fa da un organismo che vive nel mar dei Caraibi, o l'eribulina, isolata e “copiata” da una spugna marina, e impiegata contro il carcinoma mammario avanzato.
Le prospettive sono comunque ben più ampie. “I meccanismi cellulari che sono alla base della crescita e dello sviluppo di organismi come i ricci di mare si sono conservati durante l’evoluzione e funzionano allo stesso modo nell’uomo”, spiega la microbiologa Laura Steindler, dell'Università israeliana di Haifa, e le analogie hanno già condotto ad alcuni risultati: “Ad esempio analizzando i ricci di mare si è capito come si dividono le cellule e si è scoperta un’importante proteina, la “ciclina”, che inibisce la crescita tumorale”.
Tra i nostri potenziali alleati, ci sono i batteri marini. E tra gli elementi in gioco c’è anche la loro “organizzazione sociale”. “Oggi sappiamo che essi si comportano come un gruppo e non come singoli, una scoperta che ha rivoluzionato la microbiologia”, ricorda il batteriologo Vittorio Venturi, del Centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologie di Trieste.
La scoperta apre nuovi scenari in tema di antibiotici. “I batteri che vivono in simbiosi con un calamaro producono luce solo quando sono in tanti, sicché agiscono e 'comunicano' solo quando sono in tanti”, spiega Venturi, sottolineando come l'orizzonte sia ora perciò quello di indebolire non i singoli batteri ma la loro comunità e comunicazione. “Scenario smisurato che vanta potenzialità immense”, il commento ottimistico dello scienziato.
https://www.icgeb.trieste.it/home.html
Si dice che “la salute è la prima cosa”, e in effetti se ne scrive sempre di più, eppure c’è stato curiosamente un sostanziale silenzio mediatico su un recente corposo rapporto dell’Istat, che racconta parecchio su come stanno gli italiani e dove stanno le criticità maggiori. Il dossier è centrato sugli anziani del Belpaese, comparandone le condizioni fisiche con quelle degli altri Paesi europei. In estrema sintesi (i dati raccolti si riferiscono prevalentemente al 2015), l’Italia si conferma ai primi posti nelle classifiche sulla longevità, ma al contempo la salute della popolazione anziana si rivela peggiore rispetto alle medie europee.
Un paradosso che evidenzia forse qualche problematica in merito alla sedicente “sanità migliore al mondo” e chiama all’attenzione i decisori istituzionali e gli addetti ai lavori, anche al di là dello stretto ambito sanitario. Nel dettaglio, una volta giunti ai 65 anni, gli italiani hanno mediamente una speranza di vita residua di quasi 19 anni tra gli uomini, e di oltre 22 per le donne, ossia circa un anno in più rispetto alla media dell’Unione Europea, dove ci collochiamo al terzo posto, dietro solo a Francia e Spagna.
Ma com’è la qualità della vita così lunga? Qui son dolori: l’Italia precipita ai livelli più bassi.
Alcuni dati: la speranza di vita “in buona salute” per i 65enni maschi italiani è di 13,7 anni, per i coetanei britannici si sale a 16,1. Tra le donne, la buona salute è concessa per altri 14,3 anni in Italia, mentre in Francia si sale a 19,3.
L’Istituto di Statistica sottolinea inoltre che il divario negativo non si determina subito: fino ai 74 anni le condizioni degli italiani risultano anzi nell’insieme migliori rispetto al resto d’Europa. E’ dopo i 75 che si determina lo scarto in materia di incidenza delle patologie croniche, in particolare dell’artrosi, che colpisce in prevalenza le donne. E’ come se fino a una certa età resistessero i benefici legati al clima e alla dieta mediterranea (che spingono anche il primato dei Paesi dell’Europa meridionale in tema di longevità), mentre all’apparire dei problemi più seri, con l’avanzare dell’età, l’Italia risultasse meno preparata degli altri.
