Le probabilità di successo della fecondazione assistita per le coppie sterili potrebbero aumentare grazie a una nuova tecnica che consente di individuare gli ovociti più sani da utilizzare. Una collaborazione tra un gruppo di ricerca dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste e il reparto di Clinica ostetrica e ginecologica dell’Irccs materno infantile Burlo Garofolo di Trieste ha messo a punto una sonda specifica che consente di fare analisi più dettagliate sull’ovocita, permettendo di studiare anche le proprietà meccaniche. I risultati sono stati pubblicati sia sulla rivista Acta BioMaterialia che sull’European Biophysics Journal.
“Uno dei momenti più importanti per determinare la fortuna di un processo di fecondazione è la selezione degli ovociti, oggi condotta in base a caratteristiche esclusivamente morfologiche: il medico sceglie la cellula da fecondare rispetto alla forma considerata indice del suo migliore stato di salute”, spiega Laura Andolfi, ricercatrice del Cnr-Iom. “Il criterio è però soggettivo e si basa fondamentalmente sull’esperienza dell’embriologo. L’obiettivo di queste ricerche - continua - è invece identificare un metodo più generalizzabile, non invasivo e capace di velocizzare il processo”. Il problema è che gli ovociti non possano essere trattati, al fine di preservarli, e non c’è quindi modo di capirne lo stato di salute. “Noi ci siamo chiesti se potessero essere usati come indicatori dello stato di salute degli ovociti le loro caratteristiche meccaniche, cioè la deformabilità, l’elasticità e la rigidità. La risposta è risultata affermativa”, dice la ricercatrice del Cnr-Iom.
Si chiama Inside, l’acronimo di Innovative Solution for Dosimetry in Hadrontherapy, ed è il primo sistema al mondo in grado di “fotografare” in tempo reale i fasci di ioni carbonio e protoni utilizzati nell’adroterapia oncologica in modo da rendere le terapie contro il cancro più precise. Verrà sperimentato su 40 pazienti dalla Fondazione Cnao di Pavia (Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica per il trattamento dei tumori), insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e al Dipartimento di fisica dell’Università di Pisa e alla Sapienza Università di Roma. I pazienti coinvolti sono sottoposti ad adroterapia per il trattamento di meningiomi e tumori del distretto testa-collo, tutti casi di cancro resistenti alla radioterapia tradizionale e non operabili.
Per colpire i tessuti tumorali l’adroterapia oncologica utilizza fasci di protoni o ioni carbonio che, rispetto ai raggi X impiegati nella radioterapia tradizionale, hanno la capacità di rilasciare la loro energia solo in prossimità della massa tumorale, riducendo al minimo l’impatto sui tessuti sani circostanti e i conseguenti effetti collaterali. Inside è uno strumento posizionato vicino al letto dove il paziente riceve il trattamento con adroterapia e si compone di due rilevatori (un sistema di imaging bi-modale, con uno scanner per la Tomografia a Emissione di Positroni-PET e un tracciatore di particelle cariche) in grado di misurare le particelle secondarie prodotte durante il trattamento facendo capire con un brevissimo scarto temporale dove si sta rilasciando l’energia e se il volume tumorale, in seguito al trattamento, si modifica.
Potremmo avere già gli strumenti per diagnosticare una delle patologie più complesse da individuare, ovvero l’autismo. Un semplice elettroencefalogramma (Eeg), infatti, può consentire di rilevare in fase precoce e in maniera pressoché automatica se un bambino è affetto o meno da disturbi dello spettro autistico. Attraverso l’utilizzo di sofisticati sistemi di intelligenza artificiale, si possono riuscire a sfruttare tutte le informazioni necessarie per arrivare a distinguere i bambini autistici dai bambini affetti da altre patologie neuropsichiatriche e dai bambini a sviluppo tipico. Almeno questo è quello che suggerisce uno studio italo-americano pubblicato sulla rivista scientifica Clinical EEG and Neuroscience. Firmato dalla Fondazione VSM di Villa Santa Maria Centro di Neuropsichiatria Infantile Onlus di Tavernerio, dal Centro Ricerche Semeion di Roma e dal Tarnow Center for Self-Management di Houston, in Texas, lo studio è stato realizzato utilizzando dati raccolti nell’arco di cinque anni.
