La chiamano “quarta rivoluzione industriale”. Dopo la macchina a vapore, l’energia elettrica e le telecomunicazioni, siamo piombati nel pieno della “connettività digitale pervasiva”, che ci rende il mondo assiduamente rintracciabile, e ciascuno di noi rintracciabile a esso, e lo fa con strumenti che vanno dal portatile al tablet fino al piccolo smartphone, che portiamo in tasca con un senso di urgenza che forse supera perfino quella del portafoglio. E come ogni “rivoluzione”, ha i suoi contraccolpi e rischi, sociali, psicologici e sanitari, che richiedono attenzione e possibilmente antidoti.
In questo caso il rischio è anzitutto nella natura fisica dei nuovi strumenti. Si tratta di schermi, e come tali inducono gli occhi degli esseri umani a stress senza precedenti nella storia. Lo si è ricordato lo scorso 11 ottobre nella Giornata Mondiale della Vista, su iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità.
L’allarme arriva soprattutto per i giovanissimi, per giunta esposti ai sempre più sofisticati videogiochi. Tra uno schermo e l’altro “la prevalenza della miopia all’età di 9 anni è già del 12%”, avverte l’Oms, sale al 18% a 15 anni e raggiunge il 24% in età adulta, con una prevalenza femminile. La conseguenza complessiva è che entro il 2050 metà della popolazione mondiale potrebbe essere miope. Seguono le raccomandazioni, sui limiti quotidiani da porre all’uso dei dispositivi, sulla distanza minima dagli stessi (almeno 30 centimetri) e sull’esigenza di spingere i bambini a trascorrere più tempo all’aria aperta, ritenuto in sé un fattore di prevenzione e salute visiva.
A questo si aggiunge un fattore collaterale di rischio, tutt’altro che esiguo. L’uso diffuso dei dispositivi amplifica di fatto l’esposizione a incidenti. Solo i “selfie”, secondo una recente indagine indiana, sarebbero causa di almeno 259 morti nel mondo negli ultimi anni. E si tratta palesemente di una sottostima, che non tiene conto, oltre che delle più recenti cronache, anche dei tantissimi incidenti su cui la responsabilità dell’autoscatto non è semplicemente accertata.
Un'attenzione “preventiva” può essere dunque vitale in tempi di rischi così aumentati. Sulla vista peraltro non mancano i progressi scientifici. Nei giorni scorsi sono stati presentati a Roma i buoni esiti di nuove “retine artificiali”, che potrebbero aiutare anche i pazienti affetti da malattie assai diffuse, come la Degenerazione Maculare Senile, che colpisce oltre un milione di italiani. Si tratta di un microchip di terza generazione, che “funziona senza necessità di un cavo che lo colleghi a una fonte di energia esterna all’occhio – spiega l'oftamologo Andrea Cusumano, presidente dell'Onlus Macula & Genoma Foundation - e può essere impiantata sotto la retina con una procedura chirurgica minimamente invasiva di circa 90 minuti”.
“Il tumore della cervice è una delle forme più prevenibili e trattabili del cancro”, ricordava lo scorso maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità, lanciando un appello globale all’azione, data l’ampiezza del problema (una donna muore di tale malattia ogni due minuti) e al contempo la disponibilità appunto degli strumenti per combatterlo. La dimostrazione concreta arriva ora dall’Australia che, come riferisce la rivista Lancet, si avvia a diventare il primo Paese pressoché “libero” da questo tumore.
Il traguardo sarà tecnicamente raggiunto, si stima, nel 2028. Nel dettaglio, entro il 2022 ci saranno meno di 6 casi ogni 100mila abitanti (riducendosi al novero dei “tumori rari”), 6 anni più tardi si scenderà a 4, e le morti saranno ridotte a meno di una su 100mila entro il 2035 a condizione che – e qui sta la spiegazione del successo – “saranno mantenute l’alta copertura vaccinale e l’adesione agli screening”. Nel Paese oceanico, un programma di screening su questi tumori è infatti attivo dal 1991, e la vaccinazione da papillomavirus (Hpv) ha raggiunto il 79% tra le ragazze e il 73% tra i ragazzi.