In effetti, il rapporto conferma l’importanza di variabili economiche e di qualità dell’assistenza sanitaria sulla salute della popolazione. Nella fascia più povera la “multicronicità” colpisce il 55,7% degli anziani, tra i più ricchi si scende al 40%. Analogamente, essa colpisce il 56% nel Mezzogiorno, e solo il 42,7% al Nord. Scarti analoghi sono riscontrati per quanto riguarda l’incidenza delle malattie croniche gravi e delle situazioni di seria limitazione motoria. E sono dati del tutto paralleli, si noti, ai livelli di soddisfazione espressi sull’aiuto socio-sanitario ricevuto. Segnali da prendere dunque molto sul serio, che confermano il nesso tra le condizioni tendenziali di salute e la qualità dell’assistenza, di cui gli anziani hanno vitale bisogno. E data l’evoluzione demografica in atto, è un bisogno destinato a crescere.
Suona come un paradosso, e invece sta emergendo a verità dai sempre più solidi riscontri scientifici. La periodica interruzione di una dieta non la vanifica, bensì può anzi risultare il viatico a una sua più alta efficacia, sia nel breve che nel lungo periodo. L’ultimo studio in proposito è dell’Università della Tasmania (in collaborazione con quella di Sidney), finanziato da un’autorità pubblica australiana (la National Health and Medical Research Council) e pubblicato sull’International Journal for Obesity.
L’esperimento ha coinvolto 51 uomini obesi, tutti sottoposti a un regime dietetico per sedici settimane, ma con una variante. Alcuni lo hanno seguito in maniera consecutiva, altri lo hanno seguito con alternanze bi-settimanali, e cioè osservavano la dieta per quindici giorni, e nei successivi quindici la sospendevano, benché senza strafare, ossia seguendo ritmi alimentari “normali”, limitati solo all’imperativo di non ingrassare, sicché il percorso complessivo, così “ammorbidito”, si è protratto per loro per un totale di trenta settimane.
Strano ma vero, l’esito è stato una discrepanza notevole in favore dei secondi, con una perdita di peso ben superiore. Inoltre, hanno allargato tale vantaggio nel tempo, tant’è che a un riesame effettuato sei mesi dopo la conclusione della dieta hanno ribadito un dimagrimento medio di otto chili in più, palesando quindi anche rischi inferiori di recupero del sovrappeso post-dieta.
Si tratta ora di capire il perché di tale fenomeno, la cui valenza sembra comunque oggettiva: “Le interruzioni della dieta sono decisive per il buon esito della stessa”, afferma Nuala Byrne, coordinatrice dello studio, ricordando gli analoghi esiti di altre recenti ricerche. Capire le ragioni di tale successo può essere del resto cruciale alla comprensione generale dei nostri meccanismi metabolici.
Gli studiosi australiani chiamano allora in causa “l’ambito energetico” implicato nel metabolismo, reso fin troppo “dormiente” durante la dieta, perciò almeno in parte vanificandola. Al contempo, esisterebbe una sorta di antica “reazione alla fame”, ossia un meccanismo di sopravvivenza innescato nei millenni dagli esseri umani, orientato proprio a vanificare gli effetti della mancanza di cibo. Tutto questo significa che le diete troppo drastiche tendono a funzionare poco, perché avremmo dentro di noi gli “anticorpi” per neutralizzare almeno in parte le carenze alimentari. Percorsi più equilibrati, o per l’appunto “alternati”, permetterebbero viceversa di disinnescare le “autodifese dalla dieta”, garantendone quindi l'obiettivo.
È una scoperta tutta italiana, che apre a nuovi orizzonti terapeutici in senso stretto, ma dice anche qualcosa di più ampio sulla natura “olistica” di un buon percorso terapeutico. La si legge sulla rivista internazionale Jama Oncology, ed è il frutto di un lavoro coordinato dal Dipartimento di Scienze Dermatologiche dell’Università di Firenze.
Gli studiosi hanno monitorato per un triennio oltre 50 pazienti affetti da melanoma, quasi la metà dei quali trattati con un comune ed economico principio attivo, il “propanololo”, utilizzato solitamente per il trattamento dell’ipertensione. La sperimentazione non è nata da una curiosa intuizione, ma dall’esperienza diretta. “Ci siamo accorti che avevamo pazienti 'long survivors' con melanomi molto aggressivi – spiega il coordinatore dello studio Vincenzo De Giorgi - e abbiamo notato che tutti avevano ipertensione e altre patologie per cui sono indicati i farmaci beta bloccanti”.
