Le persone che in età scolare si sono comportate da bulli sono più a rischio di avere da adulti disturbi mentali e difficoltà sociali.Lo sostiene uno studio canadese pubblicato sul British Medical Journal, con un'indagine iniziata negli anni Cinquanta-Sessanta e che ha esaminato i dati di 3500 ragazzi di 13 anni seguiti poi fino all'età di 40-50 anni circa. È emerso che quelli che avevano più problemi di comportamento a scuola e che erano stati valutati come bambini problematici soffrivano più facilmente di ansia e depressione. Inoltre, coloro che si erano comportati da bulli erano quelli che con più probabilità avevano lasciato lo scuola, sofferto di problemi psicosociali o affrontato gravidanze precoci e difficoltà finanziarie.
Le sostanze presenti nei mirtilli hanno dimostrato, in modelli animali, di inibire la crescita dei tumori e di stimolare l'apoptosi delle cellule cancerose.Lo hanno osservato su topi con neoplasia all'esofago gli esperti dell'Ohio State Comprehensive Cancer Center: le proprietà del mirtillo sono dovute alla presenza di antocianine, una classe di flavonoidi in grado di ostacolare lo sviluppo del tumore e che sembra anche in grado di indurre l'apoptosi delle cellule neoplastiche. Gary D. Stoner e il suo team lo hanno verificato nutrendo un gruppo di roditori con un estratto concentratissimo di mirtilli, rilevando un chiaro effetto preventivo nei confronti delle neoplasie. Si tratta di una delle prime conferme su modello animale di studi precedenti effettuati in vitro. "Ora che sappiamo che l'estratto di antocianine è efficace quanto l'assunzione di frutti interi - assicurano gli esperti - speriamo di poter un giorno utilizzare un mix standardizzato di queste sostanze per combattere i tumori. L'obiettivo è di sostituire la polvere di mirtillo con i soli componenti attivi e poi identificare un modo per distribuirli meglio ai tessuti, incrementandone l'efficacia".
Secondo uno studio canadese pubblicato su British Medical Journal, le donne che soffrono di depressione post-partum trovano grande giovamento nel conversare al telefono con una persona che ha vissuto lo stesso tipo di esperienza.Ascoltare una voce amica, e sfogare ansie e timori parlando con qualcuno che ha vissuto il problema, può, infatti, dimezzare il rischio di sviluppare il disturbo dopo la nascita del bambino. I ricercatori, coordinati da Cindy-Lee Dennis della Facoltà Bloomberg di infermieristica dell'Università di Toronto, hanno esaminato 701 madri ad alto rischio di depressione post-partum, selezionate attraverso uno screening che ha interessato in tutto oltre 21mila donne di 7 distretti dell'Ontario. Il campione è stato suddiviso in due gruppi: alcune ricevevano la tradizionale assistenza post-parto, mentre alle altre, in aggiunta, veniva anche assegnato il supporto telefonico di una volontaria che avesse sperimentato a sua volta il problema. Dopo 12 settimane dalla nascita del figlio, le mamme che chiacchieravano alla cornetta avevano un rischio di depressione del 50% inferiore rispetto alle donne del secondo gruppo. Non solo: più di 8 su 10 si dicevano soddisfatte del sostegno ricevuto e assicuravano che avrebbero raccomandato la stessa esperienza a un'amica.
Uno studio olandese pubblicato su Nature Neuroscience dimostra che la privazione del sonno profondo riduce l'attività dell'ippocampo, l'area cerebrale connessa alla formazione della memoria.L'attenzione è quindi spostata sulla qualità del sonno, assicurano gli autori guidati da Ysbrand Van Der Werf dell'Istituto olandese di neuroscienze di Amsterdam. I ricercatori hanno osservato un gruppo di persone mentre dormivano, monitorando le fasi del sonno attraverso elettroencefalogramma. In corrispondenza del cosiddetto sonno a onde lente, dall'esterno è stato attivato un sistema acustico che ha indotto i volontari addormentati a scivolare dal sonno profondo a un sonno più leggero. Ebbene, sottoposte a un esercizio di memoria in cui dovevano ricordare particolari scene, le persone disturbate nella fase di sonno a onde lente mostravano una memoria meno efficiente rispetto ad altre che avevano dormito indisturbate lo stesso numero di ore. In corrispondenza a ciò, analizzando tramite risonanza magnetica i livelli di attivazione delle varie aree cerebrali, chi aveva interrotto il sonno profondo aveva una ridotta attività dell'ippocampo.