L’Italia purtroppo è ben lontana da tali cifre. Secondo l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro si registrano ogni anno circa 2300 casi di tumore della cervice, e a una donna su 10mila viene diagnosticata in forma avanzata. Con l’esito che circa 430 italiane muoiono annualmente per questa patologia, che risulta la seconda forma tumorale tra le donne, dopo il cancro alla mammella.
Come ricorda un documento della Fondazione Gimbe, richiamato anche dalla Fondazione Veronesi, non sono peraltro coinvolte solo le donne. Il virus Hpv causa malattie genitali, anali e orofaringee in ambedue i sessi, e in particolare il 90% dei carcinomi della cervice uterina e dell’ano, oltre a larga parte di patologie minori, come le verruche anogenitali.
E perché l’Italia presenta cifre così lontane dall’Australia? La ragione starebbe proprio nella copertura della vaccinazione anti-Hpv, che invece di aumentare risulta in picchiata. Era a circa il 70% tra i nati tra il 1997 e il 2000, mentre quattro anni più tardi è precipitata al 53%, mentre la speranza governativa era di arrivare al 95% entro il 2019. Il vaccino non rientra tra quelli obbligatori ma è comunque offerto gratuitamente a maschi e femmine di 11-12 anni. Un evidente fallimento, dunque. Che rappresenta, nelle parole del presidente del Gimbe Nino Cartabellotta, “un emblematico esempio dei gap tra ricerca scientifica e sanità pubblica, nonostante il consolidamento progressivo delle prove di efficacia e del profilo di sicurezza dei vaccini anti-Hpv”.
Dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia. Sono tanti e variegati i cosiddetti “disturbi specifici dell’apprendimento”, su cui permane un velo di omertà e di ignoranza, come se definissero un qualche “handicap di intelligenza”, che non è affatto. Al contrario, coinvolgono spesso bambini (e non solo) di spiccate capacità intellettive. Si tratta di un’inabilità specifica di rappresentare le parole, i suoni o anche i segni grafici, la cui origine è in parte misteriosa, attribuita comunque, perlopiù, a un’origine genetica complessa (non c’è un “gene della dislessia").
Le capacità intellettive non c’entrano dunque, ma i disturbi possono avere conseguenze psicologiche serie. Vanno dunque trattati per bene, sapendo che i percorsi terapeutici sono solitamente efficaci, mentre gli errori pedagogici risultano deleteri. Il dato di partenza è proprio questo: i ragazzi che ne soffrono lamentano anche bassi livelli di autostima, per la costante paura di essere “etichettati” in modo degradante, il che, in un circolo vizioso, alimenta rischi di depressione e altri disagi psico-fisici.
Il dato di base, spiega il psicologo Andrea Novelli, membro del direttivo dell’Associazione Italiana Dislessia, è che “quando si fallisce in un’attività intrapresa, si sperimenta la sensazione di impotenza che porta alla volontà, limitata nel tempo, di non intraprendere alcuna altra azione”. E il fallimento tipico è quello scolastico, il che chiama alla responsabilità – e alla preparazione – gli insegnanti, oltre che i genitori. “Tendono a concludere che il bambino è svogliato, cioè danno una spiegazione personalizzante, che lede in maniera gravissima l’autostima del bambino, poiché sviluppano la sensazione di impotenza”, spiega Novelli.
Nella tenaglia tra lo “sgridare il ragazzo” e quella di puntare invece sul “rafforzamento dell’autostima” non c’è quindi alcun dubbio. La persona va aiutata a potenziare le proprie potenzialità “tecniche” e allo stesso tempo sostenuta con forza per limitare le sensazioni di “fallimento” legate al proprio disturbo. A questi concetti è stata dedicata anche la recente “Settimana Nazionale della Dislessia”, con l’obiettivo di sensibilizzare e informare, anzitutto il mondo degli adulti, sulla natura e la gestione di un problema che coinvolge almeno il 3% della popolazione.