Da quel concreto segnale è dunque iniziato lo studio, che ha dato esiti oggettivamente notevoli. Anzitutto, “dopo tre anni il 41% dei pazienti non trattati aveva avuto una progressione della malattia, contro il 16% degli altri”, nota De Giorgi. Di più, è emerso che con tale farmaco “la progressione del melanoma si riduce dell'80%”.
Sono dati che, a detta degli stessi studiosi italiani, necessitano di riscontri scientifici di più vasta scala, ma l’indicazione appare significativa, e chiama già alle interpretazioni. Una riguarda la classe menzionata di farmaci, che, anche nel lungo periodo, andrebbe a “impedire la vascolarizzazione del tumore, una condizione necessaria per la sua crescita”, per giunta senza gli effetti collaterali che possono derivare da medicinali più aggressivi.
L’altra “è legata allo stress a cui sono sottoposti i pazienti, che provoca il rilascio di adrenalina che favorisce la comparsa dei tumori”, su cui agisce quel tipo di farmaco. In questo subentra l’indicazione più generale, ossia quella che punta il dito sulle pressioni psicologiche cui siamo sottoposti. Queste non sono solo turbative, magari controllabili, del solo ambito neurologico, bensì possono seriamente minare la nostra salute generale, sul piano della prevenzione quanto della cura, anche in ambito tumorale.
“Quando non sanno come prendere i soldi alzano i prezzi delle sigarette”, si lamenta da sempre, con ragioni inconfutabili, qualunque sia il Governo del momento. Solo che a invocare tali rialzi non sono stavolta i tecnici di qualche ministero o partito, ma gli stessi operatori sanitari, con appelli e cifre circostanziate divulgate da tempo.
Queste riguardano anzitutto la portata del problema del fumo, che secondo una recente indagine globale provoca una strage da 6 milioni di morti l’anno, circa 100mila solo in Italia, la metà per tumori, l’altra metà per patologie cardiovascolari e respiratorie, con tutto quel che consegue anche in termini di costi per i contribuenti e per l’intero sistema economico e sanitario.
Da qui l’appello, sottoscritto a inizio anno da una trentina di società scientifiche italiane per la messa in atto di un’aggressiva strategia nazionale che faccia leva soprattutto su politiche di prezzo. Il presupposto non è punitivo ma appunto scientifico. Un altro studio globale ha stimato recentemente che un aumento di prezzo consentirebbe di ridurre di circa un terzo l’entità di tale strage. Nel dettaglio, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “se tutti i paesi aumentassero le accise di circa 0,80 dollari a pacchetto, i prezzi al dettaglio delle sigarette aumenterebbero di circa il 42%, portando a una diminuzione dei fumatori pari al 9%, ovvero a 66 milioni di tabagisti adulti in meno".
Sull’obiezione di una penalizzazione selettiva delle fasce più deboli innescata dall’aumento del prezzo, gli esperti rovesciano il problema. “Sono soprattutto i fumatori a reddito basso e con bassi livelli di scolarizzazione a beneficiare dell’aumento del prezzo”, spiega l’epidemiologo Giuseppe Gorini, notando che i più abbienti siano viceversa meno sensibili, proprio per la loro migliore situazione materiale, alle strategie basate sui costi.
“L’aumento del prezzo è una strada già percorsa con successo da altri Paesi come l'Australia, la Norvegia e l'Irlanda”, incalza il presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica Carmine Pinto, che stima un “recupero di 700 milioni di euro l’anno” per il solo rialzo di un centesimo a sigaretta. Sempreché, naturalmente, non si tratti di un sotterfugio fiscale per coprire qualche “buco” qua o là, bensì di una seria “battaglia di civiltà” orientata strategicamente a spendere quei risparmi nel miglioramento della ricerca e nel sostegno farmacologico alle famiglie.
