“Ma perché dormiamo?”. Può suonare una domanda banale, eppure ha interrogato illustri specialisti di varie discipline, dall’etologia alla psichiatria, dai filosofi agli studiosi delle malattie neurodegenerative. Senza trovare ancora adeguata risposta. Konrad Lorenz, ad esempio, ipotizzava che fosse un retaggio antico, legato alla paura di essere divorati dagli animali predatori, sicché il riposo ci avrebbe protetto con l’arma di renderci immobili. Gli specialisti odierni della materia infine allargano le braccia. “Per quanto ne so io, vi è un solo motivo sicuro per il nostro bisogno di dormire: ci viene sonno”, ha sintetizzato William Dement.
Qualche passo, comunque, la scienza l’ho ha fatto, anche in questi giorni, non proprio sulla “causa prima” del sonno ma almeno sulla sua “funzione”. L’Università di Cambridge, con uno studio sperimentale pubblicato sulla rivista Neuron, ha analizzato i meccanismi di “manutenzione della memoria” nella fase più profonda del sonno, quella a onde lente, e lo ha fatto stimolando le connessioni neurali dei topi sottoposti a un’anestesia finalizzata a uno stato cerebrale simile a tale stadio del riposo umano.
Sul tema esistono diverse teorie, una delle quali sostiene che il sonno produca un potenziamento di tutte le connessioni neurali. Gli studiosi inglesi hanno scoperto qualcosa di analogo, ma in realtà di ben più sofisticato. Si attiva cioè un processo di selezione, orientata a “cementare” le connessioni più forti e allo stesso tempo rinunciando a quelle più piccole. È un meccanismo estremamente interessante, perché dimostra come il nostro cervello, messo a riposo, inneschi naturalmente delle procedure di “gerarchizzazione”. Dinanzi ai mille stimoli ricevuti, sceglie l’essenziale, quel che è più importante, e lo valorizza, anche cestinando le cose percepite come meno importanti: quel che è sciocco o inutile viene sacrificato per corroborare quel che conta.
Gli esiti non rappresentano una novità assoluta, e anzi sostanzialmente ricalcano i risultati, pubblicati nei mesi scorsi, di uno studio condotto da ricercatori italiani, tra gli Stati Uniti e l’Università delle Marche, sempre sui roditori. Indagando sulle connessioni neurali, hanno ricostruito ben settemila sinapsi, realizzando così il più grande database al mondo in materia. Con indicazioni analoghe. Quelle più importanti si consolidano, le altre si riducono. Il riposo, in altre parole, ci permette di “dimenticare” gli stimoli, raccolti qua e là, anche inconsciamente, durante la giornata, che si rivelano inutili, valorizzando gli altri.
Insomma, qualunque sia l’origine e la motivazione prima della sussistenza del riposo, la realtà è che esso è concretamente funzionale alle nostre facoltà cognitive. Poi ci sono i disturbi del sonno, nessuno sceglie di “dormire male”. Però i frenetici ritmi contemporanei ci inducono sovente a derubricare intellettualmente il riposo a una sorta di “lusso”, un inutile impiccio che riduce i tempi della nostra attività quotidiana. Fondamentale allora uscire dall’equivoco: quel riposo è viceversa un prezioso e intelligente alleato del nostro cervello, con tutto quel che consegue, per la nostra salute, e anche produttività.
Liste d’attesa interminabili, attese insopportabili, gli effetti collaterali dell’intasamento dei pronto soccorso. Gli annosi problemi della Sanità pubblica italiana purtroppo permangono, anziché risolversi, con un’aggravante tutt’altro che secondaria. Il vecchio, grande contraltare a tali problematiche, ossia – oltre alla qualità del servizio offerto da tantissimi professionisti, medici e infermieri – il costo contenuto rispetto al ricorso ai privati, viene spesso a mancare.
I dati sono stati divulgati da un sindacato, la Cgil, che ha commissionato la “Prima indagine su tempi e costi delle prestazioni sanitarie” al Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità (CREA Sanità), che da cinque anni riunisce un ente pubblico di ricerca (l’Università romana di Tor Vergata) e la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (Fimmg). E si tratta di uno studio piuttosto serio, tant’è che ha coinvolto un campione di oltre 26 milioni di cittadini, pari a quasi la metà della popolazione italiana, ossia la totalità delle affollate Regioni di Lombardia, Veneto, Lazio e Campania, prendendo in esame le prestazioni mediche senza esplicita indicazione di urgenza.
Il confronto, anche temporale, è risultato impietoso. L’attesa media nel settore pubblico è risultata di 65 giorni, a fronte dei 6 nell’intramoenia, 7 nel privato e 32 per il privato convenzionato. Ed è una forbice che si allarga: per una visita oculistica, ad esempio, solo tre anni prima il tempo medio era di 61 giorni, ora sono saliti a 88. A seconda delle prestazioni, l’attesa si è prolungata di almeno una ventina di giorni. Al contrario - si legge - “il privato riduce drasticamente i tempi di attesa per prestazioni mediche e anche il privato convenzionato garantisce un servizio notevolmente più rapido a quello del sistema pubblico degli ultimi anni”.
Al contempo, si restringe la forbice sui costi, oramai vicinissimi, e in qualche caso addirittura in clamoroso sorpasso: restando sulla visita oculistica, il suo costo medio tra i privati era di 97, nell’intramoenia si sale a 98. Non manca qualche possibile lettura positiva, da parte dello stesso sindacato, con riferimento al settore privato stesso: “La sanità privata – nota la Cgil - fa riferimento all’offerta pubblica per calibrare la propria e rendersi competitiva, puntando sul rapporto qualità/prezzo e dunque accorciando notevolmente, con prezzi di poco superiori al ticket, i tempi di attesa”. Per il pubblico invece la sintesi è purtroppo una bocciatura: “La tempestività è garantita dal Servizio sanitario nazionale solo per le prestazioni urgenti, mentre è a pagamento nei casi restanti”, per giunta a prezzi non sempre concorrenziali.
La richiesta è quella di porre fine al “de-finanziamento” della Sanità pubblica, ma il nodo non è solo nella quantità di denari allocati, ma anche nella loro destinazione. L’ambito farmacologico è tra i più cruciali, tant’è che le Regioni che ricorrono di più ai medicinali equivalenti (perlopiù al Nord Italia) sono a ben vedere le stesse che poi riescono a offrire la migliore qualità complessiva del servizio sanitario. Quando non si fa, è in gioco l’accessibilità stessa alle cure, ed è un problema talora addirittura “fisico”: un altro ente, l’associazione Fiaba, ha denunciato in un dossier che due ospedali italiani non sono attrezzati a percorsi accessibili e spazi di assistenza adeguati per i disabili: “Che così, in ospedale, rischiano di essere disabili due volte”, protesta l’onlus.
La ricerca genetica ha grandi potenziali anche perché permette il riscontro dei fenomeni di alterazione che possono innescarsi nell’ambito di diverse patologie e la sperimentazione di strade inesplorate per trovare i rimedi adeguati.
