No, non è finita. Sulla lebbra si sono fatti passi da gigante nell’ultimo mezzo secolo ma ha torto chi pensa che il mondo abbia chiuso i conti con la patologia.
La lebbra esiste ancora in più zone del pianeta, in particolare in India e in Brasile, per un totale di oltre 216mila casi l’anno (cifra 2016) e perfino il nostro Paese non ne è esente, con alcune decine di diagnosi annue. Insomma uno “spauracchio” apparentemente del passato che tuttavia reclama ancora attenzione, anche e forse soprattutto, per quel che rivela, dall’antichità a oggi, sul nostro modo di pensare al tema generale della salute.
Tecnicamente, ogni due minuti una persona ne è colpita, sostiene l’Associazione Amici di Raoul Follerau, che prende il nome dallo scrittore e attivista francese che ne promosse dal 1954 la Giornata mondiale, osservata anche nella scorsa ultima domenica di gennaio con la campagna #maipiù, per dire basta alla malattia ma anche “all’indifferenza”. Il tema cruciale è infatti questo: l’ostacolo ritenuto più grave è proprio il permanere di discriminazioni, pregiudizi e reticenze, a danno anzitutto della fascia più colpita, quella dei bambini, e a discapito della loro esistenza sociale oltre che delle possibilità di diagnosi e cura.
Attenzione, perché qua siamo al cuore non solo di un problema sanitario ma anche della cristianità segnata dal Nuovo Testamento: lo stigma sul lebbroso era ampiamente presente nella letteratura biblica e fu solo con l’arrivo di Gesù che si cambiò completamente rotta.
Come spiegano i sacerdoti e i filosofi, Gesù “purificò” il lebbroso, e lo fece “toccandolo”. Non fu solo una guarigione, dunque, ma anzitutto una vera e propria liberazione e rivoluzione culturale. Abolì la separazione netta tra “il puro e l’impuro”, che ordinava il pensiero dell’epoca e, a tutt’oggi ed esplicitamente, le società di miliardi di persone, a iniziare da quella dell’India, gerarchizzata in funzione alla “purezza” di ciascuno (abitudini e professioni incluse), ossia alla sua lontananza dalle possibilità di contatto con le fonti organiche di “inquinamento”.
Insomma, noi europei saremmo culturalmente liberati dal pregiudizio verso la malattia, ma la realtà è che non è proprio così. La stessa India, paradossalmente, ci insegna qualcosa, perché, pur nell’esplicitare ancora il pregiudizio, non lo nasconde, né nasconde la patologia e la morte, anzi ne fa oggetto di espliciti riti e discorsi quotidiani sull’ordinaria condizione umana. Noi quel pregiudizio verso i malati l’avremmo superato da un pezzo, da oltre duemila anni, ma dobbiamo fare ancora un passo in più per la piena e attiva integrazione sociale di chi è malato, senza reclusioni, esclusioni e diffidenze. La lebbra è solo il caso limite, il problema coinvolge tutte le malattie e le debolezze umane.
La mano si fa pallida, sembra disidratata, e così il padiglione auricolare o altro. Può essere uno dei segni più tipici della cosiddetta “ipossia”, una condizione di carenza di ossigeno che può condurre a sincope o a problemi cardiovascolari.
Ma se invece non si trattasse solo di un “sintomo”?
Una intrigante ricerca dell'Università di Cambridge assieme al Karolonska Institute di Solna, in Svezia, svela un ruolo essenziale della pelle nella regolazione dei processi cardiaci.
Nei nostri tessuti dimora una famiglia di proteine, chiamate “Hif”, che agirebbe sulla pressione sanguigna. Per accertarne la dinamica, come si legge sulla rivista E-life, gli studiosi hanno riprogrammato geneticamente alcuni topi, inibendone la protezione di tali proteine, sottoponendo gli stessi, assieme ad altri roditori sani, a un ambiente a scarsa produzione di ossigeno.
Ebbene, tra i topolini “normali”, nell'arco di dieci minuti si è constatata una notevole alterazione dell'attività cardiaca, che poi tendeva al ritorno alla completa normalità entro le 48 ore. Tecnicamente, i ricercatori – che fra l'altro rivendicano di aver esteso per la prima volta l'osservazione in materia al di là della decina di minuti iniziali – hanno notato una risposta “tri-modale” dell'organismo. La fase iniziale è tachicardica e ipertensiva, seguita però da un “rapido e profondo” rallentamento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca per 24 ore, prima del graduale ripristino dello stadio pre-ipossico.
Quanto fin qui detto è interessante di per sé, perché chiarisce i meccanismi adattivi messi in atto dal nostro corpo al seguito di una carenza di ossigeno. Ma quel che è ancor più rilevante è che tale processo è risultato, invece, del tutto sconvolto tra gli animali privi della proteina Hif. E questo, a detta degli scienziati, dimostra come i tessuti periferici abbiano un ruolo fondamentale nell'adattamento cardiovascolare.
Da notare che la scarsa presenza di ossigeno può derivare dall'alta quota, dal fumo, dall'inquinamento o anche da uno stato di rilevante sovrappeso. La capacità adattiva del nostro organismo si è confermata qui notevole per limitare i danni. La natura, tuttavia, può fare tantissimo ma non i miracoli, sicché permane l'imperativo del no ai comportamenti nocivi, in quanto quei danni possono essere gravissimi, ben al di là del pur essenziale ambito cardiovascolare.
Piccolissimi, invisibili, quindi il problema non si vede, o comunque pare troppo piccolo perché possiamo farci qualcosa. Se il tema dell’“antibiotico-resistenza”, ricordato sempre più spesso come il potenziale “male del secolo” (più di qualsiasi patologia) dalle autorità sanitarie nazionali e mondiali, nonché sui nostri spazi, chiama giustamente alla responsabilità anzitutto gli addetti ai lavori dell’universo della sanità, tende a suonare non alla “portata di mano” di ciascuno di noi.
È un pensiero sbagliato, da correggere in fretta, perché è proprio sulle “mani” che invece si gioca tantissimo nel fenomeno della proliferazione dei batteri che si “adattano” fino a diventare inattaccabili anche da parte dei farmaci. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha istituito da anni un'apposita Giornata Mondiale dedicata all'igiene: “Combattere la resistenza agli antibiotici è nelle tue mani”, è stato significativamente lo slogan dell'ultima edizione.
La sfida è anche nei farmaci, con l'imperativo dell'appropriatezza terapeutica da parte dei prescrittori e dell'aderenza da parte dei pazienti. E poi un'attenzione, già potenziata in Italia, anche negli ospedali: “Dall'osservazione puntuale del lavaggio delle mani fino all'istituzione di personale sanitario dedicato al controllo delle infezioni e di figure professionali per guidare un appropriato utilizzo di queste molecole”, spiega il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi.