Uno studio italiano ha individuato in un batterio l'origine di gran parte dei casi di diabete mellito di tipo 1.Secondo i ricercatori dell'ateneo di Sassari, il Mycobacterium avium paratuberculosis (MAP), a cui già si attribuisce la responsabilità dei casi di malattia di Crohn e di sindrome dell'intestino irritabile, spiegherebbe il 70% dei casi di diabete osservati in Sardegna e in Gran Bretagna e il 40% dei casi in Lombardia. "Sta emergendo che - spiega Leonardo Sechi, docente di Microbiologia dell'Università di Sassari - a seconda della predisposizione genetica dei pazienti, una persona incontrando il MAP sviluppa il diabete, un'altra l'intestino irritabile e un'altra ancora il Crohn. Nei diabetici in cui non sia presente il MAP i responsabili sono probabilmente altri patogeni intestinali". Questo particolare tipo di batterio, che vive all'interno delle cellule che infetta e ha una lunghissima incubazione, viene trasmesso ai bambini con il latte: lo si può trovare infatti nel latte in polvere per neonati, in quello materno (se la madre è infetta) e nei latticini provenienti da animali infetti, ed è persino in grado di resistere alla pastorizzazione.
Secondo "Health Search/Italia, come stai?", il progetto di rilevazione epidemiologica della Società Italiana di Medicina Generale, nel periodo di picco dell'influenza stagionale il consumo di farmaci, in particolare antibiotici, è cresciuto del 14%.I virus influenzali hanno colpito ben 400mila italiani e altrettante sono le persone colpite da malattie respiratorie acute, aumentano i ricoveri ospedalieri correlati a patologie influenzali e le visite domiciliari da parte dei medici di famiglia. Dagli ultimi dati risulta che il virus influenzale è sempre più diffuso e le malattie respiratorie simili all'influenza stanno avanzando. Nell'ultimo mese di rilevazione l'incidenza è aumentata in maniera costante, passando dai 2,1 casi ogni mille pazienti della prima metà di dicembre 2008 ai 7,7 casi della metà di gennaio 2009. Quasi un paziente su tre ha ricevuto un ciclo di antibiotico in seguito a una complicanza batterica conseguente a influenza o a una malattia respiratoria acuta.
È stato osservato che internet viene molto usato da categorie particolari di pazienti sia per reperire informazioni sia per comunicare con chi ha lo stesso problema di salute.Si formano così comunità virtuali che diventano uno strumento valido anche per programmi di supporto a soggetti per esempio con lombalgia, malattie cardiache o respiratorie e diabete. È stato monitorato l'uso di questi siti da pazienti colpiti da psoriasi, coinvolgendo 260 partecipanti in cinque gruppi online di questo genere. Le persone coinvolte avevano da 18 a 75 anni e nel 70% dei casi la psoriasi era da moderata a grave. Le azioni eseguite online più di frequente sono state l'invio di messaggi e la ricerca di informazioni, 65% e 63% rispettivamente. Metà dei partecipanti ha riferito la percezione di un miglioramento della qualità di vita, il 41% di un cambiamento in positivo della gravità della psoriasi e tre quarti ha indicato l'anonimato come un aspetto importante dell'interazione online. Il fatto stesso di relazionarsi con altri scrivendo dei propri problemi è dunque probabilmente d'aiuto contro il senso di depressione e solitudine che può accompagnarsi a questa patologia.
Da tempo gli esperti consigliano di consumare 5 porzioni al giorno di frutta, ortaggi e loro derivati. In particolare con l'avanzamento dell'età: "Per coloro che raggiungono la terza o la quarta età, è ancora più importante seguire un'alimentazione variata ed equilibrata - dice Gianni Tomassi, Professore di Scienze dell'Alimentazione e Direttore Scientifico della Fondazione per lo Studio dell'Alimentazione e della Nutrizione - che deve comprendere frutta e ortaggi di stagione, ricchi oltre che di fibra, minerali e vitamine, di sostanze ad attività protettiva antiossidante". Tra queste ultime rientra il licopene, un potente antiossidante, contenuto nei pomodori, che svolge la funzione di difesa naturale contro l'invecchiamento e se assunto regolarmente con l'alimentazione protegge le cellule contrastando l'attività ossidativa dei radicali liberi. La sostanza è presente in quantità 10 volte superiore nel concentrato di pomodoro e una recente indagine ha evidenziato una correlazione tra gli anziani in buona salute e il consumo quasi giornaliero di prodotti a base di pomodoro. L'80% degli intervistati dichiarava di sentirsi in buona salute e il 62% ne faceva un consumo abituale. Inoltre, è stato osservato che il 77,7% degli intervistati consuma concentrato di pomodoro con una frequenza compresa tra 1 e 3 volte la settimana e, di questi, l'85,6% si ritiene in stato di buona salute.