È il caso perfino dei tumori, alcuni dei quali presentano una specifica alterazione genetica, la fusione dei cosiddetti geni NTRK (Neurotrophic Tyrosine Receptor Kinase). Secondo quanto documentato da una ricerca statunitense pubblicata sul New England Journal of Medicine, la loro disattivazione permetterebbe di bloccare la crescita tumorale. Il meccanismo consisterebbe nell’annientamento dei segnali deleteri innescato da una nuova molecola (denominata Loxo-101), che bloccherebbe la “via di trasmissione” del recettore “alterato”, e correlativamente la progressione cancerogena.
Sono stati coinvolti nella sperimentazione 55 pazienti tumorali in età adulta e pediatrica (dai quattro mesi ai 76 anni), tutti interessati dalla citata fusione. E’ emerso un riscontro assai positivo e duraturo, all’esito di un trimestre di “follow-up”, con un tasso di risposta del 75%.
Nel dettaglio, i benefici sono risultati insussistenti solo per 14 pazienti: in tutti gli altri il tumore si è ridotto o è addirittura scomparso. Secondo i ricercatori i dati sono tali da supportare non solo l’avvio al trattamento delle persone interessate da tale alterazione genetica, ma anche da “giustificare lo screening per le fusioni TRK (identificabili tramite il sequenziamento dei geni, ndr.) nei pazienti di tutte le età affetti da tumori solidi in stadio avanzato”.
Le fusioni geniche NTRK si verificano raramente (circa 1% dei tumori) ma possono coinvolgere varie tipologie, tra le quali il tumore dell'appendice, il tumore del polmone, il carcinoma mammario, il colangiocarcinoma, il carcinoma del colon-retto, il tumore stromale gastrointestinale, il fibrosarcoma infantile, il melanoma, tumore del pancreas. E in tutti questi casi, all’evidenza, la molecola sembra perlopiù funzionare.
In generale, si tratta di un filone di ricerca molto promettente, quello che incrocia la ricerca genetica alla medicina oncologica, anche perché l’ambito tumorale è estremamente complesso e richiede risposte altamente selettive, che mirino alla radice del problema e ai meccanismi specifici di mutazione, trasmissione e proliferazione delle cellule, dallo stato sano a quello tumorale. L’orizzonte è quello di una medicina di precisione e la genetica si annuncia come lo strumento essenziale per realizzarla.
Sono oltre 3 milioni, odiano il cibo, hanno una percezione alterata del proprio corpo e vivono come tragedie spesso sotterranee quei disturbi del comportamento alimentare (Dca) meglio note come bulimia o anoressia capaci spesso di condurre alla morte chi ne è affetto. Ad essi è stata dedicata giovedì 15, in tutta Italia, "Fiocchetto lilla", la sesta giornata nazionale contro i disturbi del comportamento alimentare, giunta in questi giorni alla settima edizione.
A promuovere per la prima volta nel nostro Paese fu Stefano Tavilla, padre di una diciasettenne genovese morta nel marzo 2011 per le conseguenze di un disturbo del comportamento alimentare, mentre era in lista d’attesa per entrare in una struttura residenziale, fuori dalla sua Regione.
Negli anni l’associazione fondata in ricordo di Giulia, “Mi nutro di vita”, ha raccolto una immediata e vasta adesione, in ragione dell’ampiezza del fenomeno che oggi coinvolge fasce d’età sempre più giovani, mentre resta ancora molto carente la rete dei servizi capaci di dare un adeguato supporto. Poche le strutture specializzate, pochissime le Regioni attrezzate: pazienti e familiari sono costretti ad affrontare odissee e costi immeritati, in relazione anche all’ampiezza del problema che si rivela con dati sempre più allarmati. Ai conteggi ufficiali risulta ad esempio che nel 2016 l'anoressia ha fatto 3.240 vittime e la patologia aggredisce persone sempre più giovani: “Si è abbassata moltissimo l'età di esordio, si ammalano bambini di 8-10 anni, con conseguenze più gravi”, nota Laura Dalla Regione, responsabile tra l’altro di un numero verde allestito presso la presidenza del Consiglio, l’800180969.
Anoressia e bulimia sono problematiche serie quanto complesse, e coinvolgono aspetti di natura strettamente psicologica, sicché non vanno confusi col tema generale della cattiva alimentazione. Quest’ultimo tema però c’è e costituisce un’aggravante di rilievo, a danno anzitutto, di nuovo, dei giovani.
Proprio in questi giorni il ministero della Salute ha ad esempio denunciato che gli italiani commettono il grave errore di eccedere nel consumo di sale: il 90% della popolazione ne assume più di 10 grammi al giorno (con prevalenza maschile), mentre il tetto stabilito dall’OMS è di 5 grammi al giorno e il consumo è più elevato nella fascia tra i 6 e i 18 anni. Poi c’è il “junk food”, la sedentarietà ma anche altri errori, a volte sorprendenti.
Da un altro studio dell’Università di Foggia emerge ad esempio che quasi la metà degli adolescenti consuma troppa caffeina, problema che si aggrava tra le ragazze. Segnali convergenti di una gioventù in ansia, e di una popolazione complessiva che, seppur depositaria della virtuosa “dieta mediterranea”, necessita, al di là dei disturbi patologici, di un’alimentazione oggettivamente migliore e di un’educazione seriamente adeguata allo scopo.
“La commercializzazione è sempre più impersonale. La scelta dei consumatori è influenzata dai media di massa che utilizzano tecniche di persuasione molto sofisticate. Il consumatore non è solitamente messo in condizione di sapere se le preparazioni dei farmaci rispettino i requisiti minimi di sicurezza, qualità ed efficacia”. Era il 15 marzo del 1952, agli albori del boom del capitalismo post-bellico, quando John Fitzgerald Kennedy presentò al Congresso il suo storico discorso sui diritti dei consumatori, su cui aveva tra l’altro incentrato la sua campagna per l’elezione presidenziale. Una data poi divenuta ricorrenza annuale mondiale a fronte della presa d’atto che “siamo tutti consumatori” e in quanto tali meritiamo un’adeguata protezione.
Pochi però ricordano che uno dei passaggi cruciali dello storico discorso riguardò appunto l’ambito farmacologico, ambito che poi conosciuto gli sviluppi più rilevanti in materia di tutela e trasparenza. Ne sono un esempio, a livello europeo, la nascita e lo sviluppo di una sempre più intensa attività di farmacovigilanza e l’introduzione di una disciplina sempre più rigorosa per la commercializzazione dei medicinali. La disciplina comunitaria trova peraltro nel nostro Paese una tra le declinazioni più rigide, definendo obblighi stringenti in materia di informazione e promozione del prodotto (principi attivi, effetti collaterali eccetera) e regolando anche le modalità tecniche di realizzazione degli spot pubblicitari, ammessi peraltro solo per farmaci da automedicazione, che il cittadino può acquistare senza ricetta medica.