Il tema dell'igiene a volte può prestarsi a letture ambigue e a messaggi in apparenza contraddittori. Gli stessi addetti ai lavori mettono in guardia dinanzi a qualche eccesso, con riferimento soprattutto ai bambini. Le autorità sanitarie americane, ad esempio, sconsigliano di fare la doccia completa ai piccoli sotto gli 11 anni più di due volte la settimana, in quanto hanno bisogno di costruire anticorpi mentre i detergenti possono inibire il processo. In altri contesti, si rivela come alcune formazioni cutanee, come le verruche, tendano a riprodursi in ambienti relativamente puliti, perché in quelli malsani vengono sopraffatti da virus ben più potenti.
Ma è proprio nell'apparente contraddizione che si svela la portata del problema. La forza adattiva di alcuni batteri può esser tale da sviluppare resistenza ai farmaci. E il nostro veicolo primario sono le mani, che toccano tutto, e con cui contaminiamo i nostri ambienti e il nostro corpo. Su questo non esistono “ma”, si tratta di lavarle, bene e sempre. In gioco è la salute, privata e pubblica, nel contesto di un amaro primato del nostro Paese in sede europea, con 300mila infezioni annue da germi resistenti. Cifra destinata a salire se nei comportamenti quotidiani dimenticheremo la priorità dell'igiene.
A volte, più o meno scherzosamente, negli uffici si reclama la natura fisicamente “usurante” del proprio mestiere, tanto da agognarne l’inclusione nelle apposite categorie riconosciute dall’Inps. Naturalmente l’usura è incomparabilmente maggiore nei lavori che richiedono un’assidua fatica fisica, per giunta a volte in ambienti molto inquinati. Nondimeno, il tema dell’usura vale anche per gli impiegati, tra posture scorrette, sedentarietà, sovraesposizione ai monitor e altro, tant’è che è stato oggetto di recente approfondimento presso lo stesso ministero della Salute.
Da una ricerca è emerso in particolare che otto impiegati su dieci hanno sofferto di disturbi legati al proprio lavoro negli ultimi tre anni. Quasi due terzi degli intervistati ha accusato mal di schiena, il 55% qualche mal d testa, quasi la metà dolori alle spalle, al collo o agli occhi, il 31% dolori al polso o al braccio. Cifre preoccupanti, che trovano facile spiegazione nelle abitudini seguite in ufficio: l’immobilità è ammessa dal 97% degli impiegati, il 90% sta in una posizione ingobbita, l’85% tiene le gambe incrociate.
I dati sono stati presentati alla stessa ministra Lorenzin. “Rendere salubre il luogo dove viviamo vuol dire renderci sani e rendere migliore la nostra vita: sono le piccole scelte a portare le grandi trasformazioni”, ha commentato. La presa d’atto del problema dunque c’è, almeno nelle parole, anche ai massimi livelli istituzionali, sicché non vanno presi con sufficienza alcuni possibili accorgimenti, di semplice attuazione, che possono fare la differenza.
In questi giorni, ad esempio, l’università gallese di Bangor ha rilanciato l’importanza della pratica dello yoga (anche in casa o in ufficio), anche se solo sporadica, tramite una ricerca che ha coinvolto 150 impiegati del servizio sanitario nazionale. Sono stati suddivisi in due gruppi: uno è stato istruito in un percorso formativo su come ridurre lo stress da lavoro e in particolare il mal di schiena; l’altro è stato concretamente sottoposto a otto sessioni di yoga, per un’ora sola una volta la settimana. Ebbene, risultati significativi sono stati rilevati solo nel secondo gruppo, in particolare con una rilevante riduzione del dolore lombare dopo otto settimane.
Meglio ancora, scrivono gli studiosi britannici, “spalmare” l’esercizio in una decina di minuti al giorno. L’obiezione che “non possiamo permettercelo” insomma è infondata. Vale anzi il contrario, il beneficio è anche economico: la ricerca gallese ha documentato che il gruppo che praticava yoga ha ridotto di ben venti volte le proprie assenze. In Italia, è stato stimato che i costi per assenteismo legati a disturbi posturali ammontino a oltre 3 miliardi di euro l’anno. Sono dati che dovrebbero far riflettere tutti, inclusi i datori di lavoro. L’Independent ha notato che circa un quarto degli imprenditori americani assicurano qualche sessione di meditazione o yoga ai propri dipendenti. All’evidenza, non si tratta di “gentilezza”, semplicemente hanno fatto un po’ di calcoli.
Sopravvivere a un ictus, ma ritrovarsi con gravi deficit motori. Questa evoluzione è stata a lungo considerata, non senza buone ragioni, come un’ineludibile condanna. Non è però sempre così, e anzi non mancano i progressi nell’ambito dello studio sulla riabilitazione. Alcuni avanzamenti, decisamente rilevanti, sono annunciati in questi giorni proprio dal nostro Paese. In particolare, è stato pubblicato sulla rivista internazionale Transnational Stroke Research uno studio promettente dell’Università di Messina, in collaborazione con la Fondazione Santa Lucia di Roma, su un’innovativa terapia anti-neuroinfiammazione.
La ricerca ha coinvolto 250 pazienti colpiti da ictus, con leggera prevalenza maschile, di età media di circa 71 anni, in larga parte alle prese con danni diffusi. Sono stati quindi suddivisi in due gruppi, uno sottoposto a terapia tradizionale, l’altro sottoposto a una nuova molecola, chiamata PEALut.
La differenza è risultata davvero significativa. Dopo 60 giorni, il primo gruppo ha manifestato un recupero del 20%, negli altri è risultato più che raddoppiato. Benefici per la riabilitazione, dunque, ma non solo. “Si dimostra come la molecola sia in grado di prevenire il danno neuronale, e ritardando l'esordio della patologia, oltre a limitarne gli effetti se il danno si è già verificato”, spiega il farmacologo Salvatore Cuzzocrea.
Gli scienziati siciliani riferiscono inoltre di ricerche in corso sull’impiego della PEALut al seguito di trauma cranico, anticipando esiti a prima vista altrettanto promettenti. Qualcosa dunque si muove, e questo va anche al di là dello stretto ambito farmacologico. Un’altra Fondazione, la Don Gnocchi, su altri 250 pazienti colpiti da ictus, ha confrontato la terapia fisioterapica tradizionale con moderne tecniche di riabilitazione robotica (in aggiunta, e non in sostituzione della prima), in relazione in particolare al recupero degli arti superiori.