Ricordando loro anche qualche nome tra i “deficitari” che soffrono di tale problema: il celebre cantautore libanese-britannico Mika, che fatica a leggere uno spartito ma sa cantare e suonare tutto; l’amata attrice Jennifer Aniston; il leggendario Steven Spielberg. Anche loro hanno sofferto in passato di autostima, mentre in realtà sviluppavano talenti straordinari.
C’è un colesterolo “cattivo”, responsabile di alti rischi cardiovascolari e metabolici, ma anche uno “buono”, l’Hdl (High-Density Lipoprotein”), che avrebbe viceversa effetti protettivi soprattutto verso le malattie aterosclerotiche, prevenendo la formazione di grassi ostruttivi. Una ricerca italiana, presentata nei giorni scorsi al Congresso a Berlino dell’European Association for the Study of Diabetes (Easd) ora allarga e consolida lo spettro dei suoi benefici, documentando qualità di contrasto al diabete.
La ricerca è stata condotta dall’Università Magna Grecia di Catanzaro su un campione di 130 persone non diabetiche, rilevando una chiara correlazione inversa tra i livelli di Hdl (in particolare grazie alla sua porzione proteica “ApoA1”) e di glucagone, un ormone peptidico secreto dal pancreas. Si tratta di uno sviluppo di studi precedenti, in vitro e su roditori, che già avevano suggerito un’influenza sulla funzione della cellula pancreatica.
“Altri studi avevano dimostrato che l'Hdl svolge un ruolo positivo nel controllo metabolico stimolando la secrezione insulinica e la funzione delle cellule beta pancreatiche”, spiega il coordinatore dello studio Giorgio Sesti, presidente della Fondazione Diabete Ricerca. In questo caso “per la prima è stato dimostrato un ruolo del colesterolo buono nel ridurre la secrezione di questo ormone che ha effetti opposti all'insulina in quanto induce iperglicemia”.
Non è una scoperta da poco, perché può spalancare la strada a nuove possibilità di cura. “Questo studio apre nuove prospettive terapeutiche sia nel diabete tipo 1 sia di tipo 2, in quanto un aumento dei livelli di glucagone è riscontrabile in entrambe le forme della malattia e contribuisce all'innalzamento della glicemia”, spiega Sesti.
La novità ha anche un risvolto in sede di prevenzione, anzitutto alimentare. I cibi “amici” dell’Hdl includono il pesce, l’olio d’oliva, il kiwi, frutta e verdura. I “nemici” sono soprattutto nel cibo di origine animale, nei formaggi grassi, negli acidi grassi saturi e quelli idrogenati (vegetali modificati industrialmente), nonché nell’insieme del “cibo spazzatura” tipico dei fast food. Una curiosità: le sigarette sembrano avere un effetto negativo sull’Hdl, mentre la cannabis ne sarebbe in questo caso alleata.
A prima vista potrebbe sembrare un “bluesman” più che uno scienziato, e in effetti lo è e lo rivendica, suonando assiduamente, ancora a 70 anni, la sua armonica per diverse band texane. Che la ricerca sia “un’arte” prima che una “scienza esatta” lo pensano del resto in molti, a fianco di James Allison, trionfatore alla 108esima edizione del premio Nobel per la Medicina . In premio che in effetti riconosce, anzitutto, un’intuizione, coltivata da Allison da oltre trent’anni: la ricerca di una cura contro il cancro (che ha tra l’altro stroncato diversi suoi familiari, inclusa la madre) all’interno delle nostre stesse difese immunitarie.
Il suo nome è celebrato e riconosciuto da anni, al pari dell’altro vincitore, il giapponese Tasuku Honjo, anch’egli pioniere della ricerca immunoterapica. Allison ha ricevuto tre anni fa un premio anche in Italia, il Pezcoller, a Trento, dove ora si esulta due volte: “E' un onore e la conferma del prestigio del Premio Pezcoller nella comunità scientifica internazionale”, commenta il presidente dell’omonima Fondazione Enzo Galligioni.