È soprattutto la stampa inglese, a iniziare dal Guardian, più ancora di quella americana, ad aver dedicato in questi giorni ampio e ripetuto spazio al tema del riposo, forse nella consapevolezza dell’importanza della problematica, nonché dell’approccio “rivoluzionario” perorato dal direttore del Center for Human Sleep dell’Università della California. Il tema è sollevato da un libro di Matthew Walker, che fissa alcuni concetti fondamentali sull’importanza del riposo per la nostra salute, fuori da una serie di preconcetti, anche culturali, che lo disturbano. Secondo l’autore, sarebbe in atto una “catastrofica epidemia di perdita del sonno”. Nel 1942, nota, meno dell’8% degli euro-americani sopravviveva con 6 ore di sonno o meno, per giunta in tempi di guerra, mentre ora è il tempo di riposo che caratterizza circa la metà della medesima popolazione. Ammiriamo i nostri nonni, constatiamo la longevità dei sopravvissuti, e al contempo non ci accorgiamo che essa si sia costruita “nonostante” quel difetto di riposo, e non in suo merito, come talora siamo condotti a pensare per la frenesia dei tempi moderni. Ed è un pensiero sbagliatissimo. “Nella società occidentale odierna, ci si vergogna a dire che si dorme molto, dormire poco viene considerato un distintivo di onore, qualcosa di cui vantarsi: è imbarazzante ammettere in pubblico che si dormono otto ore per notte, si fa la figura del pigro”, nota Walker, mentre la verità sanitaria è l’opposta: “Dopo una sola notte di 4 o 5 ore di sonno, le cellule naturali killer, quelle che attaccano le cellule tumorali che appaiono nel tuo corpo ogni giorno, diminuiscono del 70%, una mancanza di sonno è legata ai rischi di infarto, ansia, depressione, diabete, ictus, al cancro dell'intestino, alla prostata e al seno, tanto che perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha classificato qualsiasi forma di lavoro a turni notturni come un possibile cancerogeno”. Per ricordare qualche numero, la stessa Oms classifica le otto ore di sonno come imperative, e al di sotto delle 7 si arriva a seri rischi sanitari e a una speranza di vita media di poco più di 60 anni: Ancora, uno scarso riposo inficia perfino le capacità riproduttive, oltre che le probabilità di incidenti e i cali di performance sportiva. Insomma, conclude Walker, “le scuole dovrebbero cominciare a considerare un inizio ritardato la mattina, e le aziende dovrebbero cominciare a considerare il riposo come fattore di produttività anziché il contrario”. A conferma del fatto che il primo medicinale per il nostro corpo, il suo elisir di lunga vita, è proprio il riposo.
È uno dei problemi più dibattuti nella medicina dei nostri giorni, talmente diffuso da sfuggire a volte perfino all'attenzione degli operatori sanitari. È noto da vent'anni che, tra le terapie maggiormente esposte a una scarsa “aderenza”, ossia a un cattivo utilizzo o all'abbandono dei farmaci a detrimento degli effetti terapeutici, svetta il diabete di tipo 2. A pesare, probabilmente, la frequenza dei trattamenti prescritti e magari l'istinto a prendersi qualche “pausa” in relazione a provvisorie sensazioni di benessere. A rilanciare l'attenzione sul tema è ora la pubblicazione, sulla rivista Diabates Care, degli esiti di uno studio in materia del Boston Children's Hospital. I ricercatori hanno riesaminato i dati clinici di oltre 52mila pazienti, di cui quasi 23mila sottoposti ad un trattamento “di seconda linea”, dopo il fallimento delle terapie di prima istanza. L'alta incidenza di questi ultimi - quasi la metà delle persone osservate - è di per sé ritenuta dagli studiosi un indicatore di conti che non tornano. In effetti, approfondendone la storia pregressa, è emerso che solo l'8,2% dei pazienti di seconda linea aveva seguito correttamente la terapia coi farmaci di prima linea nei due mesi precedenti al cambio di trattamento. Addirittura, il 28% non li aveva assunti affatto. La poca aderenza alle terapie è un rischio concreto per la salute, specie in età avanzata, come documentato anche da un recente convegno di Federanziani, che richiama alla responsabilità l'intero settore socio-sanitario, inclusi medici, farmacisti, familiari e fa appello anche all’utilizzo delle nuove tecnologie a supporto di una maggiore adesione dei pazienti al corretto percorso terapeutico. La ricerca Boston Children's Hospital svela peraltro una problematica ulteriore. Una cattiva aderenza terapeutica porta con se il rischio di ripercussioni anche sull'appropriatezza delle prescrizioni. “Apparenti fallimenti del trattamento farmacologici vengono spesso confusi con la scarsa aderenza terapeutica”, documentano gli scienziati americani. In altre parole, accade che i medici prescrivono erroneamente medicinali “di seconda linea”, magari più aggressivi, presumendo l'inadeguatezza di quelli prescritti in precedenza, mentre magari il problema sta solo nel solo fatto che “i primi” sono stati semplicemente usati male.