Gli effetti sono risultati notevolmente aumentati, sia sull’entità sia sui tempi di recupero, tanto da far parlare di una “rivoluzione nella riabilitazione”. Le “palestre robotiche” attrezzate dalla Fondazione si trovano a Roma, Milano, Firenze, La Spezia e in alcuni centri minori. La sfida è anche sui costi e su questo si fonda anche l’appello a istituzioni e industria a partecipare alla sfida: la moderna robotica, a detta della Fondazione Don Gnocchi, non solo è efficace, ma anche “economicamente sostenibile”.
Le precisazioni e i “ma” in tema di disturbi alimentari sono importanti quanto gli allarmi sugli stessi. Questo vale anche per il tema della celiachia, su cui il ministero della Salute ha aggiornato in questi giorni i dati ufficiali nella sua Relazione al Parlamento. Partiamo comunque da questi, che in effetti segnano una preoccupante escalation. Nel 2016 le nuove diagnosi in Italia sono state ben 15.569, oltre cinquemila in più rispetto all’anno precedente.
Si tratta di un aumento di oltre il 30%, che porta il numero di casi accertati presso la soglia di 200mila. E qui arriva però il primo “disclaimer”: i dati, seppur gravi, rappresentano solo una sottostima del fenomeno, tant’è che le proiezioni reali raddoppiano la cifra complessiva, tenendo conto dei soggetti che sono affetti senza saperlo.
Allo stesso tempo, l’incremento della casistica segnalata rappresenta anche un risvolto positivo poiché riflette, almeno in parte, un aumento della consapevolezza, pubblica e privata, sulla patologia. Lo conferma anche il dato regionale: ben un terzo delle nuove diagnosi è effettuato in Lombardia, proporzione di certo sospinta dalla qualità complessiva del servizio sanitario, anche in tema di diagnostica.
I “ma” proseguono col permanere di una certa confusione nelle percezioni del problema, a danno dei celiaci e dei non celiaci. È allora essenziale ricordare che la celiachia è una condizione particolare di origine genetica e di infiammazione cronica che richiede rigorosamente l’esclusione del glutine dalla dieta. Per chi non è affetto, invece, come avverte la stessa Associazione Italiana Celiachia, la tendenza crescente al “gluten-free” è solo una “moda”, da evitare per almeno due motivi: perché non fa affatto bene ai non celiaci (alcune ricerche recenti suggeriscono anzi rischi dal punto di vista cardiovascolare), e perché alimenta la confusione stessa sulla specificità del problema.
C’è peraltro un elemento ulteriore che complica il quadro. Il fatto che esista anche una “sensibilità non celiaca al glutine”. Anch’essa prevalente tra le donne, manifesta, all’ingestione di alimenti glutinati, sintomi analoghi alla celiachia (come dolori addominali, diarrea o costipazione, anemia, stanchezza cronica), sebbene sovente in modo più lieve, e senza l’innesco della risposta immunitaria nell’intestino tipica della celiachia stessa. Il fenomeno è sempre più riconosciuto e dibattuto nel mondo medico-scientifico, anche se permangono obiezioni a catalogare tale “ipersensibilità” come una “patologia” specifica, così come c’è chi ipotizza la presenza di un “effetto nocebo”, di natura psicologica, che inciderebbe sull’ampiezza del problema. Che comunque c’è, e va trattato seriamente in chi ne è affetto. Con l’imperativo della consultazione del medico, non solo per la dieta.
Stavolta hanno ragione quelle fiabe che tramite molteplici e simpatici personaggi “riscattano” gli spauracchi antichi e recenti sul mondo dei roditori. I timori legati all’igiene sono comprensibili e fondati, tuttavia alcune leggende secolari sul loro essere vettori di atroci patologie risultano sovente infondate.
Una ricerca italo-norvegese, svolta tra le università di Oslo e Ferrara, pubblicata sulla rivista Pnas, li “scagiona” infatti anche da una delle pandemie più devastanti della storia: la “peste nera” che esplose a metà del quattordicesimo secolo in Europa. Il nome stesso della patologia era ispirato “topo nero” delle città: l’epidemia fece nell’arco di meno di otto anni circa 25 milioni di morti, pari a circa un terzo della popolazione continentale dell’epoca.
Superate da un po’ le credenze popolari che prendevano di mira streghe o minoranze religiose, adesso arriva l’assoluzione anche dei topi. I ricercatori hanno riesaminato i dati trasmessi su nove città europee, verificando e confrontando diverse ipotesi, dalla trasmissione aerea, magari veicolata dagli animali, a quella di pidocchi e pulci presenti sugli esseri umani e sui loro vestiti.
È emerso, con alta probabilità statistica, un andamento che seguiva “il modello dei parassiti umani”, a detta degli studiosi, che parlano di “conclusione molto chiara: sono stati i pidocchi umani”, notando al contempo l’alta improbabilità di una trasmissione così rapida tramite i ratti.
Talvolta il quesito, in questi casi, è “a cosa serva oggi” questo tipo di ricerche. Ebbene, c’è una risposta generale, e una molto specifica. La prima è che, sulla salute come su tutto il resto, la conoscenza del passato è cruciale per la comprensione del presente, incluse le odierne pandemie. La seconda è che la peste appare periodicamente ancora, in Asia, Africa e America Latina: tra il 2010 e il 2015 sono stati conteggiati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità 3.248 casi di contagio e 584 decessi.
Le cattive notizie tendono a far più “notizia” di quelle buone, anche sulla salute. Non è un caso dunque se l’annuncio di una multinazionale farmaceutica circa la rinuncia alla ricerca sull’Alzheimer ha trovato, purtroppo, un’eco ben più alta rispetto alle novità promettenti in materia.
“Se ci abbandonano anche le farmaceutiche siamo alla canna del gas”, commenta amaramente la presidente dell’Associazione italiana malati di Alzheimer, Patrizia Spadin, consapevole della crescente diffusione della patologia: già oggi in Italia i casi accertati di qualche forma di demenza sono oltre 1,6 milioni e i familiari coinvolti in qualche modo nell’assistenza sono circa il doppio.
Preoccupazione legittima anche se, per fortuna, come nota Il Sole 24 Ore Sanità, la rinuncia alla prosecuzione degli studi è una scelta isolata. Secondo il neurologo Paolo Maria Rossini, del Policlinico Gemelli di Roma, l’azienda interessata deve aver valutato di “essere un po' indietro nelle fasi di sviluppo, mentre ci sono tante altre grosse multinazionali che stanno sviluppando, anche a livello clinico, molecole nuove su questa malattia”.
Sulla ricerca generale si annunciano dunque nuovi passi e iniziative di rilievo. Il mese scorso, al ministero della Salute, in collaborazione con l’Agenzia Italiana del Farmaco, è stato annunciato un progetto, chiamato “Interceptor” che consiste in uno screening della popolazione a rischio da parte di diversi centri specializzati, partendo da un gruppo di 400 pazienti tra i 50 e gli 85 anni, per affinare la determinazione dei fattori di rischio della malattia di Alzheimer, e quindi per ottimizzare la distribuzione di nuovi medicinali annunciati nel breve-medio periodo. “Quando arriveranno saremo pronti a curare migliaia se non milioni di persone in modo appropriato e sicuro”, ha detto la ministra Lorenzin.