E c’è anche un altro aspetto che viene scarsamente ricordato del discorso del presidente americano, ossia il “diritto a un prezzo ragionevole”. Il tema è cruciale nel settore farmacologico, a partire dall’ambito dei generici, che hanno gli stessi principi attivi, qualità e sicurezza, con la sola differenza di un prezzo più basso, fattore che discende dal fatto che la licenza sul medicinale è scaduta, sicché il produttore non deve più scontarne i costi. Il settore è in crescita proprio perché consente di utilizzare prodotti di qualità garantita risparmiando sia ai singoli cittadini che ai servizi sanitari, come dimostrano le Regioni più virtuose, specie nel Nord Italia.
Ma siamo ancora al di sotto di altri Paesi europei, e permane qualche paradosso: le imprese che producono gli equivalenti, come conferma l’ultimo rapporto Nomisma-Assogenerici, hanno visto aumentare i ricavi meno dei costi: tradotto, si tende a scaricare sui produttori che salvano le tasche della Sanità e dei pazienti l’onere dei conti in rosso altrui.
Sono temi che i pazienti largamente conoscono, tant’è che le loro principali associazioni – a iniziare dalla rete nazionale di Cittadinanzattiva – si mobilitano assiduamente in favore dei generici. Permangono però ancora interessi avversi e resistenze psicologiche, ampiamente documentate. L’Istituto Nazionale di Sanità ha recentemente avviato un apposito portale sulle “fake news” nel settore, che sono tante e pericolose, propagandandosi nello sconfinato mondo delle nuove tecnologie di comunicazione. Una delle “bufale” più insidiose, per la nostra salute e le nostre tasche, è proprio quella di chi ancora obietta sulla completa equivalenza dei generici rispetto ai medicinali di marca, citando a motivazione paradossalmente proprio il minor prezzo, ossia il diritto dei consumatori.
Le appassionate disquisizioni sulla “miglior dieta” hanno ottime ragion d’essere: l’alimentazione è variabile fondamentale del nostro benessere generale e della specifica prevenzione di tante patologie mentre assistiamo invece ad una dilagante diffusione di “junk food” e obesità.
È tuttavia importante evitare gli eccessi “ideologici”, perché alcune scelte alimentari, pur legittime e motivate, possono portare a serie controindicazioni, e questo riguarda anche la fase per definizione più “vitale” e delicata di tutte, ovvero la gravidanza.
Un’allerta è stata lanciata in proposito nei giorni scorsi attraverso un Position Paper, curato dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) insieme alla Federazione Italiana Medici Pediatri e alla Società Italiana di Medicina Perinatale, che ha approfondito il tema dell’adeguatezza delle diete vegetariane in relazione allo sviluppo neurocognitivo dei bambini.
“Per un corretto sviluppo del nascituro, le diete latto-ovo-vegetariane e vegane sono inadeguate, soprattutto considerando l’ambito neurologico, psicologico e motorio”, sintetizza Andrea Vania, docente di Nutrizione Pediatrica all’Università La Sapienza, incoraggiando all’uso prevalente di alimenti vegetali, ma senza rinunciare del tutto a quelli animali, anche per quel che riguarda la vita neonatale: servono latte, uova, ferro e omega 3, nonché alimenti ricchi di vitamina B12.
Ed è in particolare su quest’ultima che suona il campanello d’allarme. Il deficit materno di tale vitamina è risultato, agli screening neonatali, triplicato nell’ultimo anno, in ragione proprio del dilagare delle diete vegetariane e vegane, seguite anche durante la gravidanza. Per il bimbo può comportare “danni neurologici molto gravi, ma in molti casi facilmente evitabili”, nota Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare, incalzando i medici, oltre agli stessi media sanitari, a un’informazione adeguata alle gestanti.
La vitamina B12, detta anche “cobalamina”, è appunto essenziale allo sviluppo del sistema nervoso centrale ed è contenuta negli alimenti di origine animale. Non a caso è una carenza che si riscontra anche in molti immigrati dall’Asia del Sud, dove è molto diffusa la dieta vegetariana. In gravidanza, all’evidenza, è una prassi pericolosa per il feto, quando la “domanda” vitaminica naturalmente aumenta. Se proprio non si vuol rinunciare a tale dieta, essa va pertanto comunque bilanciata – ricordano i medici – con la supplementazione di qualche adeguato integratore.
“Le cose sono migliorate, quando sono entrato io in ospedale, nel 1973, le siringhe erano di vetro, i pappagalli erano di vetro, solo i cateteri non erano di vetro, meno male…” Scherza così il popolare Giacomo Poretti, ex infermiere diventato comico (trovando la celebrità soprattutto nel trio con Aldo e Giovanni), e tornato ora alle origini con un esilarante monologo sulla professione, inscenato all’Auditorium Parco della Musica di Roma in occasione del Congresso della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche (Fnopi).
“Non c’era neanche il monouso, e potevi fare l’infermiere così, senza preparazione, oggi richiesta”, ricorda ancora Poretti. Oggi più qualità e più professionalità, dunque, ma al contempo meno infermieri. Se ne stima una carenza di 50mila unità, tra professionisti ospedalieri e, ancor di più, quelli che servirebbero per rendere operativa la tanto agognata “sanità territoriale”, destinata a potenziare l’assistenza diffusa e magari ad alleviare il peso riversato sui Pronto soccorso e l’insieme dei servizi e delle strutture dei nosocomi.
Solo tra il 2009 e il 2016 si son persi oltre 12mila infermieri, in relazione ai vincoli di spesa per le Regioni. “Il Paese ha bisogno di infermieri, eppure il Servizio Sanitario Nazionale vede un costante decremento dei professionisti in Sanità e conseguentemente una sempre minore capacità di rispondere ai bisogni di salute della popolazione”, nota Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, ricordando che “il rispetto della persona parte dal presupposto di farla vivere in buona salute”, e contestando “un’economia che per sostenere se stessa finora ha limitato e tagliato i beni primari della vita”.
“Blocco del turn over, blocco dei contratti, minutaggi sono state le principali leve del governo del Ssn messe in atto in questi anni”, protesta anche Tonino Aceti, Coordinatore del Tribunale dei diritti del Malato di Cittadinanzattiva, annunciando (a margine di varie mobilitazioni a sostegno dei farmaci generici) una collaborazione con la stessa Fnopi. E illustrando inoltre un apposito studio sulla professione, dal quale emerge una valutazione estremamente favorevole da parte dei pazienti sulla qualità, il servizio e l’attenzione umana dimostrata dagli infermieri, perfino al di fuori dell’ambito del ricovero ospedaliero. Insomma, pur tra fatiche aumentate, turni massacranti e domeniche spesso scomparse, loro ci sono sempre, amatissimi dagli italiani. E la stessa Agenzia Italiana del Farmaco ne riconosce l’alta professionalità, tanto da “aprire”, col Direttore Generale Melazzini, la prospettiva che possano essere essi stessi titolati a prescrivere i medicinali. Resta, e anzi si aggrava, il problema è che son pochi, e questo davvero non va bene.