Tra termometri riesumati e l'imminente arrivo del periodo vaccinale, consigliato tra metà ottobre e fine dicembre, si è già aperta la lunga stagione delle influenze, con qualche segnale preoccupante dall'emisfero meridionale, in particolare dall'Australia, dove la stagione fredda ha conosciuto picchi endemici ben più estesi rispetto agli anni precedenti, col risvolto di un aumento dei ricoveri, specie tra gli anziani, per problemi polmonari. Ad alimentare qualche timore sono anche i numeri sulle prime febbriciattole post-estive, alimentate dagli sbalzi di temperatura e dai ritorni a scuola, sicché almeno 80mila italiani sarebbero già costretti a letto in questi giorni. E i virus identificati sono addirittura 262, che però non rappresentano delle vere e proprie “influenze”, e si differenziano anche per il contesto meteo nei quali prosperano, ossia non il freddo intenso quanto i repentini mutamenti di temperature comunque miti. Ciò detto, a dispetto di qualche titolo giornalistico, l'allarme non c'è, o meglio le stime per la prossima stagione invernale sembrano sostanzialmente ricalcare quelle dell'anno precedente. I ceppi virali saranno gli stessi, quindi noti alla ricerca vaccinale, con una sola novità attesa, ossia l'A/H1N1, detta “Michigan”, del resto già “coperta” dai nuovi vaccini. Nelle parole degli specialisti, si prevede un “anno interpandemico”, di “media entità”, come conferma anche il ministero della Salute. Niente allarmismi, dunque, anche se le proiezioni stesse sulle persone colpite, in linea con i mesi scorsi, sono tutt'altro che esigue. L'influenza in senso stretto colpirà circa 5 milioni di italiani, altri 10 milioni saranno coinvolti da virus parainfluenzali, con conseguenze talora assai pericolose. I “morti di influenza” accertati in senso stretto sono stati 68 nell'ultimo inverno, ma quelli legati a comorbidità sono stimati addirittura a 8mila. La fascia più a rischio rimane quella degli anziani, ai quali è prioritariamente raccomandato il vaccino, la cui efficacia, spiega il presidente dell'Associazione Microbiologi Italiani Pierangelo Clerici, “è stimata al 70-90%”. Tuttavia, l'anno scorso la copertura non ha raggiunto neppure il 50%. “Troppo poco se si pensa che in questa fascia d’età il 10% dei casi di influenza va incontro a complicanze”, segnala lo specialista Fabrizio Pregliasco, dell'Università di Milano. “Tuttavia -conclude il virologo - anche su questo che emergono segnali incoraggianti: dopo una disaffezione per il vaccino antinfluenzale, parallela a quella per gli altri vaccini, ultimamente i dati sono in miglioramento”.