Una corretta diagnosi precoce costituisce in effetti uno degli strumenti più essenziali e immediati, su cui possono contribuire anche le nuove tecnologie. In questi giorni l’ospedale Molinette di Torino, capofila del progetto My-AHA (“My Active and Healthy Ageing) ha annunciato un’iniziativa internazionale in cui si valuteranno i rischi e l’evoluzione della patologia in 600 pazienti (80 nel capoluogo piemontese) utilizzando dispositivi come occhiali “sensoriali” e smartphone per assemblare rapidamente i dati sull’equilibrio corporeo, i movimenti oculari e le capacità cognitivo-mnemoniche.
“È la più grave epidemia di influenza stagionale in Italia dal 2004”, nota il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss) Walter Ricciardi. Insomma il problema si sta rivelando ben più esteso delle stime iniziali e – dicono gli esperti – se si inizia a vedere la curva discendente per i bambini, per gli adulti il virus continua a galoppare. Il bilancio è di oltre quattro milioni di italiani finora ammalati, almeno 140 casi gravissimi e 30 morti.
Fin qui le conseguenze dirette, senza contare le “complicanze” possibili, per se stessi e la collettività. Ma a causa dell’influenza sta emergendo anche un serio problema di carenza di sangue nelle strutture ospedaliere. Il donatore abituale, giustamente, si astiene dal donare mentre sta male, con ricadute perfino sulla possibilità di effettuare gli interventi chirurgici. In particolare, segnala lo stesso Iss tramite il Centro Nazionale Sangue in un appello alle associazioni attive nel settore, il problema si riscontra soprattutto nel Lazio, Puglia, Campania e Toscana, e a questo si aggiunge “l’indisponibilità delle Regioni solitamente eccedentarie a compensare e addirittura la carenza presso le Regioni Lombardia e Piemonte”.
Si è innescata di fatto una “reazione a catena, lasciando sguarniti i territori che chiedevano aiuto”, incalza su Avvenire il presidente dell’Avis Alberto Argentoni, rilevando comunque l’avvenuta attivazione, almeno parziale, di una risposta popolare alle richieste di donazione. “L’emergenza”, insomma, rientrerà. Attenzione, però, perché il problema non si esaurisce in queste fasi critiche che, in modo più o meno serio, tendono a essere ricorrenti nel mese di gennaio.
Il nodo è che “la cultura della donazione del sangue è cambiata”, nota Argentoni, spiegando che “i giovani donano, ma poche volte l’anno, al massimo due a fronte delle quattro consentite”. Insomma emerge un problema dalle nuove generazioni, tant’è che la stessa Avis ha avviato una propria strutturazione giovanile. I dati ufficiali lo confermano da un po’: dopo anni di crescita, il 2016 ha segnato un calo dei donatori, e questo riguarda soprattutto i giovani. Si assiste quindi - documenta il ministero - a “un progressivo invecchiamento dei donatori”.
È dunque tempo di rilanciare l’attenzione pubblica sull’importanza della donazione, già dai 18 anni (a fino ai 65). Del resto i dati regionali confermano alcune tendenze, ma anche la possibilità concreta di correggerle. Se le statistiche pro-capite sui donatori collocano in vetta una regione tradizionalmente ben strutturata dal punto di vista sanitario come il Friuli-Venezia Giulia, quelle sui “nuovi donatori” vedono ora al vertice la Campania. Servono campagne di sensibilizzazione e buone organizzazioni, ma serve anche qualcos’altro a tutela dei donatori: “L’Inps ci dice che solo il 20% dei lavoratori usufruisce dei permessi dedicati” alla donazione - la denuncia del presidente dell’Avis.
Perfino il New York Times ha rilanciato in questi giorni la storia di un bimbo napoletano di meno di tre anni, sepolto quasi mezzo secolo fa a Napoli, nella basilica di San Domenico Maggiore, e naturalmente mummificato nell’aria secca degli anfratti della chiesa, sui cui resti una squadra di ricercatori internazionali ha effettuato approfondimenti molecolari che hanno radicalmente modificato gli esiti iniziali dell’“autopsia”.
Gli ultimi risultati scientifici sono pubblicati sulla rivista Plos Pathogens, la firma è della McMaster University di Hamilton, con collaborazioni perfino da un istituto australiano, nonché dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, la stessa che trent’anni fa scoprì la piccola mummia in un’esplorazione nella basilica, ipotizzando che il bimbo fosse stato ucciso dal vaiolo, in una forma che avrebbe preceduto i suoi effetti pandemici dei secoli successivi.
Sembrava insomma un caso d’esordio di quella patologia. Invece si trattava di tutt’altro: fu solo un’epatite B dicono le evidenze degli odierni esami del Dna sui tessuti del bambino. Le pustole preservate sul suo volto che avevano suggerito la diagnosi di vaiolo non hanno trovato conferma nelle successive analisi. Dagli approfondimenti è emerso che tale sintomatologia può essere compatibile con l’epatite, patologia che, pur con qualche perdurante margine di dubbio ed errore, agli ultimi riscontri è risultata la più plausibile.
Per la storia, il piccolo – che indossava una veste monastica in seta molto ricca – proveniva senz’altro da una famiglia opulenta al pari delle altre mummie rinascimentali ritrovate nella Basilica. “Pensiamo appartenga alla casa ducale degli Aragona, duchi di Montalto: i test al radiocarbonio ci hanno permesso di datare i resti alla metà del Cinquecento, e anche l'abito corrisponde”, spiega il paleopatologo Gino Fornaciari.
Per la medicina, il tema è altrettanto intrigante. Si stima che oltre 350 milioni di persone oggi abbiano infezioni croniche da epatite B, e addirittura un terzo della popolazione odierna ne sia stata prima o poi infettata, almeno in forma lieve. Quel che ci dice la piccola salma è che il codice genetico di tale malattia, diffusissima in Italia anche all’epoca, è mutato pochissimo, a differenza di altre. Essendo trasmessa perlopiù per via sessuale e non tramite vettori animali, il virus non avrebbe avuto necessità di “adattarsi”. La notizia è che non è mutato, e nuoce ancora. “Comprendere l’evoluzione dei patogeni è la quintessenza per scovare il modo di sradicarli”, concludono gli studiosi.