Secondo i ricercatori dell'Università di Heriot-Watt di Edimburgo (Scozia) basterebbero tre minuti di sport due volte a settimana per migliorare il metabolismoe contrastare il diabete. "Quel che abbiamo trovato - spiega James Timmons, coordinatore dello studio - è che anche svolgendo pochi, ma intensi esercizi, della durata di 30 secondi circa ciascuno per una serie di tre minuti, si migliora sensibilmente il metabolismo in sole due settimane". Le attuali linee guida, invece, suggeriscono tabelle di marcia da stakhanovista, ovvero attività fisica aerobica da moderata a intensa per molte ore alla settimana. La ricerca è stata condotta su un gruppo di 16 giovani uomini, piuttosto fuori forma, ma sostanzialmente sani, sottoposti a quattro sessioni di cyclette da 30 secondi ciascuna, diluite nell'arco della giornata, due volte alla settimana. Dopo 15 giorni è stato riscontrato un miglioramento del 23% nell'efficacia con cui il loro organismo impiegava l'insulina per assorbire il glucosio nel sangue. "Un risultato - assicura Timmons - non molto diverso da quello ottenibile allenandosi duramente per ore e ore ogni settimana".
I ricercatori dell'European Molecular Biology Laboratory e dell'Università Joseph Fournier (Francia) hanno scoperto il meccanismo chiave grazie al quale il virus dell'influenza stagionale penetra nelle celluleumane. Hanno studiato in particolare l'attività della polimerasi virale, enzima che catalizza la replicazione del DNA virale, sottraendo una piccola porzione, o cappuccio (cap) alle molecole di RNA dell'ospite, attaccandola alle proprie. I ricercatori del gruppo di Rob Ruigrok e Stephen Cusack hanno ora scoperto che la parte della subunità chiamata PA è responsabile del taglio del cappuccio dell'mRNA dell'ospite. Questi risultati aprono la strada a nuovi farmaci mirati: proprio il PA potrebbe diventare, infatti, un bersaglio promettente per nuovi antivirali. Agendo su questa parte della polimerasi, spiegano gli autori, si potrebbe bloccare l'infezione, perchè il virus non sarebbe più in grado di moltiplicarsi.
Negli ormoni delle donne in gravidanza è possibile individuare il profilo di rischio di depressione post-partoche colpisce il 10-15% delle puerpere, e spesso colpisce donne che hanno subito eventi stressanti o luttuosi nei nove mesi, o sperimentano una bassa autostima, ansia o stress in gravidanza. Secondo gli autori di una ricerca, condotta su 100 future mamme, i livelli di CRH, ormone di liberazione della corticotropina, misurati a 25 settimane di gravidanza possono predire fino a tre quarti dei casi. Dopo il parto i livelli di CRH crollano drammaticamente portando di conseguenza anche a un calo del cortisolo, l'ormone che aiuta l'organismo a fronteggiare lo stress. Nelle donne in cui in gravidanza i livelli del CRH sono più alti, il crollo del cortisolo sarà più pronunciato e difficile da gestire senza contraccolpi. Se la scoperta verrà confermata permetterebbe, con un semplice test di dosaggio ormonale, di fare uno screening della depressione post-parto.
La quantità di vitamina D che si produce, durante la gravidanza, grazie all'esposizione alla luce del sole migliora lo sviluppo del nascituro.Secondo gli autori di uno studio condotto presso l'Università di Bristol, in Gran Bretagna, partorire a fine estate o all'inizio dell'autunno garantisce una maggior esposizione della mamma al sole durante le ultime fasi della gravidanza e quindi un aumento dei livelli di vitamina D. Il riscontro è stato ottenuto valutando la corporatura fisica e la data di nascita su un campione di circa 7mila giovani: i soggetti venuti alla luce in quel periodo dell'anno erano di maggior statura e di maggior robustezza nella struttura ossea, rispetto a coloro che erano nati durante l'inverno o in primavera.