È un fenomeno dei nostri tempi, che sta cambiando il nostro rapporto con il mondo, incluse le persone più vicine, a velocità impressionante. L’immagine di persone che deambulano a testa bassa, chine sul proprio smartphone, sono un segnale inquietante che, vissuto individualmente, sembra oramai una normale prassi, almeno a tratti necessaria, ma guardata con una sorta di “grandangolo” svela aspetti di pericolosa patologia collettiva. L’allarme è anche sanitario, come sottolinea in questi giorni uno studio australiano. È cioè in atto una vera e propria dipendenza patologica da internet, e in particolare dai social network. “I sintomi tipici sono simili a quelli della dipendenza da droghe e alcool: sbalzi di umore, uso crescente nel tempo di internet, possibili crisi di astinenza, conflitti, e ricadute dopo che l'uso di internet viene ristretto”, spiega Mubarak Rahamathulla, della Flinders University di Adelaide, che ha elaborato in proposito una “teoria generale della tensione”, sulla base di un dato riscontrato di fondo, ossia “la relazione diretta tra dipendenza da internet e comportamenti problematici nei siti social”. Il problema però non è solo quello del comportamento sul web, ma nella stessa vita reale, e questo mette a rischio soprattutto i più giovani, non solo per la minore età, ma anche per il fatto che non hanno mai conosciuto un mondo “senza” social, telefonini e internet. Rischia di sfociare in tendenze violente, il ritiro sociale, l’incapacità di concentrarsi e l’abuso dei giochi. Ed è soprattutto sui giovani stessi che lo psichiatra americano Ivan Goldberg ha coniato la formula dell’Internet Addiction Disorder, ossia appunto la “sindrome da dipendenza dal web”. I sintomi vanno dalla frenetica esigenza a rispondere ai messaggi, alla “sindrome del cellulare fantasma” (il diffuso sentore di sentire le vibrazioni del cellulare anche quando non ci sono), dalla paura di rimanere poco aggiornati da quel che dicono gli “amici”, alla preferenza del cellulare alla conversazione fisica con gli amici e parenti mentre si sta a cena, dall’ansia da “astinenza” nei momenti in cui si è lontani dal cellulare, allo scarso rendimento a scuola o al lavoro per l’ossessiva consultazione della rete. La preoccupazione è anzitutto per le nuove generazioni, dunque, ma l’implicazione socio-sanitaria è per tutti. “Si genera una barriera alle emozioni, contro il dialogo e l’empatia della condivisione”, spiega Federico Tonioni, responsabile dell’Area delle dipendenze del Policlinico Gemelli di Roma, riferendo che “dal 2009 abbiamo seguito più di 1.100 nuclei familiari tra ragazzi e genitori”, e notando che “spesso è il percorso dei secondi a portare ad un miglioramento dei primi”. Quel percorso inizia semplicemente spegnendo spesso e volentieri il prezioso dispositivo, specie quando si sta insieme.
L’appena trascorsa 24esima “Giornata Mondiale” dedicata all’Alzheimer, tra convegni scientifici, rapporti, conferenze ed eventi socio-pedagogici allestiti in decine di città italiane, è stata anche l’occasione per fare il punto sulla patologia, e su come affrontarla. Con segnali per certi versi poco incoraggianti, tra il consenso crescente sullo scarso esito delle terapie sviluppate contro la demenza conclamata e le previsioni sul dilagare del problema. Ogni anno si accertano nel mondo quasi dieci milioni di nuovi casi di demenza, raggiungendo la cifra complessiva di circa 47 milioni di persone, due terzi delle quale specificamente malate di Alzheimer. L’Italia è all’ottavo posto nella triste classifica, con 1,4 milioni di malati di qualche forma di demenza, in circa la metà dei casi Alzheimer. E le proiezioni dicono che questi numeri si triplicheranno a livello mondiale entro il 2050, complice l’invecchiamento della popolazione. A fronte di questo, mancano ancora trattamenti risolutivi. “Gli anticorpi contro il peptide beta amiloide (primo indiziato tra i presunti colpevoli dell'Alzheimer) che sono stati oggetto di tanti studi clinici – spiega tra gli altri Stefano Govoni, dell’Università di Pavia - non hanno raggiunto esiti clinici apprezzabili e i benefici per i pazienti, sin qui osservati, sono davvero molto modesti”. Il riconoscimento di un sostanziale “fallimento” finora è pressoché unanime, così come l’annuncio di un “cambio di paradigma”, legato alla natura “complessa e multifattoriale” del problema, che include processi infiammatori, fattori molecolari, problemi vascolari e anche aspetti sociali (incluse le percezioni altrui) e comportamentali (ovvero gli stili di vita). Ma è proprio in quel cambiamento che la buona notizia c’è, soprattutto sul fronte della prevenzione, incluso l’aspetto diagnostico. L’orizzonte, ritenuto imminente, è quello di un insieme composito di test. Si tratta cioè di combinare una serie di esami facili e a basso costo, del sangue (per cercare molecole presenti solo nel plasma di chi è destinato ad ammalarsi anche 10-20 anni dopo), della retina e di altri tessuti che possano presentare anomalie predittive, nonché di una risonanza cerebrale decodificata da un software messo a punto, a quanto annunciato, dall’Università di Bari. Saranno esami destinati a individuare fattori di rischio, riscontrati i quali potranno eseguirsi test più costosi e invasivi (dalla tomografia all’esame cerebro-spinale). In quel cambio paradigmatico c’è anche una dimensione di pubblica informazione, a iniziare dall’imperativo di “combattere lo stigma”, tuttora attuale. Nelle parole di Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, “la persona con demenza deve essere vista per quello che è: prima di essere un malato, è una persona esattamente come tutti noi, con una dignità che va rispettata e tutelata”.