È un tema per definizione “scivoloso”, perché sconta ambiguità e percezioni soggettive che, se di per sé utili, richiedono comunque una corretta interpretazione. E anche la stampa ha dato letture assai diverse, per certi versi agli antipodi, all’annuncio del calo della depressione in Italia, in seguito a un’analisi di “Epicentro”, portale epidemiologico dell’Istituto Superiore della Sanità.
Il dato di sintesi è che nell’ultimo triennio il 5,6% degli italiani tra 18 e 69 anni ha sofferto di sintomi depressivi, tanto da percepire come “compromesso” il proprio benessere psicologico per una media di quindici giorni al mese. La cifra è considerevole: si parla di circa quattro milioni di italiani, sicché il problema c’è e su larga scala. Ma il segnale statisticamente più rilevante è un altro, quello di un calo, piuttosto rilevante, rispetto a qualche anno prima. Nel 2008 la quota di “depressi” quindici giorni al mese era pari al 7,8%.
Non a caso il 2008 fu l’anno in cui esplose la recessione più grave dal dopoguerra. E questo alimenta qualche conclusione su un’evoluzione in parallelo tra l’andamento dei disturbi depressivi e le variabili macro-economiche: una ripresa, sia pure lenta, c’è stata e questo si rifletterebbe anche sullo stato d’animo dei cittadini. Il rebus è proprio qui, perché le date sembrano indicare quasi il contrario. La crisi è esplosa negli ultimi mesi del 2008, ma i suoi effetti sono stati avvertiti, specie dai ceti deboli, soprattutto in seguito. Oggi i dati ufficiali e le agenzie di rating, segnalano una ripresa timidamente in atto, ma le condizioni generali non sono ancora tornate ai livelli pre-crisi… insomma, il nesso appare quasi rovesciato: la depressione è più bassa oggi, quando lo stato dell’economia è ancora peggiore di quello di ieri.
Il tema in ogni caso è complesso: dai dati regionali emerge ad esempio che i disturbi depressivi in Italia sono più alti in Molise, Sardegna e Umbria, che non sono le Regioni più ricche, ma neanche le più povere. Inoltre gli immigrati irregolari risulterebbero meno “depressi” degli italiani, a dispetto della precarietà economica, e anche di cittadinanza.
La correlazione, allora, se c’è va forse rovesciata. La “depressione”, in senso clinico, non dipende soltanto dalle condizioni materiali di vita, può valere anche il contrario: come dicono gli economisti, la “fiducia” nell’avvenire ha essa stessa ricadute economiche. Nel 2008 era molto bassa, oggi è salita, il che è di per sé una buona notizia, anche per l’avvenire. Su questo però c’è una variabile in più, ed è quella sanitaria: c’è un nesso stretto tra lo stato di salute e i rischi depressivi. Avere cura delle persone avrebbe una ricaduta diretta sugli andamenti economici, personali e generali. Ebbene, secondo il Censis, vi sono 12 milioni di italiani che rinunciano alle cure per le proprie difficoltà finanziarie. Dato inaccettabile, non solo sull’etica dell’assistenza, ma dunque anche per le prospettive del nostro benessere.
“Stiamo esplodendo”, avverte la Società italiana di Medicina di emergenza-urgenza, riferendo di “un aumento del 15-20% degli adulti, soprattutto per gli over-65, con un incremento notevole dei casi di polmonite tra gli anziani come complicanza della sindrome influenzale”. Di influenza magari non si muore, ma le possibili complicanze sono tante e gravi, specie tra le fasce d’età più fragili, e intasano i Pronto Soccorso.
Se le agenzie di stampa esagerano con gli annunci periodici sul “picco” del contagio, la realtà che è in effetti stavolta la stagione influenzale sta colpendo più dello scorso anno, mentre a priori si stimava un andamento stabile, se non in calo. E per la verità anche i medici divergono nelle previsioni: c’è chi vede il massimo dell’incidenza proprio in questi giorni, complice anche l’inizio anticipato della stagione virale in relazione alle perturbazioni meteo pre-natalizie e chi invece pensa che il peggio debba ancora arrivare.
Inoltre c’è chi teme il coinvolgimento del nostro Paese da parte di un virus australiano, che in quel continente ha provocato già, in via diretta, oltre cinquanta decessi. “È ancora poco diffuso in Italia, mentre in Gran Bretagna sta mettendo in ginocchio il sistema sanitario”, nota il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’IRCCS Galeazzi di Milano.
Questo significa che non è tardi per vaccinarsi, anzi sarebbe ancora un’importante scelta di prevenzione: su questo i medici convergono senza esitazioni. In Europa l’influenza è la terza causa di morte tra le malattie infettive, e l’Italia nell’ultimo anno è amaramente svettata nelle classifiche continentali sui decessi attribuibili al virus, complici le campagne “no-vax”. Inoltre bisogna scegliere bene il tipo di vaccino, su consiglio del medico. Secondo Pregliasco, “i vaccini adiuvati, oltre all'antigene, cioè quella sostanza che è propria dei batteri o dei virus verso la quale dobbiamo innescare la difesa, contengono anche altre sostanze adiuvanti, che potenziano il sistema immunitario”.
A fianco della vaccinazione, c’è dell’altro che può facilmente aiutare la prevenzione. Il lavaggio frequente e scrupoloso delle mani, ad esempio, è essenziale, per la propria e per l’altrui salute. Allo stesso modo è essenziale usarle per coprire il volto mentre si starnutisce o si tossisce. Consigli semplici e antichi, che non guastano mai.
E se avessimo esagerato con i regali di Natale e soprattutto con i giocattoli? Il tema è da tempo dibattuto, sul piano etico quanto su quello pedagogico, ma ora una ricerca dell'Università di Toledo, pubblicata su Infant Behaviour and Development ne rilancia la problematica clinica, rilevando l'impatto negativo dell’eccesso di oggettistica sullo sviluppo cognitivo dei bambini.
La conferma è giunta da una sperimentazione piuttosto semplice. Sono stati reclutati 36 bambini facendoli giocare in una stanza per mezz'ora, monitorandone i dettagli comportamentali. Erano divisi in due gruppi, uno aveva a disposizione sedici giocattoli, l'altro solo quattro. È emersa una chiara differenza in favore dei secondi sia in termini di creatività dimostrata che di capacità di concentrazione.
"Abbiamo dimostrato che con troppi giochi peggiora sia la durata che l'intensità dello svago”, sottolinea la coordinatrice dello studio Carly Dauch. “È come se gli oggetti interferissero fra loro, rappresentando una distrazione dall'approfondimento, mentre durante l'infanzia i piccoli sviluppano la capacità di concentrazione ed è importante metterli nelle condizioni di non essere 'disturbati'”, aggiunge l'esperta.