L'eccesso di sonno e la sua mancanza (insonnia) sono accomunati dallo stesso meccanismo d'azione tramite cui diventano fattori di rischio di malattie.In entrambi i casi aumentano i livelli ematici di citochine, sostanze pro-infiammatorie. Lo hanno verificato i ricercatori della Case Western Reserve University di Cleveland, in Ohio, monitorando 614 persone già reclutate nel Cleveland Family Study. Oltre alla compilazione di un questionario sulle proprie abitudini di sonno, i soggetti sono stati sottoposti al controllo del sonno mediante polisonnografia. È stato osservato che ogni ora in più di sonno dichiarata si traduceva in un aumento dell'8% nei livelli ematici di proteina C-reattiva e in un +7% nei livelli di interleuchina-6 (entrambe legate al rischio di problemi cardiaci e diabete). Inoltre, ogni ora di sonno in meno registrata tramite polisonnografia si associava a un aumento dell'8% nei livelli di tumor necrosis factor-alfa, un'altra citochina pro-infiammatoria. Secondo gli autori, i due metodi di misurazione della durata del sonno potrebbero essere influenzati in modo diverso dallo stress e dall'umore, che hanno un effetto diretto sui livelli di citochine.
Nei pazienti che presentano diabete di tipo 2 e altri fattori di rischio cardiovascolare, l'aumento dei livelli di emoglobina glicata (HbA1c) può comportare una caduta della funzionalità cognitiva.Non è ancora chiaro se la diminuzione della glicemia possa o meno migliorare la funzionalità cognitiva, ma non è la prima volta che il diabete viene messo in correlazione con il declino cognitivo e la demenza. Tuttavia finora non era chiara la misura in cui l'aumento della glicemia avesse un impatto sulla sfera cognitiva. I risultati ottenuti portano anche a sollevare un'ipotesi secondo cui strategie volte a diminuire i livelli di HbA1c o prevenire il loro aumento possano influenzare favorevolmente la funzionalità cognitiva.
Alcuni ricercatori statunitensi hanno analizzato parti del codice genetico dei diversi ceppi conosciuti di Rhinovirus, il responsabile di infezioni respiratorie soprattutto stagionali. Sono riusciti così a completare le sequenze genetiche dei virus, costituendo una sorta di albero genealogico che svela i legami e le differenze tra i diversi ceppi. La scoperta, pubblicata su Science, è firmata dai ricercatori dell'Università del Maryland a Baltimora e dell'ateneo del Wesconsin-Madison. Il quadro tracciato dalle èquipe contribuirà allo sviluppo di trattamenti davvero mirati ed efficaci contro il raffreddore. I Rhinovirus umani sono organizzati in 15 piccoli gruppi che provengono da lontani antenati. E anche questi virus, a differenza di quanto si riteneva, si combinano fra loro dando vita a nuovi ceppi. Questo processo avviene rapidamente durante l'inverno, quando differenti tipi di Rhinovirus aggrediscono la stessa persona causando infezioni, ma ricombinandosi anche in nuovi agenti infettivi.
Secondo due studi nazionali, in Italia l'ipercolesterolemia non è controllata in modo adeguato e ne soffre circa un italiano su quattrotra i 37 e i 74 anni. Eppure, molti non seguono alcuna terapia con farmaci. Lo sostengono gli esperti che, sulla base dei dati raccolti, segnalano che il 25% degli italiani con più di 37 anni ha livelli di colesterolo alti, con una maggiore prevalenza nelle donne. Tuttavia l'84% delle donne e l'81% degli uomini non si curano con appropriatezza e, rispettivamente, il 10% e il 14% non affrontano il problema come dovrebbero. Inoltre, estendendo l'analisi anche a chi presenta livelli al limite della norma, la quota di italiani a rischio di ipercolesterolemia sale al 36% tra le donne e al 33% tra gli uomini. "La malattia - sottolinea Carlo Maria Rotella, ordinario di endocrinologia all'Università di Firenze - può diventare ancora più pericolosa quando si allea con altri fattori di rischio o con patologie cardiovascolari". L'ipercolesterolemia, ad esempio, assume contorni drammatici quando non è controllata in pazienti che hanno avuto un infarto o che sono cardiopatici.