L’eccesso d’ansia ci blocca, ci rende improduttivi, ci atterrisce, certo. Ma come ben sanno gli psicologi vale anche il contrario. L’assenza assoluta di un moto di stress, di qualche pur lieve paura può essere altrettanto paralizzante, tanto che a sua volta è un meccanismo difensivo messo in atto spesso dagli ansiosi stessi. Davanti al timore dello stress lo si annienta del tutto: si tende a uscire dal mondo per evitare il problema. L’aspetto curioso, rilevato ora da una ricerca tedesca, è che tali meccanismi non coinvolgono solo la psiche, ma anche gli aspetti più strettamente fisiologici, muscolo cardiaco incluso.
Lo si legge sulla rivista Clinical Research in Cardiology, dove gli scienziati della Technical University di Monaco di Baviera, riferiscono di uno studio nel corso del quale hanno monitorato e intervistato 619 pazienti nelle 24 ore successive all’uscita dall’unità di terapia intensiva, al seguito di un infarto miocardico.
Tra essi - riferiscono - il 12% soffriva di un disturbo d’ansia e proprio gli “ansiosi” hanno reagito più rapidamente degli altri, captando molto prima l’insorgenza del problema. Ed è una differenza tutt’altro che banale, visto che - ricordano i ricercatori - “ogni mezz’ora è cruciale per le probabilità di sopravvivenza dopo un infarto”. In questo caso il divario riscontrato è ben maggiore. Le donne che soffrivano d’ansia hanno raggiunto l’ospedale quasi due ore prima rispetto alle altre. Curiosamente, la differenza è risultata assai meno marcata tra gli uomini: “l’anticipo dell’ansioso”, in questo caso, è stato conteggiato in un tempo medio di 48 minuti.
Tutto questo non inficia comunque il fatto che tali benefici si accompagnano ad altissimi costi. Chi soffre d’ansia è pesantemente esposto a maggiore stress, senso di spossatezza estrema e malessere generale. L’ansia era e rimane un fattore di rischio cardiovascolare, anche se poi l’ansioso è più rapido nell’affrontare il problema, con quel che consegue per le probabilità di soluzione.
Ma la conclusione degli scienziati tedeschi è anche un’altra, e cioè che bisogna sempre ascoltare le persone, guai a snobbarne le preoccupazioni di salute, in quanto ritenute figlie dell’ansia. Vale l’esatto contrario. “I dottori dovrebbero prendere quelle preoccupazioni molto sul serio, tali pazienti possono essere ancor più utili e collaborativi quando sentono di ricevere una risposta alla richiesta di aiuto”. E vale qui anche il paradosso: “Una malattia può a volte proteggere da un’altra malattia ancor più seria”.
È un po’ come quando si parla di calcio. Chi lo detesta di solito tira in ballo, non a torto, l’enormità di parole (e interessi) che lo circondano, inclusa una notevole quantità di ciarlatani, magari aggressivi. La ragione è che, essendo lo sport più popolare, trascina a sé un po’ tutto, incluse visceralità, volgarità e mitologie. Accade lo stesso per la salute, in cima agli interessi degli italiani, e perciò foriera, specie sul terreno sconfinato del web, anche di parecchie bufale.
Il problema è che si tratta, appunto, di salute, ossia di un tema delicatissimo, sicché la “fake news” può recare un serio danno, agli individui e alla collettività, tanto più che, alle stime del Censis, almeno un italiano su tre si informa sulla medicina navigando in rete. Il dato, nell’insieme, è positivo, perché a portata di schermo e tastiera in effetti si può trovare tantissima informazione, inclusi contenuti scientifici, cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma al contempo presenta grandi insidie, perché s’infiltrano e, nelle ripetizioni e “condivisioni”, proliferano un sacco di falsità, che possono suonare vere quantomeno agli strati culturalmente più deboli della popolazione.
E così, l’Istituto Superiore di Sanità ha deciso di mobilitarsi, utilizzando il medesimo strumento potentissimo, il web, e annunciando in questi giorni l’apertura di un’apposita sezione del portale ISSalute, orientata proprio a smascherare le tantissime bufale sui temi della salute. E riferendo di averne già individuate, in breve tempo, ben 150 tra quelle più diffuse.
Alcune sono per la verità interessanti, anche perché tendono a essere acquisite anche tra le persone più informate. È il caso dello zucchero di canna, ritenuto solitamente più sano di quello bianco, eppure non c’è alcuno studio scientifico che lo comprovi, mentre contengono entrambi esattamente la stessa molecola (il saccarosio). Poi c’è il “ferro negli spinaci”, popolarizzato anche dallo storico “Braccio di Ferro”. Solo che, tra le tante virtù di quella verdura, manca tale sostanza, non perché assente, ma perché compresente ad altre che ne inibiscono l’assorbimento intestinale. Poi c’è il caso delle radiofrequenze generate dal wi-fi in casa, su cui la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha negato l’esistenza di riscontri scientifici che documentino alcun danno per la salute.
Infine ci sono i tanti “classici” delle bufale, inclusi quelli, pericolosissimi, contro i vaccini, tuttora essenziali per la salute delle persone e anche per la sostenibilità dei sistemi sanitari, oppure gli spauracchi sulle trasfusioni “poco controllate”, che invece lo sono rigorosamente, o ancora sui migranti, che riporterebbero malattie da noi scomparse come la tubercolosi (mai del tutto debellata, e agli esiti statistici senza alcuna incidenza dall’immigrazione). Non ultimo, i pregiudizi sulle raccolte fondi per la ricerca medica, che “chissà dove vanno”. Al contrario, un’Ong ha stimato che, per ogni euro donato, ben 74,2 centesimi vanno all’effettiva ricerca, il resto tra spese per le strutture, la gestione, e la campagna stessa: insomma, un’ampiezza e pertinenza di destinazione probabilmente senza pari.
“La diffusione dei medicinali equivalenti e biosimilari è uno strumento prezioso per rendere disponibili con tempestività terapie dall’impatto significativo sulla vita dei pazienti e sulla tenuta dei sistemi sanitari e valorizzare l’innovazione”, esordisce in un comunicato il Direttore Generale dell'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) Mario Melazzini. Ma perché l'ente regolatore del settore si schiera così platealmente in favore dei generici?
La prima risposta è presto detta, e sta nelle cifre. Gli equivalenti rappresentano a livello europeo il 54% del volume di medicinali, proporzione che precipita al 21% in valore. Lo scarto tra le due cifre definisce l'entità del risparmio per i sistemi sanitari, stimato all'enorme cifra di 35 miliardi di euro. È una variabile dunque salvifica, a fronte della tendenza a costi crescenti nella Sanità legati al progressivo invecchiamento della popolazione.