Il monito è da prendere sul serio, anche considerando che, in base alle stime sul Regno Unito, ogni bimbo possiede 238 giochi ma solitamente ne usa solo una dozzina, ossia circa il 5%. Qualche segnale di presa di coscienza peraltro c'è, da parte delle famiglie, a leggere anche i dati sugli acquisti pre-natalizi. Dopo anni di boom, Confesercenti segnala ad esempio un lieve calo dei tablet, rispetto ai giochi tradizionali di intelletto. Nella stessa Gran Bretagna il sotto-settore che ha segnato gli incrementi maggiori è stato quello dei giochi da tavolo, che tra l'altro invitano alla socializzazione.
Si tende dunque al recupero di considerazioni di qualità pedagogica nella scelta dei doni. Tuttavia, permane, e anzi ai fatti si allarga, il tema della “quantità” sollevato dagli studiosi iberici. Nel Regno Unito il giocattolo ha segnato l'anno scorso un affare da tre miliardi e mezzo di sterline. In Italia la spesa è salita fino ad ammontare al 50% dei doni effettuati. A quanto pare sono ancora troppi. E il troppo spesso fa danno.
“Il diabete di tipo 2 è un fattore di rischio per l'Alzheimer”. È la premessa ricordata dagli scienziati dell'Università inglesi di Lancaster, riconoscendo un nesso già notato dalla scienza negli ultimi anni. Ribadito l'assunto, si sono però spinti oltre, cercando di scovare, con una ricerca pubblicata su Brain Research, nuovi percorsi terapeutici che possano permettere un beneficio a fronte di entrambe le patologie.
La sperimentazione, condotta su roditori (chiamati a percorrere un labirinto), ha coinvolto, nelle parole degli studiosi “nuovi farmaci a triplo recettore, originariamente sviluppati per il trattamento del diabete di tipo 2, che paiono efficaci anche per i loro effetti neuro-protettivi”, con esiti definiti “molto promettenti”. Non solo è stato riscontrato uno stop nella perdita delle funzioni cognitive, ma addirittura un'inversione di rotta.
È emerso in particolare un netto miglioramento delle capacità di apprendimento e memoria, un potenziamento dei fattori cerebrali protettivi delle cellule nervose, nonché una riduzione delle placche amiloidi (indiziate a innesco di patologie neuro-degenerative), dell'infiammazione e dello stress ossidativo.
Si tratta di risultati che attendono ancora il riscontro dell'ultima fase di sperimentazione clinica, anche per poter verificare la sussistenza di un impatto superiore, sugli umani, rispetto a quello accertato finora con l'impiego di altri farmaci anti-diabetici. La linea sembra comunque tracciata, e appare particolarmente rilevante anche in riferimento all'incidenza di ambedue le patologie, proiettata in aumento esponenziale, al punto da configurare un allarme sanitario globale. “In assenza di nuove cure, entro 15 anni dovremo trovare nuovi modi per affrontare l’Alzheimer”, incalza Doug Brown, direttore di ricerca e sviluppo dell'Alzheimer’s Society. Quello indicato sarebbe uno di quegli strumenti innovativi, e per di più già sostanzialmente disponibile.
La correlazione tra gli elementi di rischio del diabete e dell'Alzheimer rappresenta del resto, al di là dell'ambito della ricerca farmacologica, un'indicazione di rilievo anche in sede di prevenzione. Il problema crescente, anche in Italia, dell'obesità e del sovrappeso non è certo l'unico fattore scatenante del doppio problema, ma di certo l'ambito degli stili di vita e abitudini alimentari corrette è qui di primaria importanza.
Dall’inizio dell’anno sono nati ben quattro milioni di bambini nel pianeta e fanno parte di una generazione che potrebbe affacciarsi al ventiduesimo secolo. Si tratta però di una previsione solo virtuale, che in molte aree rappresenta un orizzonte irraggiungibile. Un comunicato lanciato all’alba del 2018 dall’Unicef (tramite le sue varie ramificazioni nazionali, incusa quella italiana) rilancia l’allarme sui livelli ingiustificabili della mortalità infantile nel mondo.
Le cifre sono quelle di un’autentica strage quotidiana, anche considerando che circa il 90% delle nascite ha luogo in zone ad alta incidenza di povertà. In India, ad esempio, si stima che in un giorno nascano oltre 69mila bambini, sette volte in più rispetto ai più estesi Stati Uniti. Il risultato è che ogni giorno muoiono circa 2.600 bambini nelle prime ventiquattr’ore. E quelli che spirano nel primo mese costituiscono la metà dei decessi nei primi cinque anni di vita.
Raccontato così può sembrare un fenomeno inevitabile sui grandi numeri. Ma il nodo è proprio qui: non è affatto vero. La gran parte di questi decessi, infatti – si stima l’80% dei casi - è determinata d a cause prevedibili e curabili, come la nascita prematura o qualche infezione alle vie respiratorie. Situazioni largamente trattabili grazie agli strumenti della medicina contemporanea cui però, drammaticamente, milioni di famiglie non hanno ancora accesso.
A dimostrazione che molto si può fare, i tragici numeri della mortalità infantile (5,6 milioni nei primi cinque anni di vita nel 2016), che segnalano al contempo un miglioramento senza precedenti rispetto a un ventennio fa, quando i decessi erano doppi. Si tratta allora di accelerare. E la stessa Unicef lancia una nuova campagna globale in proposito (“Every Child Alive”), per estendere le possibilità di cura a prezzi accessibili, anche sul fronte dei farmaci. “Abbiamo esteso ai Governi l’appello ad unirsi a questa battaglia per salvare le vite di milioni di bambini, dando il loro supporto con soluzioni economiche, ma concrete”, spiega incalza Giacomo Guerrera, presidente della sezione italiana Unicef.
Il tema naturalmente non è solo sanitario, coinvolgendo l’intero ambito delle diseguaglianze, su scala globale ma anche all’interno dei singoli Paesi. Ed è un tema non ideologico, perché non chiama in causa “l’economia di mercato” in sè – come ha spiegato in una recente conferenza italiana il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz – ma le sue regole mutate negli ultimi anni, che in molti contesti hanno allargato la forbice tra i pochi fortunati e i tantissimi indigenti, anziché ridurla”. Niente di “ineluttabile” cui doversi rassegnare: “L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile - è il j’accuse dell’economista americano - ma la conseguenza di scelte che avevano proprio quell’obiettivo”.
Nel dilagante dibattito sulle notizie fasulle il tema della salute è per definizione cruciale, data la sua importanza, nonché l'ampia presenza di luoghi comuni in materia, cliccati e condivisi fino a suonare autentici. L'allerta è stata rilanciata in questi giorni con un apposito approfondimento dal Censis, che documenta quasi nove milioni di casi di disinformazione su cui si sono imbattuti solo quest'anno i pazienti italiani, più della metà di coloro che hanno cercato informazioni sanitarie sul web.