L’insufficienza di vitamina D fa impennare il rischio per le donne di ammalarsi di sclerosi multipla. Lo ha documentato un esteso studio dell’Università di Harvard, pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista Neurology, che arriva a invocare “ampi interventi delle autorità sanitarie pubbliche per incrementarne i livelli”. La ricerca è stata condotta sui campioni di sangue prelevati da ben 800mila donne in età fertile della Finlandia: una scelta determinata proprio dalla storicamente diffusa e acclarata carenza di tale vitamina nella popolazione femminile, dovuta forse alla relativa scarsità di luce solare, che permette al nostro corpo di sintetizzare la vitamina. Lo studio ha preso anche in esame 1.092 donne che si sono ammalate nei nove anni successivi ponendo dati rilevati a confronto con quelli registrati relativo ad altre 2.123 donne che non hanno sviluppato la patologia. Il parametro usato per definire la “carenza” vitaminica è nella quantità inferiore ai 30 nanomoli al litro. I livelli sono poi definiti “insufficienti” tra i 30 e i 49 nanomoli, al di sopra dei quali si rientra nella normalità. Sulla base di questo, le finlandesi “carenti” sono in effetti risultate tantissime, ossia il 58% della popolazione osservata. L’aspetto più rilevante è peraltro proprio l’alta incidenza del difetto della vitamina D sull’esposizione alla malattia. Le donne con “insufficienza” vitaminica risultano avere un rischio incrementato del 27% di sviluppare la sclerosi multipla, e il balzo arriva al 43% per quelle “carenti”. Sebbene gli autori americani riconoscano la necessità di ulteriori riscontri e la presenza di limiti in questo studio (quali la mancata comparazione con soggetti maschi), le cifre sono statisticamente assai significative di una tendenza reale. E’ una conferma che allarga il concetto dell’importanza – ovvero dei “molteplici benefici”, nelle parole degli studiosi di Harvard – di un adeguato controllo sui livelli vitaminici, nonché, nel caso della vitamina D, del contributo del sole su tanti aspetti della nostra salute, inclusa la prevenzione da alcune tra le più insidiose malattie.
E’ a malapena nel nostro vocabolario, eppure è una patologia diffusa e letale, tanto da contagiare circa 250mila italiani l’anno (e circa 26 milioni di persone nel mondo), uccidendone circa un quarto. Si tratta di un’infezione diffusa, che può colpire in una sorta di paralisi gli organi essenziali, dal cervello ai polmoni, dai vasi sanguigni al cuore, e non assolve gli ambiti ospedalieri, tanto da coinvolgere anzi, fino al 7%, i pazienti ricoverati, per le resistenze e le contaminazioni ivi attivate.
E’ chiamata anche “sepsi”, dall’eloquente termine greco che indicava la “putrefazione”, quale reazione infiammatoria all’invasione dell’organismo di microrganismi patogeni, un fenomeno che, seppur largamente sconosciuto, ha tassi di mortalità superiori perfino a disgrazie diffuse come l’infarto o l’ictus.