Ed è la variabile che consente appunto di “valorizzare l'innovazione” migliorando le cure. L'ultimo rapporto Osmed ha documentato un rosso nella spesa farmaceutica, legato all'accesso di nuovi e importanti farmaci ma, se non vi fosse stato il cuscinetto degli equivalenti, tali medicinali sarebbero risultati del tutto inaccessibili.
Sul nodo dei prezzi, lo stesso Melazzini ha esplicitamente sollevato una problematica che grava sulle imprese produttrici di generici. “Sono sempre più sotto pressione per ridurre i costi, hanno visto infatti assottigliarsi i margini di profitto, e ciò ha generato complicazioni a livello produttivo, che in alcuni casi possono sfociare nel disinteresse a mantenere in commercio un determinato prodotto”. L'esito è a catena, a danno del consumatore, perché “quando un medicinale abbandona il mercato, la concorrenza si riduce e i prezzi tendono nuovamente a salire”.
Da qui la fotografia di un settore in buona crescita (anche in Italia, seppure lontana dai livelli di altri Paesi europei), ma ancora soggetto a “fluttuazioni”, lamentate anche dalla rivista Lancet. Servono azioni politiche, ma serve anzitutto, aggiunge il Direttore dell'Aifa, “la promozione di una vera e propria cultura del farmaco equivalente”, tramite un'informazione corretta “a far sì che i pazienti siano consapevoli di avere a disposizione farmaci con la stessa qualità, efficacia e sicurezza degli originator, a un prezzo inferiore”. Sono i pazienti dunque i primi destinatari del messaggio, gli stessi che spesso sono costretti a rinunciare alle cure a causa delle difficoltà economiche. E sono loro in effetti a mobilitarsi. “La salute è uguale per tutti”, è lo slogan di una mobilitazione pubblica lanciata nei giorni scorsi da Cittadinanzattiva, “a sostegno della tutela del diritto alla salute”. Il farmaco equivalente è un tassello essenziale di tale diritto, come perorato in molte campagne messe in atto dalla stessa rete associativa di pazienti.
A leggere le singole percentuali sembrerebbe un problema marginale, ma a metterle insieme emerge un quadro estesissimo quanto drammatico. I cosiddetti “malati rari” sarebbero almeno due milioni in Italia, secondo la rete Orphanet, e in due terzi dei casi si tratta di bambini in età pediatrica. Nei giorni scorsi si è tentata la carta del rilancio dell’attenzione al problema, celebrando l’apposita “Giornata Mondiale”, con eventi, congressi, campagne di sensibilizzazione e perfino una mostra fotografica all’europarlamento promossa dalla Federazione Italiana Malattie Rare.
Tecnicamente la malattia si definisce “rara” quando (nella definizione europea) coinvolge non più dello 0.05% della popolazione, ma il fatto è che ce ne sono tantissime, oltre settemila secondo i conteggi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ed è un numero in continuo aumento per il progredire della scienza, specie in ambito genetico, e correlativamente la possibilità crescente di diagnosticarle, nonché, almeno in parte, di curarle.
Ai grandi numeri si aggiungono i grandi problemi per molte delle persone colpite. In Italia un quarto dei pazienti attende da 5 a 30 anni per trovare una diagnosi appropriata e, per ottenerla, uno su tre deve spostarsi in un’altra Regioni. La buona notizia è che tali difficoltà si stanno pur gradualmente riducendo, tra i citati progressi scientifici, le stesse campagne di sensibilizzazione, l’aumento della copertura pubblica delle patologie nell’ambito dei Livelli Essenziali di Assistenza, e anche grazie a iniziative su malattie specifiche.
Una di queste è della Lega del Filo d’Oro che si occupa di pluriminorazioni psicosensoriali, aiutando i pazienti nella definizione della diagnosi e del percorso riabilitativo più adatto, essenziale anche per il fatto che si tratta spesso di patologie che presentano possibili ricadute anche al di fuori dell’area inizialmente lesa. Ebbene, il Centro Diagnostico, allestito dall’associazione assieme a centri ospedalieri e pediatrici di Ancona, testimonia che solo in tale ambito le malattie rare trattate sono state 150, in incremento del 17% negli ultimi dieci anni. Addirittura, un paziente su due, tra quelli che si rivolgono al Centro, soffre di una di tale patologie.
La loro diffusione è tale che, in qualche caso, escono dalla categoria delle “rare”. È ad esempio il caso del “linfedema”, che oramai colpisce circa 40mila italiani l’anno, un’incidenza quasi pari al tumore al seno. Provoca il rigonfiamento degli arti per una carenza di drenaggio della linfa sotto la pelle, innescando tra l’altro molto dolore. Il rapido aumento è dovuto al fatto che colpisce almeno il 20% dei pazienti sottoposti a terapie oncologiche che prevedono lo svuotamento dei linfonodi ascellari, inguinali e pelvici. Se ne fa il punto proprio in questi giorni in una conferenza al Policlinico Gemelli di Roma, nell’ambito di un’altra “Giornata Mondiale”, dedicata specificamente a questa malattia, alfine anzitutto di ricordare, a pazienti e anche ai medici, che con una diagnosi tempestiva i rimedi esistono. In particolare, le recenti tecniche di microchirurgia permetterebbero la riduzione del gonfiore e del dolore fino al 70%.
Il tema non è purtroppo nuovo, ma gli ultimi dati forniscono ulteriore, amara conferma. Non solo l’Europa ha perso la sfida lanciata vent'anni fa di eliminare completamente alcune patologie come il morbillo entro il 2015, ma si assiste a un’insidiosa recrudescenza, legata a un parziale calo vaccinale sotto la spinta di qualche campagna (interessata) e alcuni spauracchi infondati che hanno allontanato dalla copertura alcune famiglie, specie tra le fasce deboli e meno istruite.
Secondo l’ultimo bollettino, relativo a gennaio, diramato dal Sistema nazionale di sorveglianza presso l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), le Regioni hanno segnalato complessivamente 164 casi di morbillo. L’80% è concentrato in quattro regioni, nell’ordine Sicilia, Lazio, Calabria e Liguria. Oltre la metà delle persone coinvolte sono state ricoverate, circa il 40% ha sviluppato almeno una complicanza, e due pazienti sono addirittura morti. Costoro, insieme al 93% delle persone ammalatesi, non erano vaccinati.
Su scala europea, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha documentato oltre 21mila persone infette nel 2017, e 35 decessi. Alcuni Paesi sono stati oggetto di specifico richiamo in relazione alla copertura vaccinale, e in particolare l’Italia, che ha segnato il record continentale di contagi (oltre cinquemila), superato solo dalla Romania. Niente allarmismi, comunque: come spiegano gli esperti le cifre contingenti possono essere legate a specifiche ondate, trattandosi di una patologia altamente contagiosa.