L’autismo è una malattia complessa, caratterizzata da gravi disturbi della comunicazione, del comportamento e dell’interazione con gli altri. Nelle forme più gravi, le persone affette non parlano, tendono a isolarsi e presentano comportamenti stereotipati e disabilità intellettuali. Ci sono però anche forme più leggere in cui, nonostante i problemi nella comunicazione, le capacità intellettive e di linguaggio non sono compromesse. La nuova ricerca si è svolta con l’analisi dei dati grezzi della registrazione elettroencefalografica attraverso un sistema di reti neurali sviluppato dal Centro Ricerche Semeion. Il metodo si chiama I FAST. Per cominciare sono stati considerati gli Eeg di due diversi gruppi di bambini americani con età compresa tra i 4 e i 14 anni, ciascuno costituito da 20 soggetti, i primi affetti da disturbi dello spettro autistico e i secondi da altri disturbi neuropsichiatrici, simili per età e rapporto maschio/femmina. In questo caso il sistema è stato in grado di distinguere i bambini, separandoli in base alle diverse diagnosi, con un’accuratezza tra il 93% e il 97,5%, a seconda dei diversi algoritmi utilizzati.
Il peso può influire sulla nostra salute in tantissimi modi diversi. Può ad esempio cambiare i tempi e i modi in cui il cervello invecchia. Uno studio della University of Miami Miller School of Medicine ha scoperto che avere qualche chilo di troppo a 60 anni d'età accelera il declino cognitivo. In particolare, stando ai risultati pubblicati sulla rivista Neurology, il cervello invecchia più velocemente se si è in sovrappeso. “Le persone con una vita più grande e un indice di massa corporea più elevato avevano maggiori probabilità di presentare un assottigliamento nell'area della corteccia del cervello, il che implica che l'obesità è associata a una ridotta materia grigia del cervello”, spiega l’autore dello studio Tatjana Rundek.
Gli indicatori utilizzati dagli studiosi sono l’indice di massa corporea, che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato, e l’ampiezza del girovita. Lo studio è stato condotto su 1.289 volontari americani con un'età media di 64 anni. Di questi 346 (54% donne) avevano un indice di massa corporea inferiore a 25 e un girovita di circa 84 centimetri. Invece, 571 erano in sovrappeso (56% femmine), cioè avevano un indice di massa corporea compreso fra 25 e 40 e un girovita di circa 91 centimetri. E 372 erano obesi (73% donne), ovvero avevano un indice di massa corporea superiore a 30 e un girovita di 104 centimetri. Sei anni dopo l'inizio dello studio, i ricercatori hanno misurato con risonanza magnetica lo spessore della corteccia cerebrale dei partecipanti, cioè la “sostanza grigia” coinvolta in numerose funzioni cognitive quali il linguaggio, la motricità e la memoria.
Nella lunga e difficile lotta al cancro, un gruppo internazionale di ricercatori, guidati da scienziati italiani, ha individuato un nuovo possibile bersaglio. Si tratta della proteina MS4A4A che sembra giocare un ruolo importante nell'impedire la formazione di metastasi, cioè delle "colonie" del cancro che lo rendono letale. Lo studio, diretto e coordinato da Humanitas e Università Statale di Milano, è stato reso possibile grazie al sostegno della Fondazione Airc per la ricerca sul cancro. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Immunology.
MS4A4A , coperta in cellule del sistema immunitarie, chiamate macrofagi, si associa al recettore Dectina-1, controllandone la funzione. Ma la molecola individuata è anche essenziale per attivare un dialogo tra i macrofagi – cellule primitive del sistema immunitario che nei tumori hanno un significato prognostico – e le cellule Natural Killer, che sono in grado di uccidere le cellule tumorali. “Abbiamo scoperto il gene responsabile di MS4A4A 10 anni fa nei macrofagi associati al tumore, ma il ruolo della proteina da esso codificata si è chiarito da poco”, racconta Massimo Locati, docente di immunologia all’Università degli Studi di Milano e responsabile del Laboratorio di Biologia dei Leucociti di Humanitas, coordinatore dello studio e corresponding author dell’articolo insieme a Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e docente di Humanitas University.