Lo scienziato americano ha studiato la proteina che funziona da freno al sistema immunitario, favorendo la proliferazione della malattia, individuando poi soluzioni terapeutiche per “sbloccare” il freno stesso. Si tratta della CTLA-4, che arresta l’attivazione dei linfociti T. “Si è visto che le cellule T scatenano la loro risposta contro i tumori, contrastandoli ed agendo come 'killer naturali' contro il cancro”, si tratta cioè di “un’arma potente, potenzialmente definitiva”, ha detto in una recente intervista all’Ansa.
Ė la strada del futuro, quindi, ma già con un’entusiasmante storia passata. “Dieci anni fa abbiamo trattato con l'immunoterapia una ragazza affetta da melanoma, con già metastasi a fegato, polmoni e cervello. Oggi sta bene, è guarita e ha due figli”, racconta Allison, aggiungendo “speranze concrete anche per altri tipi di tumore, dal polmone al rene”, nonché di “oltre 80 sperimentazioni cliniche in atto per varie forme cancerogene”.
Lo studioso americano dirige l’area immunoterapica dell’Anderson Cancer Center dell'Università del Texas a Houston, ritenuto il principale punto di riferimento nella ricerca globale e nella cura del cancro, con i suoi oltre 20mila addetti. Rimane per ora il nodo degli alti costi odierni di questa terapia. “A breve è prevedibile un abbattimento sostanzioso dei prezzi dei farmaci, poiché molte nuove molecole sono in arrivo e ciò porterà ad una maggiore concorrenza tra le aziende, con un taglio dei costi”.
I complimenti internazionali a volte suonano come etichette astratte, ma sulla Dieta Mediterranea non si scherza. C’è il riconoscimento ufficiale dell’Unesco come “Patrimonio dell’Umanità” per quel che comporta la sua produzione e il suo consumo, in termini ecologici, culturali e sociali, convivialità inclusa, ma anche per il suo acclarato beneficio sanitario. Quella dieta ha un “simbolo” - l’olio extravergine di oliva - le cui virtù, comparate con gli insalubri grassi saturi, sono unanimemente ammesse dagli studiosi, specie in ambito cardiovascolare.
Dall’ospedale St.Michel’s di Toronto, in Canada, arriva adesso una specifica in più, tramite una pubblicazione sulla rivista Nature. “L’elisir” scovato dagli studiosi si chiama ApoA-IV, una proteina presente nel sangue che avrebbe la capacità di “regolare” le piastrine. Queste hanno la capacità di evitare emorragie ma, se si aggregano impropriamente, possono bloccare la circolazione, elevando i rischi di trombi, infarti o ictus. La molecola, stimolata dall’olio, riuscirebbe a combinare ambedue le funzioni, la formazione delle piastrine e al contempo l’inibizione al loro insidioso accorpamento.
“Ė il primo studio che mette in relazione l’ApoA-IV con le piastrine e la trombosi, e abbiamo dimostrato come gli alti livelli di questa proteina possano ridurre la formazione di placche, quindi l’aterosclerosi”, rivendicano i ricercatori canadesi, rilevando a margine un fattore ulteriore che risulta propizio alla funzionalità della molecola: il riposo. Un buon sonno e una buona alimentazione a base di olio extravergine sarebbero dunque la “medicina” primaria della prevenzione cardiovascolare.
Si tratta dunque dell’ennesimo tassello in favore del nostro beneamato olio. Gli altri sono così riassunti dalla Fondazione Veronesi. “Regola i livelli di colesterolo nel sangue”, e specificamente quello “cattivo”, responsabile dei pericolosi restringimenti di vene e arterie. “Ė una miniera di antiossidanti”, tra vitamine e altre molecole con effetti ossigenanti e anti-invecchiamento cellulare. Ha inoltre benefici effetti digestivi, riducendo le secrezioni di acidi gastrici (quindi il pericolo di ulcere) e le conseguenze intossicanti sul fegato.