È però urgente riprendere il filo dell'informazione sull'importanza delle immunizzazioni, riconosciuta anche dai pochi medici scettici in materia. Lo stesso Iss, con un apposito approfondimento, ha stimato che le vaccinazioni principali hanno evitato tra il 1900 e il 2015 più di quattro milioni di contagi e decine di migliaia di morti in Italia. Il vaccino resta l’architrave dei successi della medicina contemporanea, che ha fatto raddoppiare la speranza di vita.
A proposito di buona informazione, ricorre proprio in questi giorni il ventennale della “fake news più celebre della storia". Coinvolgeva proprio il morbillo, e ricevette l'onore di pubblicazione dalla prestigiosa rivista Lancet (che poco dopo si scusò e cancellò l'articolo): un medico inglese avanzò l'ipotesi di un possibile legame tra il vaccino trivalente morbillo-parotite-rosolia e l'autismo. Precisò che si trattava solo un'ipotesi, ma trovò subito ampia eco mediatica, e lo stesso studioso suggerì cautelativamente l'impiego di vaccini monovalenti. Fu la “regina delle bufale”, una vera e propria “frode scientifica” - si commenta oggi unanimemente. Qualche tempo dopo la pubblicazione emerse un dettaglio in più: lo stesso medico, che gettò la pesante ombra sul trivalente, aveva fatto richiesta di brevetto per un suo vaccino monovalente.
“L’arte della medicina consiste nel divertire il paziente mentre la natura cura la malattia”, provocava lo scettico Voltaire. Lo stesso considerare la medicina come “un’arte” è per definizione scivoloso, per quel che doverosamente impone scienza all’intero ambito della ricerca e della terapia. Nondimeno c’è un aspetto cruciale della professione medica che, tra mille nozioni, paletti razionali e complessità fisio-patologiche, deve sempre conservarsi. È la sfera dell’intuizione, che non richiede di uscire dai paletti razionali che nei secoli hanno costruito la medicina contemporanea. Richiede piuttosto di prestare seria attenzione al singolo paziente, e ai possibili cambi di rotta che possono ricercarsi, soprattutto nei casi più disperati.
Lo ha fatto, con straordinario successo, un medico italiano, Nicola Laforgia, direttore dell’Unità di Neonatologia del Policlinico di Bari. Il caso era quello di una neonata affetta da “linfangiomatosi”, una malattia rara che consiste nella malformazione del sistema circolatorio linfatico che può interferire con vari organi vitali, a partire dall’ambito respiratorio, con tassi di mortalità elevatissimi.
Il problema era già stato diagnosticato durante l’ultima fase della gravidanza, e si è subito complicato dopo il parto, con la compromissione delle vie respiratorie. Dinanzi all’inefficacia di un medicinale solitamente utilizzato in questi casi, e dopo il pronto consenso firmato dai genitori, il medico ha tentato la strada di un semplice antibiotico immunosoppressore. Col risultato che la piccola sembra davvero del tutto guarita. “È il primo caso al mondo” per tale patologia e con un farmaco del genere, ha rivendicato Laforgia, suscitando l’immediato interesse della stampa scientifica internazionale.
“L’aggravamento del quadro clinico ha reso necessario l’inizio tempestivo di un trattamento terapeutico preferendolo a quello chirurgico perché è molto demolitivo e può residuare esiti invalidanti senza modificare le altre lesioni”, ha raccontato il medico, spiegando che, grazie all’idea dell’antibiotico “per l’intrinseco effetto di inibizione su alcuni fattori di crescita si è osservata una riduzione significativa non solo della massa laterocervicale, ma anche delle altre lesioni”.
Non è certo una novità che l’ambito intuitivo sia cruciale nella medicina. Già Ippocrate osservava che “gli uomini di esperienza sanno bene che una cosa è ma non sanno il perché; gli uomini d’arte conoscono il perché e la causa”. Più di recente, due studiosi contemporanei, l’americano Barrows e l’inglese Mitchell, nell’introdurre un manuale di neuroscienze, si sono dichiarati “sconvolti dall’uso prematuro ed eccessivo di test diagnostici come sostituti dell’attività del pensare al letto del paziente”. E hanno ricordato la storia di “intuizioni fruttuose avute in modo rapido o decisioni cliniche magistrali prese sulla base di dati incompleti da parte di medici accorti”. Il medico di Bari si aggiunge a queste belle storie.
È stata una amara conferma della più odiosa ed eloquente delle diseguaglianze: la Sanità italiana non è uguale per tutti, anzi è talmente sperequata che si riflette in differenze significative anche sulla speranza di vita delle persone. I dati sono stati illustrati dall’Osservatorio Nazionale della Salute, ideato e presieduto da Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
Tra le maggiori discrepanze rilevate dal rapporto, spunta quella che oppone i laureati ai non laureati. La differenza è significativa soprattutto tra gli uomini: i primi hanno una durata della vita media di 82 anni, per i secondi crolla a 77. Naturalmente a fare la differenza non è il “pezzo di carta” in sé, ma quel che tende a rilevare sulla situazione socio-economica della persona. Il dato conferma che le fasce più deboli in rapporto alla situazione socio-economica vivono di meno, e per giunta vivono peggio, palesando dati peggiori per quel che riguarda, tra l'altro, le cronicità e l'obesità.
Altrettanto grave quanto significativo il dato sulle rinunce alle cure. Accade almeno una volta nella vita di rinunciare ai trattamenti per motivi economici al 69% della popolazione nei ceti deboli, il doppio rispetto agli altri. Pesanti anche le differenze regionali. Al nord-est la speranza di vita media per gli uomini è di 81,2 anni, per le donne 85,6, mentre nel mezzogiorno si scende rispettivamente a 79,8 anni e a 84,1, ossia quasi due anni in meno.
Tale differenza territoriale (rilevata tra l'altro in aumento negli ultimi dieci anni) è dovuta solo a differenze di reddito? Non proprio. Emerge anche una differenza nella qualità regionale della spesa, con riferimento anche ai farmaci. Le Regioni che spendono di più nei medicinali equivalenti sono anche quelle con le valutazioni migliori sul loro servizio sanitario: in Trentino la percentuale della spesa per i farmaci equivalenti, tra quelli a brevetto scaduto, è del 10.2%, ossia quasi il triplo che in Calabria. Il nesso è facile da spiegarsi: i risparmi generati dal ricorso ai generici consentono di ampliare la qualità delle cure e la platea dei pazienti.
L’imperativo suggerito dall’Osservatorio è proprio quello di superare tali diseguaglianze preservando la natura pubblica del Servizio Sanitario, notando peraltro che le stesse risultano ancora inferiori a quelle rilevate in tutti gli altri Paesi europei eccetto la Svezia. L’universalismo dell’offerta sanitaria “si sta inesorabilmente disgregando”, avverte comunque il presidente del Gimbe Nino Cartabellotta. A margine, la stessa Fondazione ha anche emesso un comunicato in vista delle imminenti elezioni politiche, notando che “nessuna forza politica ha elaborato un piano di salvataggio del Servizio Sanitario Nazionale”.