L’anoressia è qualcosa di più di un problema psichiatrico. Questo devastante disturbo alimentare è infatti collegato anche a un problema metabolico. A rivelarcelo è il Dna di chi ne soffre, come mostra uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Genetics. I ricercatori, 200 in tutto che lavorano in 27 centri sparsi per il mondo, hanno eseguito l’analisi genomica del Dna di quasi 17.000 pazienti con anoressia nervosa, messi a confronto con più di 55mila soggetti sani. Insomma si è trattato del più ampio studio sull'anoressia nervosa noto fino ad oggi, a cui hanno partecipato per l’Italia le università di Firenze, Padova, Perugia, Pisa, Campania e Salerno.
“Lo studio, di eccezionale valore per la dimensione del campione analizzato - spiegano Sandro Sorbi, direttore della Scuola di specializzazione in Neurologia dell’Università di Firenze, e Benedetta Nacmias, docente di Neurologia dell’ateneo fiorentino – evidenzia che l’anoressia, malattia complessa e grave, ha radici sia psichiatriche che metaboliche. La scoperta di questi nuovi marcatori genetici ci aiuta a capire meglio la biologia di questa patologia”. Questo potrebbe suggerire il perché ad oggi il trattamento dell’anoressia non è molto efficace, anzi spesso fallisce. Il solo approccio psichiatrico al disturbo sarebbe dunque insufficiente.
Per la prima volta al mondo un vaccino per l'influenza creato interamente da un'intelligenza artificiale verrà testato sugli esseri umani. Ad annunciarlo è stata la Flander Univercity, in Australia, che ha sviluppato l’algoritmo che è stato capace di creare un farmaco per immunizzare le persone dall’influenza. Presto il vaccino verrà testato su 240 volontari negli Stati Uniti.
E’ già partita una nuova ondata di calore. I termometri hanno iniziato a schizzare in alto. Una bella notizia per chi questa settimana è in ferie al mare. Tuttavia, il caldo può rivelarsi un nemico piuttosto fastidioso e, a volte anche molto pericoloso. Per questo il ministero della Salute ha pubblicato nel nuovo Piano Nazionale di Prevenzione quali possono essere gli effetti del caldo sulla salute, invitando in questo modo alla prudenza.
Da anni gli esperti ci stanno mettendo in guardia sul pericoloso legame tra il consumo di bevande zuccherate e le malattie cardiovascolari. Ora un gruppo di ricercatori del Sorbonne Paris Cité Epidemiology and Statistics Research Center ha ipotizzato l’esistenza di un altrettanto rischioso collegamento, quello tra le bibite dolci e il cancro, confermando il sempre maggior numero di evidenze che indicano come limitare il consumo di bevande zuccherate diminuisca i casi di tumore. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul British Medical Journal.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno deciso di monitorare le associazioni tra il consumo di bevande zuccherate e con dolcificanti artificiali (dietetiche) e il rischio di cancro in generale. Gli studiosi hanno così esaminato i dati relativi a 101.257 adulti francesi sani (21 per cento uomini, 79 per cento donne) con un'età media di 42 anni al momento dell'inclusione nello Assobibe. I partecipanti hanno completato almeno due questionari dietetici online, progettati per misurare l’assunzione abituale di 3.300 diversi alimenti e bevande, e sono stati seguiti per un massimo di 9 anni, precisamente dal 2009 al 2018. Sono stati calcolati i consumi giornalieri di bevande zuccherate e bibite con dolcificanti artificiali, confrontati con le cartelle cliniche dei pazienti e i dati relativi alle assicurazioni sanitarie. Sono stati anche presi in considerazione diversi fattori di rischio ben noti per il cancro, come età, sesso, livello di istruzione, storia familiare, fumo e livelli di attività fisica.
La ricerca di nuovi farmaci in grado di contrastare i sempre più diffusi batteri resistenti agli antibiotici ha portato alla scoperta di due promettenti molecole. Un gruppo di ricercatori francesi ha creato due nuovi potenziali antibiotici che sembrano in grado di sconfiggere batteri killer, come lo Stafilococco aureus multi-resistente e il famigerato Pseudomonas aeruginosa. Ottenute a partire da una tossina batterica, non sembrano a loro volta in grado di indurre lo sviluppo di resistenze. Lo studio è stato condotto dall’équipe francese di Brice Felden dell'Inserm (Institut national de la santé et de la recherche médicale), in collaborazione con l’Université de Rennes 1 insieme a scienziati del Rennes Institute of Chemical Sciences (ISCR). I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Plos Biology.