L’olio extravergine d’oliva è tra l’altro l’unico che si ottiene da una semplice estrazione meccanica (pressione, centrifugazione o altro), e per giunta secondo alcuni stretti parametri, tutelati in sede europea, che includono la spremitura a freddo e un’acidità entro la quota dello 0,8%. Alle decantate virtù si accompagna una sola cautela, ricordato dalla stessa Fondazione: “L'olio comunque non è un farmaco, un eccessivo consumo non fa abbassare il colesterolo ma, al contrario, lo innalza”.
Tra una fatica e l’altra tendiamo spesso a “tirare la corda” e a perdere di vista che la nostra salute dipende anche dal nostro benessere interiore e da quel che si chiama “qualità della vita”. E poi, nel nostro “individualismo”, tendiamo anche a caricare noi stessi e gli accadimenti che ci coinvolgono di ogni responsabilità, con conseguenze anche depressive. Dimenticando che ci sono forze e contesti più grandi di noi, verso i quali non siamo onnipotenti.
Per questo è importante alzare gli occhi e vedere quel che dicono le indagini collettive in proposito. Uno strumento interessante è il Gallup Global Emotions Report, che indaga annualmente oltre 150mila persone in 145 Paesi intorno alla semplice, fondamentale domanda: “Come stai?”. All’esito dell’ultima indagine, pubblicata nei giorni scorsi, è emerso che il 2017 è stato “l’anno più deprimente da oltre un decennio”.
Conflitti, difficoltà economiche, disgregazioni sociali, crisi di ideali, invecchiamento medio. Le ragioni aggregate possono esser tante, ma la tendenza è accertata quanto preoccupante. L’indagine prende in esame diversi parametri quali i livelli di preoccupazione, stress, tristezza e dolore fisico. Tutti hanno palesato un aumento (arrivando mediamente intorno al 40%), incrementando il cosiddetto “negative emotion index”. Con una sola eccezione: la “rabbia”, accertata nel 20% del campione, ma senza incrementi. Come se il disagio interiore aumentasse, arrivando a fiaccare perfino la forza di reazione allo stesso.
La filosofia, come le neuroscienze, si è interrogata sin dagli albori su qual siano gli “ingredienti della felicità”, arrivando talora perfino (come gli utilitaristi britannici di fine ‘700) a elaborare classifiche con variabili “oggettive” per quantificarla. Le risposte sono naturalmente molto più “plastiche” di qualsiasi sintesi, ma vale qualche criterio di fondo. “La felicità è “un’attitudine personale profonda e autentica, per cui non basta raccontarsi che ‘va tutto bene’”, sintetizza Nicola De Pisapia, neuroscienziato a Trento. “Sviluppare attenzione verso quello che dentro di noi possiamo controllare, in modo da poter gestire meglio quello che fuori di noi non possiamo impedire. E vanno vissute profondamente le nostre relazioni, coltivando la capacità di comprensione degli altri. Occorre aprirsi ai continui cambiamenti delle cose e delle persone intorno a noi, superando i piccoli egoismi individuali”, ricorda lo studioso.
Dobbiamo insomma aver cura di noi stessi e della nostra “qualità di vita”, sapendo che non tutto è in nostro controllo, ma qualche margine c’è. Consapevoli che i rischi depressivi sono alimentati da fattori esterni, che prendono di mira alcune categorie più di altre. E questo riguarda anche il genere. Lo ricorda lo stesso ministero della Salute: “Le donne hanno maggior probabilità di soffrire di disturbi depressivi rispetto agli uomini, una prevalenza lifetime, che inizia a prendere consistenza attorno ai 13-15 anni, con un gap che aumenta gradualmente e, attorno ai 18 anni, si assesta su valori simili a quelli degli adulti e torna gradualmente a ridursi dopo i 55 anni”.
“C’è chi ha troppo e chi troppo poco”, si dice, e vale anche per la salute. Di certo i dati che la coinvolgono, almeno quelli aggregati su larga scala, possono raccontare parecchio su “come stiamo” e dove stiamo andando. E quelli contenuti nell’ultimo European Health Report, discussi a Roma nella recente Sessione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), fotografano un’Italia che sembra “reggere” discretamente su alcune variabili, ma al contempo presenta ombre preoccupanti, e in particolare una: i giovani.