Il quesito si ripropone, al variare delle stagioni: la montagna è tanto bella e tanto salubre, ma è davvero alla portata delle persone con seri problemi cardiovascolari, date le carenze di ossigeno in alta quota? Un gruppo di scienziati, guidati dal cardiologo Gianfranco Parati dell’Università Bicocca di Milano, ha fatto ora il punto, con una pubblicazione sulla rivista European Heart Journal sulle conoscenze fin qui acquisite dalla ricerca medica.
La risposta è sostanzialmente quella di un’ampia rassicurazione, purché all’interno di alcuni limiti e raccomandazioni da seguire per bene. Un “divieto” medico all’escursione in alta montagna permane, ma solamente per chi soffre di patologie coronariche gravi. Per tutti gli altri, l’attenzione va calibrata in funzione dell’altitudine.
Per le coronaropatie lievi praticamente le limitazioni di altitudine non sussistono, a meno di non voler raggiungere qualche vetta himalaiana; altrimenti, perfino le cime alpine sono sostanzialmente “innocue”. La vera differenza è rappresentata dalle patologie di media portata: per esse la raccomandazione c’è, sebbene “blanda”, in quanto si limita a sconsigliare di superare la considerevole quota dei 2.500 metri.
È a tale altitudine che si riscontra un calo rilevante dell’ossigeno, che innesca un aumento della frequenza respiratoria e della pressione sanguigna, con ricadute sull’intero sistema cardiovascolare.
Questo per quel che riguarda i pur modesti paletti sulle altimetrie. Per il resto, la raccomandazione è piuttosto nei comportamenti. “Il paziente cardiologico non deve necessariamente privarsi del piacere della montagna o del viaggio ma deve affrontare la situazione con serietà, consapevolezza, prudenza e preparazione”, spiega Parati.
In questo le priorità sono quelle di un minimo di allenamento fisico, un’ascensione in quota da effettuare gradualmente, un controllo preventivo sui propri valori, un eventuale adeguamento del supporto farmacologico in base alla valutazione personalizzata del medico, l’attenzione a una dieta leggera, con tanta acqua e vitamine, pochi grassi, evitando naturalmente fumo e alcol. Al resto ci pensa la montagna: se rispettata, non è un'insidia ma un toccasana per la salute, anche del cuore.
Un'altra, massiccia, dimostrazione di solidarietà degli italiani. Lo scorso 10 febbraio la Giornata di Raccolta del Farmaco si è conclusa con la raccolta di oltre 376mila confezioni. La tradizionale iniziativa del Banco Farmaceutico stavolta è stata “battezzata” perfino dal saluto del Papa che all’Udienza generale, in piazza San Pietro, ha ricordato l’attività della Onlus ramificata oramai in 101 province italiane, e impegnata nella raccolta di medicinali acquistati e donati dai clienti nelle farmacie.
L'enorme colletta viene poi consegnata ai 1.761 enti caritativi convenzionati, che provvedono alla distribuzione alle persone bisognose, stimate quest'anno in 535mila. Cifre impressionanti, sotto l'ombrello del patrocinio della Presidenza della Repubblica e con la collaborazione dei principali attori del settore, inclusa l'Agenzia Italiana del Farmaco, Federfarma e Assogenerici.
Quelle cifre sono ogni anno in aumento grazie anche al crescente coinvolgimento delle farmacie, ben 4.176, con un aumento dell'8,4% rispetto all'anno precedente. A questo dato si accompagna peraltro una piccola ombra, ossia il fatto che le donazioni medie effettuate nel singolo esercizio sono invece pur lievemente calate. La ragione, illustrata dal presidente della Fondazione Banco Farmaceutico, Sergio Daniotti, è amaramente semplice: “Il persistere, ormai consolidato, degli effetti della crisi”.
Si rilancia dunque il tema dei costi dei medicinali e l'urgenza del ricorso ai farmaci equivalenti per poter ampliare le possibilità di cura dei cittadini. Il 2017 è stato l'anno dello storico sorpasso dei generici rispetto ai medicinali di marca in Europa, arrivando a quota 62%, ma il loro impatto sui bilanci sanitari resta ancora basso, evidenziando più ampie possibilità di risparmio per le casse pubbliche e soprattutto per le tasche dei cittadini.
Significa potersi curare di più, e poter curare più persone. Il principio attivo è lo stesso, la differenza di prezzo è dovuta alla scadenza dei brevetti, che in questi anni tra l'altro sta interessando molti medicinali, spingendo il settore degli equivalenti ad un’ottima crescita. Pur tra resistenze di varia natura (incluse alcune psicologiche), il concetto è oramai acquisito dagli operatori sanitari. Negli Stati Uniti, alcune centinaia di ospedali si sono associate per acquistarli assieme, e addirittura per produrseli.
Non si tratta più di disquisire tra favorevoli e contrari, tra i più e i meno propensi allo sport, anche in riferimento alle scuole. Il tema non è ideologico: è solo sanitario. Lo ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità, illustrando i dati preoccupanti sulla sedentarietà, eccessiva perfino tra i ragazzi, con quel che consegue per i loro stessi rischi fisici, nell’arco dell’intera vita.
Il dato essenziale è che oltre l’80% degli adolescenti tra 11 e 17 anni fa poca o nessuna attività fisica: questo genera un effetto negativo per la salute conteggiato in un rischio aumentato di morte di quasi il 30%, incrementando l’esposizione a problemi cardiovascolari, ictus, diabete e perfino cancro. “Studiare incentivi fiscali per chi svolge la pratica sportiva e, soprattutto, aumentare le ore di educazione fisica nelle scuole, affinché questa materia non sia più una cenerentola, ma un volano decisivo per rendere la nostra società più attiva e in buona salute”, commenta la stessa ministra della Salute Lorenzin.
Il nodo è che fin qui non si è fatto nulla, mentre sarebbe il caso di agire con urgenza. Secondo l’ultimo rapporto europeo in materia, gli italiani risultano tra i più sedentari, col 60% che di chiara di non fare attività fisica, mentre la media europea continentale scende al 42%, e in Paesi come la Svezia arriva addirittura sotto il 10. Per quel che riguarda le scuole, in Francia si conteggia una media di 108 ore di educazione fisica per anno scolastico, mentre da noi sono poco più della metà, e non vi sono ancora linee guida cogenti in materia.
Permane in Italia solo l’indicazione del minimo di un’ora alla settimana, mentre l’indicazione della scienza è che alla crescita sana dei giovanissimi servirebbe almeno un’ora al giorno di attività fisica. Il problema è anche nei costi, pubblici e privati. Un’altra (ex) ministra, l’olimpionica Josefa Idem, aveva lamentato il fenomeno dei “progetti integrativi pagati dai genitori” per integrare le lacune scolastiche, perorando la necessita di affidare l’educazione fisica pubblica, sin dalla scuola primaria, a laureati nelle scienze motorie. Ne servirebbero circa ventimila, con un costo annuo stimato ad almeno 300 milioni di euro.