Secondo il nuovo rapporto di un’agenzia congiunta Oms e Onu - UN Ad hoc Interagency Coordinating Group on Antimicrobial Resistance (Iacg) - ogni anno 700mila persone muoiono per infezioni resistenti agli antibiotici, numero destinato a crescere fino a 10 milioni l'anno nel 2050 se non verranno presi provvedimenti. Tanto che qualcuno ha parlato di una sorta di “Apocalisse antibiotica”. Ai 230mila morti dovuti soltanto alla tubercolosi resistente si aggiungono quelli per infezioni del tratto respiratorio, quelle sessuali e quelle legate alle procedure mediche invasive, oltre a quelle legate al cibo. Il lavoro dei ricercatori franceci parte da lontano. “Nel 2011 abbiamo scoperto che una tossina prodotta dallo Stafilococco aureus, il cui ruolo è facilitare al batterio patogeno l’infezione, è nello stesso tempo capace di uccidere altri batteri presenti nel nostro corpo”, spiega Felden. “Quindi abbiamo identificato una molecola con una duplice proprietà, da una parte tossica e dall’altra antibiotica”, aggiunge.
Ci sono persone “geneticamente fortunate” che grazie al loro Dna possono vivere in salute e più a lungo di molte altre. Possono arrivare a soffiare 100 candeline o anche di più. Per questo è da moltissimi anni che i ricercatori stanno studiando il Dna di questi “super-nonni” e la caccia all'ambito segreto ha iniziato a dare i suoi frutti. Uno studio dell’Irccs Neuromed di Pozzilli, dell’Irccs MultiMedica di Sesto San Giovanni e dell’Università degli Studi di Salerno ha prima individuato il “gene della longevità” e poi ne ha replicato i suoi effetti nei topi e nelle cellule umane. Il gene si chiama LAV-BPIFB4 (“longevity associated variant”) e dai risultati dello studio sembra prevalere nelle persone che superano i cento anni di vita. I ricercatori hanno scoperto che questo “gene della longevità” determina una maggiore produzione della proteina BPIFB4, che quando è presente in alti livelli nel sangue ha una
funzione protettiva dei vasi sanguigni. In pratica, agisce "ringiovanendo" i vasi sanguigni e, quindi, contribuendo a prevenire e combattere le malattie cardiovascolari.
Per dimostrarne il potenziale terapeutico della loro scoperta, gli studiosi italiani hanno replicato il gene LAV-BPIFB4 nel Dna di animali suscettibili all’aterosclerosi e, di conseguenza, più a rischio di sviluppare patologie cardiovascolari che alla fine sono responsabili dell’”accorciamento” della vita di una persona. Più precisamente, i ricercatori hanno inserito il gene nei topi di laboratorio attraverso un vettore virale, ovvero grazie a un virus modificato in modo tale da poter veicolare il suo genoma all'interno delle cellule bersaglio, senza dare malattia. I risultati, pubblicati sull’European Heart Journal, sono stati eccezionali. “Abbiamo osservato un miglioramento della funzionalità dell’endotelio (la superficie interna dei vasi sanguigni), una riduzione di placche aterosclerotiche nelle arterie e una diminuzione dello stato infiammatorio", riferisce Annibale Puca, coordinatore di un’équipe di ricerca presso l’Università di Salerno e presso l’IRCCS MultiMedica. In altre parole, l’inserimento del “gene dei centenari” nei modelli animali ha provocato un vero e proprio “ringiovanimento” del sistema cardiocircolatorio. Lo stesso effetto
Una doppia strategia per eliminare una volta per tutte il virus dell’Hiv. E’ l’impresa che sono riusciti a compiere un gruppo di ricercatori della Temple University a Philapelphia e dalla University of Nebraska Medical Center su modelli animali. I ricercatori hanno utilizzato sui topi sia gli antiretrovirali di ultima generazione che una tecnica di manipolazione genetica, la cosiddetta Crispr-Cas9, più comunemente conosciuta come editing genetico. Questa combinazione si è rivelata vincente: si è riusciti a eradicare il virus nei topi. I risultati di questo straordinario traguardo sono stati pubblicati sulla rivista Nature Medicine.