Un'indagine condotta da Gfk Eurisko ha verificato che i pazienti colpiti da diabete vengono curati meglio se vivono in coppia e se ad assisterli è un familiare, donna in 6 casi su 10. Insieme, infatti, riescono a gestire meglio la terapia con benefici dichiarati dal 90% dei pazienti. L'indagine ha coinvolto 900 malati di diabete e 100 caregiver che li assistono, rilevando che, quando ha accanto il proprio partner, il paziente sta meglio clinicamente e psicologicamente: è più soddisfatto di se stesso e della sua vita (il doppio rispetto a chi lotta da solo), è meno ansioso (68% degli accoppiati contro il 64% dei single) ed è più attivo (63% contro 56%). Il 76% dei malati fiancheggiati da un caregiver si ricorda sempre di assumere i farmaci; il 72% segue una dieta che nel 74% dei casi viene adottata anche da tutta la famiglia; il 55% pratica attività fisica e il 50% viene accompagnato dal suo assistente alle visite di controllo. In generale, combattere la malattia in due permette al paziente di trovare risposte ai suoi bisogni. Fra le necessità più urgenti degli intervistati c'è quella di avere un sostegno nell'elaborazione della diagnosi e di essere motivati in modo da poter guardare al futuro con ottimismo.
Una ricerca americana ha dimostrato che soldati che agiscono correttamente in situazioni di forte stress hanno nel sangue una quantità maggiore di un neurotrasmettitore che riduce la paura.La scoperta, presentata al congresso dell'American Association for the Advancement of Science, apre prospettive verso farmaci o terapie in grado di diminuire l'ansia nelle persone che ne soffrono in condizioni di forte pressione psicologica. "Ci sono alcune persone che semplicemente non si stressano - assicura Deane Aikins, della Yale University di New Haven, Connecticut - e questo perchè il loro ormone dello stress, il cortisolo, è presente in quantità minore". Ma studiando un gruppo di soldati impegnati in esercitazioni e prove di sopravvivenza, gli esperti si sono resi conto che, oltre ad avere meno cortisolo nel sangue, gli uomini più coraggiosi avevano anche quantità maggiori di un neuropeptide detto y, che impedisce loro di cadere nel panico. Aikins e i suoi colleghi stanno ora studiando come poter applicare questa scoperta alla gente comune, e questo potrebbe avvenire non solo sviluppando un farmaco ad hoc, ma anche elaborando speciali metodi di training autogeno, come la meditazione.
Sono state scoperte le varianti genetiche che influenzano la pressione sanguigna e aumentano il rischio di ipertensione, disturbo che può essere la causa di infarto, ictus e insufficienza renale. Nella ricerca, pubblicata su Nature Genetics, sono state isolate due varianti genetiche che influenzano la pressione sanguigna, localizzate nei geni che codificano una famiglia di proteine (peptidi natriuretici) prodotte dal cuore, quando è sotto stress, e dai vasi sanguigni. Le varianti sono state trovate dai ricercatori nel 90% delle persone analizzate e sono risultate associate a un aumento del 18% dell'incidenza di ipertensione. "Probabilmente verranno scoperti altri geni con un ruolo chiave sulla pressione sanguigna, ma le varianti genetiche individuate - spiega Christopher Newton-Cheh, autore dello studio - agiscono influenzando un meccanismo già studiato, che può essere modificato con farmaci già in fase di sviluppo. Un vantaggio non da poco".
Recenti ricerche hanno gettato nuova luce sul ruolo della vitamina D, solitamente collegata con la salute delle ossa, nel difendere da raffreddore e influenza.Lo sostiene un ampio studio effettuato negli Stati Uniti, e pubblicato sulla rivista Archives of Internal Medicine, che ha esplorato il legame fra vitamina D e infezioni delle vie respiratorie: fra i 19mila arruolati, i pazienti con i livelli più bassi risultavano avere il 40% di probabilità in più di aver subito recenti malanni di stagione. Il rischio, naturalmente, aumenta quando il paziente ha già una malattia respiratoria cronica come l'asma o l'enfisema polmonare ed è proprio per prevenire disturbi in questi malati che lo studio sarà utile. Anche se, precisano gli autori, trial clinici dovranno comunque confermare l'opportunità di raccomandare integratori di vitamina D contro i disturbi stagionali.