Si parla dei bambini, del futuro, ma attenzione, non è mai troppo tardi per iniziare qualche attività sportiva, o per evitare di rinunciarvi. Con cautela, naturalmente, ma un esercizio moderato è considerato un tassello essenziale della prevenzione, anzitutto cardiovascolare, anche in età avanzata.
Attenzione perché il tema è delicatissimo, rappresentando una vera e propria piaga socio-sanitaria in molte Regioni italiane, in particolare al nord, nonché in fasce della popolazione particolarmente a rischio. Nel consumo dell’alcol, in base agli ultimi dati dell’Istat, eccedono soprattutto gli ultra-sesantacinquenni, con larga prevalenza maschile (oltre un terzo della popolazione di tale età), nonché tra i giovani, con percentuali che sfiorano il 20% nella fascia tra gli 11 e i 24 anni, dove la differenza di genere permane anche se si assottiglia.
Sta di fatto che, entro limiti stringenti, si ribadiscono conferme scientifiche sul concetto che un pochino d’alcol sia non solo “digeribile” dal nostro corpo, ma abbia perfino qualche potenziale beneficio, non solo - come già noto - in ambito cardiovascolare ma, almeno stando alle ultime conferme, anche nella sfera cerebrale.
Il dato emerge da uno studio pubblicato su Scientific Reports e realizzato dall’Università newyorchese del Rochester Medical Center, i cui studiosi in passato avevano già dimostrato il ruolo del liquido cerebrospinale nel pulisce il cervello, eliminando le tossine in eccesso, come ad esempio le proteine beta amiloide e tau, associate con l’Alzheimer.
Ora uno studio condotto su roditori esposti all’alcol ha ribadito il serio danno cerebrale determinato da un consumo di alcol elevato e protratto nel lungo periodo, data la sua incidenza su meccanismi infiammatori, ma ha rivelato anche che invece un basso consumo (calcolato nell’uomo in un paio di bicchieri al giorno), non solo non determinerebbe effetti negativi ma sarebbe capace addirittura di attivare il meccanismo di “purificazione” dai rifiuti garantito dal sistema linfatico cerebrale.
Non si tratta di una novità assoluta, ma documenta e spiega quanto già sporadicamente notato in precedenza, ad esempio da uno studio pubblicato lo scorso anno dall’Università di Graz, che attribuiva a quel paio di bicchieri al giorno anche qualche effetto positivo a livello cerebrale: secondo i ricercatori austriaci, infatti, un po’ di vino alimenterebbe, in particolare, la “fantasia artistica” e la capacità di risolvere i problemi sfuggendo dalle barriere razionali e trovando strade innovative.
Quando la fantascienza si fa scienza si arriva anche a realizzare quello che finora avremmo potuto definire solo un “miracolo”, ovvero la restituzione la vista. È accaduto all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, con un intervento di ben undici ore, in ragione tra l’altro delle comprensibili esigenze di massima precisione dell’intervento.
“È la prima volta in Italia che si impianta una protesi retinica, tra le prime al mondo”, spiega Marco Codenotti, direttore dell’équipe e del reparto chirurgico-vitroretinico che ha seguito l’operazione, ammettendo che “è stato l’intervento più complicato che abbia mai eseguito”. Col lieto fine, comunque, di “un sogno realizzato”.
La paziente, di 50 anni, di cui la metà trascorsi da non vedente, è stata presto dimessa: per il riscontro definitivo servirà ancora qualche giorno, ma la convinzione è che gradualmente potrà recuperare autonomamente almeno in parte la vista. Si tratta cioè di attendere un po’ per l’accensione del “microchip”, che dovrebbe aver luogo a circa un mese dall’intervento, in modo che l’occhio possa avere la piena facoltà di farne uso.
L’aspetto straordinario è infatti che l’organo potrà recuperare una capacità autonoma di funzionamento, senza bisogno di ausili esterni, quali telecamere o appositi occhiali. Un vero e proprio “occhio bionico”, spiega Codenotti, ossia una protesi sotto-retinica artificiale, ad alta definizione (contiene 1600 pixel), capace di stimolare il circuito nervoso endogeno che collega l’occhio al cervello, in sostituzione dell’attività solitamente svolta a livello cellulare dai fotorecettori della retina stessa.
L’occhio, a quel punto, è in condizione di “reimparare” gradualmente a vedere, quantomeno tramite una pur vaga distinzione tra luci e ombre. L’intervento ha dunque davvero i connotati dello straordinario, oltre che dell’impensabile fino ad ora. C’è un’avvertenza, comunque: la tecnologia non può restituire la vista alla totalità dei ciechi, ma solo a quelli che lo sono diventati al seguito di qualche malattia genetica come la retinite pigmentosa.
“We can. I can”, recitava lo slogan dell'ultima edizione della Giornata Mondiale contro il Cancro, coordinata dall'omonoma Unione Internazionale lo scorso 4 febbraio, sottolineando il potenziale odierno della sfida. I nuovi casi di cancro accertati ogni anno sono circa 14 milioni e si prevede che supereranno i 21 milioni entro il 2030; allo stesso tempo, però, aumenta anche l’incidenza delle guarigioni, soprattutto nel nostro Paese: nel 2000 erano il 40%, oggi sono salite a oltre il 60%, dati che ci collocano ai vertici della classifica europea.
Il “potenziale” sottolineato in particolare quest'anno è rappresentato in primo luogo dalla prevenzione, a partire dalla strategia che punta a modificare i comportamenti più nocivi, a partire dal fumo, ritenuto responsabile di circa un terzo di tutti i tumori. Tra le “regole d'oro” sottolineate dall'Associazione Italiana Oncologia Medica figurano però molti altri consigli, con un focus particolare dedicato all'alimentazione. Naturalmente gli imperativi sono quelli di evitare l’obesità e l’eccesso di alcol, nonché di seguire una dieta ricca di frutta e verdura, povera di grassi, carni (specie quelle conservate) e sale. Ma ci sono precise regole alimentari da seguire anche quando ci si ammala.
A tal proposito, il ministero della Salute, assieme alle Regioni, Aziende sanitarie e società scientifiche, ha divulgato delle “linee guida” destinate proprio all’alimentazione dei pazienti oncologici, trai quali si riscontrano perdite rilevanti di peso già in fase di diagnosi.
Il tema è serissimo, perché un’alimentazione inadeguata incide negativamente anche sull’efficacia e l’aderenza alle terapie, oltre che sul benessere generale della persona. Il documento raccomanda quindi una stretta collaborazione tra oncologi e nutrizionisti, anche per quel che riguarda le mense ospedaliere. Ai pazienti, il consiglio è anzitutto quello di evitare i digiuni. E se non si ha voglia di mangiare - consigliano gli esperti - meglio rinunciare alle abbuffate e moltiplicare invece i piccoli pasti. Con le solite priorità: tanta frutta, verdura e le proteine dei legumi.