Da notare che il Centro Studi non propone affatto una stroncatura “tout-court” dell'informazione sulla rete, né della prassi dell'automedicazione. Al contrario, ricorda che “sono molteplici i vantaggi dell'autocura” tramite i farmaci senza obbligo di ricetta. Con essi “17,6 milioni di italiani sono guariti dai piccoli disturbi” (occasionali mal di testa, raffreddori, influenze ecc.), con ricadute positive per giunta per le casse del Servizio sanitario nazionale (in quanto esenti da rimborso). Inoltre, si nota che, a fronte di una fiducia crescente degli italiani nei medicinali da banco (73,4% degli italiani), non manca la cautela.
7 italiani su 10 infatti chiede comunque consiglio al medico o al farmacista prima di procedere al loro acquisto, e il loro consumo (40 euro pro capite l'anno) ammonta a solo la metà rispetto agli altri Paesi europei. Insomma, emerge una complessiva maturità nel nostro paese dinanzi all'aumentare – di per sé positivo – dell'informazione disponibile in rete sulla salute, utilizzata dal 28,4% della popolazione, ma incrementano anche i rischi di “bufale”, con le allarmanti cifre citate sui milioni di loro vittime.
Il “vaccino” migliore, come riconosciuto dall'ampia maggioranza degli italiani, rimane quello di un consulto, se non di una prescrizione, da parte dello specialista. Ed è su questo che peraltro si incrocia, proprio in questi giorni, un'altra statistica, elaborata da Eurispes, ancor più allarmante. È quella sulla “fuga di massa” dei medici stessi: oltre diecimila negli ultimi dieci anni. Si tratta di un amaro quanto netto primato nell'ambito europeo, tant'è che oltre la metà dei camici bianchi espatriati dal proprio Paese sono italiani.
I dati fanno da cornice al clamoroso sciopero dei giorni scorsi da parte dei medici che, a margine di rivendicazioni contrattuali, hanno denunciato un “sottoinvestimento cronico” nel settore. Il problema è di urgente attualità ma ancor più di “prospettiva”. Secondo La Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale, entro il 2023 andranno in pensione quasi 22mila medici, mentre quelli in ingresso, al momento, sono stimati a soli seimila.
L’offensiva dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda) – qui già raccontato, anche nelle scorse settimane – si irrobustisce di un nuovo tassello. Tra le assidue attività di monitoraggio sulla sanità italiana, con particolare riferimento alla cosiddetta “medicina di genere”, spunta un volume monografico, pubblicato significativamente da un editore scientifico (Franco Angeli), che riassume i tanti aspetti della problematica della salute femminile in età avanzata, proponendosi a strumento effettivo di lavoro, per gli operatori e le famiglie stesse. Il riconoscimento dei problemi – nonché dei propri diritti – è infatti di per sé un’imprescindibile arma per le persone, anche sul piano psicologico.
S’intitola “La salute della donna”, e il nocciolo sta nel sottotitolo: “La nuova longevità: una sfida al femminile”. Il nodo centrale è quello di un paradosso. Le italiane sono più longeve non solo dei maschi, ma anche delle donne di tutto il mondo, eccetto le giapponesi; al contempo, si ammalano di più. A pesare è in parte la stessa speranza allungata di vita, ma anche i ritardi nella presa in carico della specificità delle loro esigenze socio-sanitarie. Avrebbero bisogno di maggiore attenzione, ne ricevono di meno.
Un po’ di cifre: la loro aspettativa di vita supera gli 85 anni, cinque in più degli uomini, forbice che però si allarga in materia di “malanni”: ad avere due o più malattie croniche sono il 72% delle over 75, mentre tra gli uomini si scende al 58%. Sulle gravi disabilità le proporzioni sono, rispettivamente, il 37,8% e il 22,7%. Lo scarto si allarga ulteriormente per alcune patologie, quali l’artrosi, cefalee ed emicranie, osteoporosi, ansia e depressione, Alzheimer e altre demenze senili.
Alla presentazione del libro erano presenti parlamentari, organizzazioni di produttori farmaceutici (le donne, proprio per tali problematiche, sono anche le principali consumatrici di medicinali) e le varie professionalità che hanno contribuito alla pubblicazione. L’approccio, da sempre perseguito da Onda, è infatti necessariamente multi-disciplinare, includendo gli aspetti socio-economici. Il reddito previdenziale femminile è di 6mila euro più basso di quello percepito dagli uomini. E sono le donne a subire due terzi dei maltrattamenti tra gli over 65.
Curiosamente, a testimonianza della loro “tempra”, quasi la metà delle anziane si dichiara comunque soddisfatta della propria esistenza. A maggior ragione, non meritano di essere lasciate sole o con cure poco adeguate, perfino in ambito ricreativo, visto che sono meno coinvolte degli uomini in attività ludiche. Battezzate come “generazione argento”, l’universo delle amate nonne va amato per davvero. “È la sfida più grande oggi: garantire alle donne un invecchiamento sano, attivo e positivo”, spiega la presidente di Onda Francesca Merzagora.
La qualità (oltre alla durata) della vita degli anziani affetti da cardiopatie è oggettivamente migliorata, grazie a un'interventistica sempre meno invasiva. L’ultimo Congresso a Roma, il 78esimo, della Società Italiana di Cardiologia (Sic), è stato anche l’occasione per una ricorrenza storica, quella dei quarant’anni dell’angioplastica, tecnica dilatatoria dei vasi sanguigni concepita nei suoi albori negli Stati Uniti, ma in realtà realizzata anzitutto in Europa, in Svizzera, grazie al radiologo tedesco Andreas Roland Grüntzig.
In Italia tali interventi a titolo “preventivo” sono oramai circa 150mila l’anno, a cui si aggiungono le angioplastiche primarie per il trattamento dell’infarto acuto, oltre quota 35mila. Il consesso non si è limitato del resto alla celebrazione delle conquiste acquisite, ma anche all’annuncio di nuove. È ad esempio il caso della “Tavi”, la tecnica con cui si impianta una valvola di maiale attraverso un catetere inserito in un’arteria della gamba, per combattere la “stenosi valvolare aortica”. Si pratica con un’anestesia solo locale, senza dover ricorrere all’apertura del torace.
Anch’essa, in realtà non è una novità assoluta, essendo già praticata da oltre dieci anni nei pazienti ad altissimo rischio chirurgico, ossia in età avanzata con comorbidità quali l’insufficienza renale o la broncopneumatia cronico-ostruttiva. Il passo avanti, che interessa decine di migliaia di persone, è che l’intervento è stato ora perfezionato e ritenuto pertinente anche per i soggetti a rischio intermedio o basso.