“Oltre 37 milioni di persone nel mondo sono infette dal virus HIV-1, l’agente causativo dell’AIDS”, riferisce Giovanni Maga, direttore del laboratorio di Virologia Molecolare presso l’Istituto di Genetica Molecolare del Cnr di Pavia. “Con oltre un milione di vittime ogni anno e altrettanti nuovi casi di infezione, la pandemia di AIDS non è, purtroppo, ancora sotto controllo. I farmaci - continua - molto efficaci oggi disponibili possono solo evitare la comparsa dell’AIDS, ma non guarire dall'infezione. Il problema principale è che il virus HIV-1 mescola i suoi geni con quelli della cellula infetta. Il risultato è che ogni cellula infetta porta dentro in modo permanente le istruzioni per fabbricare nuovi virus. Una parte di queste cellule rimane ‘silent’' all'interno del nostro corpo, costituendo un serbatoio da cui il virus può riemergere nell'ospite infetto per tutta la vita”.
E’ una male piuttosto comune, ma poco noto e senza cura. Si chiama demenza frontotemporale ed è una patologia neurodegenerativa, che è la seconda causa di demenza dopo la malattia di Alzheimer prima dei 65 anni d’età. Uno studio italiano potrebbe riaccendere la speranza di molti malati affetti da questa malattia. Ci sarebbe infatti una terapia che sembra in grado di rallentare la progressione della malattia, migliorando alcune funzioni cognitive e comportamentali dei pazienti.
“La demenza frontotemporale ha caratteristiche diverse dalla malattia di Alzheimer nonostante spesso vengono confuse con la conseguenza di diagnosi tardive e trattamenti non idonei”, spiega Giacomo Koch, neurologo e direttore del Laboratorio di Neuropsicofisiologia sperimentale della Fondazione Santa Lucia. “A differenza dell’Alzheimer la demenza frontotemporale - continua - colpisce in maniera selettiva alcune parti del cervello, prevalentemente lobo frontale e temporale, e dal punto di vista clinico i sintomi non interessano la memoria ma il comportamento: i malati cambiano personalità, diventano disinibiti, apatici o irritabili. In alcuni casi presentano deficit del linguaggio molto spiccati, forme di afasia progressiva con perdita della capacità di parlare e, in altri, anche un deficit intellettivo, la demenza semantica che comporta un’erosione di tutte le conoscenze acquisite nel corso della vita”.
Quel particolare sapore e odore pungente della rucola cela straordinarie proprietà anti-ipertensive. L’isotiocianato Erucina, un principio attivo prodotto da questa famosissima insalata, è in grado di abbassare la pressione arteriosa, contribuendo in questo modo a combattere l’ipertensione e le malattie cardiovascolari. La scoperta arriva dall’Università di Pisa, dove un team di farmacologi guidato da Vincenzo Calderone ha condotto uno studio in collaborazione con le università di Firenze e “Federico II” di Napoli e il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia (http://www.crea.gov.it/) di Bologna.
La ricerca, pubblicata sul British Journal of Pharmacology, ha infatti dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina, lo stesso principio attivo che rende la rucola un tipo di insalata dal sapore unico.
“Quando le foglie di rucola vengono tagliate o masticate – spiega Alma Martelli, ricercatrice dell’Università di Pisa e prima autrice della pubblicazione – i glucosinolati e l’enzima mirosinasi, entrano in contatto generando l’isotiocianato Erucina. Se quest’ultimo per la pianta è un meccanismo di difesa che serve per allontanare ad esempio gli animali, per l’uomo è invece un principio attivo di origine naturale in grado di rilassare la muscolatura dei vasi e di abbassare la pressione arteriosa attraverso il rilascio di un gastrasmettitore, il solfuro d’idrogeno”. I ricercatori hanno dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina sia in vitro, in particolare su cellule di aorta umana e su vasi isolati, che in vivo, cioè su animali spontaneamente ipertesi.
Se è vero che fra una cinquantina di anni la popolazione italiana sarà per la maggior parte sempre più anziana, è altrettanto vero che ci si dovrà aspettare un'allarmante incidenza dei casi di fibrillazione atriale e tutte le conseguenze a essa associata. Più precisamente, nel 2060, si stima ci saranno ben 1,9 milioni di italiani affetti da questa forma comune di aritmia cardiaca. Il calcolo, che offre interessanti spunti di riflessione per il futuro, è stato effettuato grazie al progetto “FAI: la Fibrillazione Atriale in Italia”, realizzato dall’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) e dall’Università di Firenze. L’iniziativa è stata finanziata dal ministero della Salute, in collaborazione con la Regione Toscana, e le stime sono state pubblicate sulla rivista Europace.