Pericolosità tali che addirittura, lo scorso maggio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha decretato la setticemia come “emergenza sanitaria globale”. Non lo è più il virus Zika, per esempio, lo è la “sepsi”, seppure non rappresenti una “nuova” patologia, ma un’infezione antica. Il problema principale, a detta degli esperti stessi, è la scarsa conoscenza, a fronte per giunta di costi di cura e ospedalizzazione enormi, oltre i 25mila euro a paziente.
Può colpire chiunque, anche se le categorie deboli, anziani e bambini, restano le più esposte. Con tassi di mortalità appunto elevatissimi, che si innalzano dell’8% per ogni ora di ritardo nel trattamento.
Il tema è pubblico, e rivolto anche ai pazienti, tant’è che nei giorni scorsi è ricorsa la “Giornata Mondiale”, con eventi informativi in varie città italiane, ma il messaggio è anzitutto rivolto agli addetti ai lavori. Si tratta di usare per bene gli antibiotici, riconoscere i sintomi, prescrivere i farmaci più adeguati a ridurre le resistenze attivate dalla malattia che alimentano le infezioni. L’informazione pubblica è anche qui essenziale, ma il salto di qualità nell’attenzione è in questo caso richiesto soprattutto ai medici.
Credits immagine: cnbc.com
Definire “filantropo” – come spesso fanno i media – l’uomo più danaroso al mondo è probabilmente un complimento eccessivo. Nondimeno ci sono un paio di oggettive virtù nella Fondazione istituita e alimentata da Bill Gates: l’enormità dei danari erogati in attività sociali (su cui da qualche anno lavora a tempo pieno, avendo abbandonato le sue cariche societarie), nonché il fatto che difficilmente le sue iniziative e prese di posizione siano sospettabili di portare chissà quali “interessi occulti”, in quanto il ricchissimo signore dell’internet economy non ne ha più certo bisogno.
E’ quindi interessante che la Fondazione stessa, storicamente orientata alla lotta alla povertà, abbia ora deciso di puntare la sua attenzione soprattutto sui temi sanitari, lanciando in questi giorni una serie di rapporti e campagne che coinvolgono non solo le aree più povere, ma l’intera popolazione. Con messaggi, nell’insieme, tutt’altro che “allarmistici”.
Viceversa, si sottolinea il ruolo salvifico dei moderni sistemi sanitari, in tutto il mondo, inclusi i più fragili, e si avverte semmai che sono conquiste da consolidare con l’impegno della ricerca scientifica e dell’attività medica. Guai cioè a darle per scontate per l'avvenire, perché non lo sono, e se anzi si torna indietro si rischia di rialimentare l’apparizione di patologie, nuove e anche vecchie
“Abbiamo fatto molta strada nell’impegno su diverse malattie endemiche, dalla malaria alla tubercolosi”, spiega lo stesso Gates al Corriere della Sera - ma il progresso non è inevitabile. Sul fronte dell’Aids, ad esempio, da qui al 2030 avremo ben 5 milioni di morti in più se si materializzerà un taglio dell’assistenza del 10 per cento”. E non è solo un’ipotesi: “La riduzione di fondi che si sta delineando in varie realtà”.
Discorso analogo sui vaccini, che hanno salvato in questi anni milioni di vite alzando significativamente la speranza di vita ovunque: “Una fortuna che è anche un handicap: abbiamo avuto talmente tanto successo con le vaccinazioni che la gente nei Paesi avanzati non vede più da decenni morti per malattie di questo tipo”. Fino a far percepire quei risultati, appunto, come scontati. “Sta diventando un nodo dolente in molti Paesi avanzati, dove in una parte limitata ma significativa della popolazione si registra una crescente diffidenza nei confronti delle vaccinazioni e un’aperta ostilità per la profilassi obbligatoria dei bimbi in età scolastica”, lamenta Gates, e lo lamentano i medici, perfino i più critici e sospettosi verso il mondo della ricerca farmacologica.