“È una novità riportata quest’anno dalle linee guida europee e ribadite dal documento degli esperti della Sic”, spiega il suo neopresidente Ciro Indolfi. L’aspetto critico è che nel nostro Paese si assiste a un fenomeno di sottoutilizzo. Il fabbisogno della Tavi è stimato in Italia in circa 300 pazienti per milione di abitanti, ma il suo impiego è ridotto a 68 per milione (ben al di sotto della media europea), per giunta con gravi sperequazioni regionali, a discapito delle aree del centro-sud.
Tra gli altri temi recenti, trattati a Congresso, anche la tecnica di riparazione della valvola mitrale (il cui ventricolo sinistro si dilata, riducendo la funzione contrattile) con un semplice “clip”, o anche la sua completa sostituzione per via percutanea, effettuata per la prima volta nell’uomo solo due anni fa, all’Università romana di Tor Vergata. Innovazioni rivoluzionarie, destinate a ridurre gli interventi a cuore aperto quasi al solo novero dei ricordi del passato.
“Pensavo peggio”, ci diciamo talvolta all’indomani di qualche tradizionale appuntamento che “chiama” all’abbuffata. È in particolare il caso delle festività natalizie, complici (oltre ai riti stessi e relative convivialità) le basse temperature che incoraggiano all’alto consumo. La realtà è che quella sensazione di aver decentemente superato lo spauracchio degli eccessi può essere a volte fondata, per la concomitanza di alcune buone ragioni.
La prima (non in ordine di importanza) è che in queste giornate si scatenano più che mai le tv, i giornali e i blog a impartirci consigli, richiesti o meno, su come “sopravvivere” alle tavole lautamente imbandite. L’informazione alimentare insomma dilaga, con ricette che vanno dall’ipotesi di un digiuno assoluto di “ricovero” a una più agevole aderenza alla miglior dieta mediterranea, fino a percorsi addirittura di “prevenzione”, per “disintossicarsi” anticipatamente rispetto alle grandi mangiate.
Le consulenze con i più solidi riscontri scientifici sono comunque quelle che, al netto di alcuni capisaldi universali – molta acqua, pochi grassi saturi, tanta frutta e verdura, ecc. – ricordano come l’ambito nutrizionale vada calibrato e personalizzato in base alle esigenze del singolo, e questo riguarda perfino (come documenta una recente revisione scientifica americana) il precetto, normalmente riconosciuto, sull’esigenza di “distribuire” l’alimentazione in tanti piccoli pasti, anziché in pochi e abbondanti: questo sembra andar bene per molte persone, ma appunto non per tutte.
In ogni caso, al di là della pertinenza di tanta divulgazione alimentare pre-festiva, essa ha comunque il merito di richiamare la nostra attenzione a quel che mangiamo. Insomma, siamo portati a “pensarci” un po’ di più, il che può esser di per sé positivo, e si aggiunge a un’altra variabile, ossia la qualità del cibo. Lo documentano anche le organizzazioni degli esercenti e degli agricoltori: gli italiani restano ai vertici europei in materia di spese natalizie, la cui prima voce (dopo i regali), è quella alimentare, anche grazie a scelte di qualità.
È un aspetto non da poco, che fa da contraltare all’allarme, rilanciato recentemente da un istituto molisano (qui già raccontato) circa l’impatto della crisi sulle scelte alimentari di risparmio (fuori dalle festività) degli italiani, nonché del loro impatto sulla salute, inclusa l’obesità. “Tra le persone che chiedono il sussidio di povertà, il 30% è obeso”, ricorda la francese Gabrielle Deydier, autrice di “Non si nasce grassi”, e testimonial di una “Giornata contro la grassofobia” mobilitata lo scorso 15 dicembre a Parigi. Il tema era la presenza di discriminazioni ed etichette sgradevoli nei confronti dell’obesità, che spesso è dovuta a specifiche patologie e non a un generico “mangiare troppo”. La scarsa qualità del cibo è invece un fattore inconfutato, e anche in Italia costituisce appunto un allarme socio-sanitario di rilievo. Le ricorrenze di fine anno, a quanto pare, fanno virtuosa eccezione.
Non è una bocciatura della dieta mediterraena, è semmai un segnale d'allarme sul peggioramento della qualità delle scelte alimentari complessive in relazione all'irrompere, quasi dieci anni fa, della più grave recessione del dopoguerra. Lo lancia un'indagine, pubblicata sul Journal of Public Health, e realizzata dai ricercatori italiani dell'Irccs Neuromed (col sostegno di una borsa della Fondazione Veronesi) di Pozzilli, in provincia di Isernia, istituzione di punta nella ricerca sulla salute alimentare, e in particolare sull'obesità.
Lo studio è stato condotto su oltre 1.800 italiani tra i 28 e gli 83 anni. E' emerso anzitutto che oltre una persona su cinque ha modificato le proprie abitudini alimentari a causa della crisi. Scomponendo poi quel dato su variabili socio-economiche e territoriale, l'incidenza è risultata massima tra le fasce più deboli. “La tendenza a modificare l'alimentazione per effetto della recessione risulta maggiore per chi vive al Centro o nel Sud Italia, ma anche fra le persone con un livello d'istruzione più basso o con reddito familiare medio-basso, fra i disoccupati e fra chi svolge lavori manuali”, spiega l'epidemiologa Marialaura Bonaccio.
Notevole, in particolare, l'impatto su uno dei capisaldi della dieta mediterranea, il pesce, il cui consumo è stato ridotto dal 68% delle persone che hanno vissuto un peggioramento delle proprie condizioni, mentre è rimasto stabile l'acquisto dei cibi a più buon mercato, e in particolare i cereali. Si è insomma introdotto un grave fenomeno di “discriminazione alimentare”, che rilancia l'urgenza di risposte adeguate, nell'ambito dell'assistenza sanitaria e, più in generale, della lotta alle diseguaglianze.
L'effetto è anche sulla qualità dei prodotti acquistati, oltre che sulla quantità. “Alcuni ipotizzavano che la crisi potesse anzi diventare terreno fertile per limitare il consumo di alimenti non proprio benefici come prodotti lavorati, o 'osservati speciali' come la carne rossa”, nota Bonaccio, spiegando che l'indagine – così come uno studio analogo effettuato in Grecia – ha del tutto smentito tale ipotesi.
A essere smentito è anche l'ultimo Bloomberg Global Health Index, che quest'anno aveva promosso l'Italia quale “Paese al mondo dove la salute è migliore nonostante la crisi”. Che non fosse vero lo ha documentato tra l'altro un rapporto dell'Istat: siamo tra i più longevi, certo, e lo siamo anche grazie alla stessa dieta mediterranea, ma ci ammaliamo più spesso di altri, specie in età avanzata. E se questo avviene, è anche perché, a quanto pare, mangiamo peggio.