Sappiamo già da tempo che la fibrillazione atriale presenta una stretta correlazione con l'età avanzata. La sua importanza è legata al fatto di aumentare di ben cinque volte il rischio di ictus cerebrale, seconda causa di morte e prima causa di disabilità nel soggetto adulto-anziano. “Attualmente in Italia si verificano ogni anno circa 200.000 ictus, con un costo per il Servizio sanitario nazionale che supera i 4 miliardi di euro”, spiegano il coordinatore scientifico Antonio Di Carlo dell’In-Cnr e il responsabile scientifico Domenico Inzitari dell’Università di Firenze. “Oltre un quarto sono attribuibili a questa aritmia che può provocare - continuano - la formazione di coaguli all'interno del cuore, in grado di arrivare al cervello causando un ictus che viene quindi definito cardioembolico. Rispetto agli ictus dovuti a cause diverse, quelli di origine cardioembolica hanno un impatto più devastante in termini di disabilità residua e sopravvivenza”.
Mare, montagna, frutta “zuccherina” e relax. Le vacanze sono un sogno che si avvera, il periodo dell’anno che quasi tutti aspettano con gioia. Ma il caldo, il sole e il sudore possono rivelarsi infimi nemici per chi è incline all’orticaria. Secondo gli esperti della Società italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (Siaaic), nella stagione estiva i casi di orticaria tendono ad aumentare per il concentrarsi di fattori irritanti: balneari o dietetici, complice il maggior consumo di pesche, fragole, crostacei, coquillage e vino.
Nel nostro paese l’orticaria coinvolge circa 5 milioni di persone, mentre sono 600mila quelli che hanno un’orticaria cronica spontanea, che dura a lungo e che non ha una causa identificata. “L’estate è un momento critico per la pelle”, spiega Gianenrico Senna, presidente eletto Siaaic, Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona. “La sudorazione aumenta il prurito, i raggi solari e l’acqua salata di mare irritano la cute, la temperatura elevata – continua - incrementa la vasodilatazione periferica e peggiora i sintomi cutanei: così ogni anno milioni di italiani vanno incontro ad almeno un episodio di orticaria acuta in estate. Per ridurre i fastidi aiutano le docce fresche con acqua dolce subito dopo i bagni in mare”, come pure conviene “ripararsi con cappelli e magliette quando il sole è particolarmente intenso e fare attenzione alla dieta, evitando ciò che ci si accorge può scatenare il prurito”.
Fermare la progressione della Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) applicando mini-scosse al cervello direttamente a casa dei pazienti. Ci proveranno i ricercatori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma (www.unicampus.it) e dell’Istituto Auxologico Italiano IRCCS di Milano in una sperimentazione, sostenuta dalla Fondazione “Nicola Irti” per le opere di carità e di cultura. La Sla è una patologia neurodegenerativa a progressione rapida e una prognosi infausta che coinvolge il primo e il secondo neurone di moto. Ad oggi, non esistono terapie in grado di modificare in modo significativo il decorso di malattia anche se la comunità scientifica è attivamente impegnata nella ricerca pre-clinica e clinica. A partire dal 2004, una serie di studi preliminari condotti da Vincenzo Di Lazzaro, direttore dell'unità operativa complessa di Neurologia del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, hanno suggerito che è possibile rallentare significativamente la progressione della Sla utilizzando tecniche di stimolazione magnetica cerebrale non invasiva.
Potrà sembrare un’opzione un po’ troppo “vampiresca”, ma il sangue giovane potrebbe davvero aiutare a vivere meglio e più a lungo. E’ infatti nel sangue di chi è ancora nel fiore dei suoi anni che si trova in abbondanti quantità una proteina, che aiuta a rimanere in salute. Si chiama eNampt e se trasferita in un organismo anziano sembra in grado di rallentarne l’invecchiamento. O almeno è stato così in un esperimento sui topi, condotto dalla Washington University e pubblicato sulla rivista Cell Metabolism.
Nello studio i ricercatori hanno osservato che con gli anni la quantità di eNampt diminuisce sia nei topi che negli esseri umani, di pari passo con l’aumento dei problemi di salute. In particolare, sembra avere un ruolo chiave nel processo con cui le cellule producono energia. Sappiamo da tempo che con l’avanzare dell’età le cellule diventano sempre meno efficienti nel fabbricare il proprio “carburante”, chiamato Nad, che è necessario a mantenere l’organismo in salute. I ricercatori, guidati dallo scienziato Shin-ichiro Imai, hanno visto che, se la proteina eNampt viene somministrata nei topi anziani, gli animali vivono vivere più a lungo di circa il 16% restando in buona salute. “Il nostro risultato suggerisce che questa proteina determina quanto viviamo e quanto rimaniamo in salute quando invecchiamo”, osserva Imai.
Trascorriamo così tanto tempo davanti allo smartphone che diventa lecito chiedersi se siamo noi a controllare i nostri smartphone o sono gli smartphone a controllare le nostre vite. Notifiche, messaggi, eventi, aggiornamenti e notizie, giorno e notte, catturano la nostra attenzione, distraendoci dallo studio o dal lavoro e occupando il nostro tempo libero. Tanto che sono ormai diversi gli studi scientifici che hanno lanciato l’allarme sulla dipendenza da cellulare e le sue conseguenze. C’è però chi sta reagendo a questi cambiamenti imposti dalla tecnologia, trovando diverse strategie per limitare l’uso dei dispositivi elettronici nella vita quotidiana.
Uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Bologna, pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior, traccia un quadro ben preciso di alcune di queste “pratiche di resistenza” che stanno iniziando a diffondersi. In particolare, i ricercatori hanno individuato le motivazioni principali che spingono le persone a limitare l’uso degli smartphone nelle loro vite quotidiane. “Al lavoro o durante il nostro tempo libero spesso decidiamo di interrompere quello che stiamo facendo per controllare una notifica o le ultime notizie sui nostri smartphone”, dice Marcello Russo dell’Università di Bologna che ha coordinato lo studio. “Allo stesso modo, però, possiamo decidere di uscire da questo stato di connessione costante, riducendo il tempo che dedichiamo ai nostri cellulari e concentrandoci di più su quello che stiamo facendo. Nel nostro studio - aggiunge - abbiamo raccolto diversi esempi di persone che hanno trovato il modo di farlo”.
La crema solare non è l'unica cosa da mettere in valigia per le vacanze estive. Oltre alla pelle, anche gli occhi hanno bisogno di essere protetti dal sole. Questo vale soprattutto per gli anziani, coloro che notoriamente sono più a rischio di sviluppare la degenerazione maculare legata all'età, un disturbo che colpisce un terzo della popolazione dopo i 70 anni, in prevalenza donne. La comunità scientifica, infatti, ha ampiamente dimostrato che l’esposizione prolungata ai raggi UV, associata all’età, rappresenta una vera minaccia per la salute della macula. Inoltre, pazienti con un occhio già colpito da maculopatia senile hanno un rischio aumentato di svilupparla nell’altro. Per vivere quindi una vacanza sicura e serena gli esperti raccomandano occhiali da sole e cibi sani. Ma anche integratori antiossidanti di ultima generazione.
“E’ fondamentale avere un alimentazione ed uno stile di vita equilibrati ma anche proteggere gli occhi dalla luce intensa con berretti con visiera e lenti da sole”, suggerisce Alfredo Pece, primario della Divisione di oculistica dell’Fondazione Retina 3000 a Vizzolo Predabissi, in provincia di Milano, e presidente della Fondazione Retina 3000. Quando la patologia è in fase iniziale, si cerca di evitare che peggiori con integratori alimentari contenenti sostanze ad azione anti-ossidante e anti-infiammatoria che agiscono proteggendo la retina e rallentando i fenomeni ossidativi, ovvero distruttivi, della macula. “E’ stato dimostrato che alcune sostanze con funzione anti-ossidante possono rallentare la progressione della degenerazione maculare legata all'età fino al 25%. Per questo è importante una corretta alimentazione e l’attenzione verso sostanze con funzione anti-ossidante e protettive del tessuto oculare”, prosegue Pece. Queste sostanze possono avere un ruolo anche nella retinopatia diabetica, che rappresenta la complicanza micro vascolare più comune del diabete ed è la prima causa di cecità.