A conferma di quanto gli indicatori sanitari procedano in parallelo con le variabili socio-economiche emerge che, nell’insieme dei 53 Paesi europei, negli ultimi cinque anni di pur faticoso recupero da una recessione gravissima, l’età media si è alzata di un anno, grazie a una riduzione del 2% (superiore agli obiettivi stabiliti in sede continentale) delle morti premature causate da malattie cardiovascolari, cancro, diabete mellito e malattie respiratorie croniche.
Al contempo, sono aumentate le diseguaglianze, anche nell’accesso alla salute. I miglioramenti citati riflettono dati complessivi, ma ve ne sono altri che documentano un peggioramento tra i ceti deboli, in particolare nell’Est Europa e in alcune regioni meridionali. E tra i Paesi che presentano le più gravi discrepanze figura proprio il nostro, che mantiene un’aspettativa di vita ai massimi europei ma al contempo presenta criticità e sperequazioni territoriali e sociali sulla qualità dell’assistenza.
Siamo ad esempio tra i Paesi più colpiti dalle malattie infettive (inclusa la recrudescenza del morbillo) e quelli che sulle coperture vaccinali falliscono l’obiettivo globale del 95% della popolazione. L’annoso problema delle differenze tra Regioni è già stato qui più volte documentato, ma a saltare agli occhi è ora un’“ingiustizia” in più che riguarda appunto delle nuove generazioni.
Lo ha ammesso pubblicamente la stessa Giulia Grillo: “La nostra attenzione deve spostarsi sulle popolazioni più giovani, in cui si registrano segnali d'allarme non più trascurabili”, ha detto la ministra della Salute. I segnali che denotano un’area specifica di disagio e chiamano a un salto netto d’attenzione sono diversi, coinvolgendo anche gli “stili di vita”. Tra i più preoccupanti: gli italiani restano sotto la media europea per l’incidenza dell’obesità e del sovrappeso, ma tra i maschi 15enni la prevalenza sale al 26%. Sulle sigarette, i fumatori adulti sono scesi al di sotto della media europea (anche se emerge un’inversione di tendenza tra le donne), ma tra gli adolescenti siamo saliti ai massimi continentali.
Pochi carboidrati, tante proteine e anche grassi. Sono i capisaldi (detti in estrema sintesi, al netto dei mille testi in materia) della “dieta chetogenica”, una delle alchimie che vanno più di moda negli ultimi anni, a iniziare dagli Stati Uniti, nel duplice obiettivo della perdita di peso e di un recupero energetico. Ma funziona davvero? Soprattutto, fa veramente bene alla salute? L’Università di Harvard, con una pubblicazione in uscita in questi giorni, solleva parecchi dubbi in proposito.
A suscitare allarme tra gli studiosi, e in particolare nella dietologa Kathy McManus, direttrice del Dipartimento di Nutrizione della citata Università, è l’ampia incidenza di grassi (fino al 90% dell’apporto calorico), rispetto anche ad altre diete iperproteiche. Dal punto di vista terapeutico, spiega infatti l’esperta “la dieta chetogenica è utilizzata principalmente per ridurre la frequenza delle crisi epilettiche nei bambini, e anche se è stata provata per la perdita di peso, sono stati studiati solo i risultati a breve termine e in materia c’è ancora molta confusione”.
Questo per quel che riguarda i presunti benefici terapeutici. Sui rischi, invece, ci sono perlopiù certezze. Il fegato, anzitutto, per l’ampia incidenza di lipidi; ma anche i reni, messi sotto pressione metabolica dall’eccesso proteico. Stitichezza, per la relativa carenza di fibre (abbondanti in cereali e legumi). E anche il cervello. “Ha bisogno dello zucchero di sani carboidrati per funzionare, sicché le diete ‘low-carb possono generare confusione e irritabilità”, annota la McManus.
Naturalmente ci sono grassi “buoni” e altri “cattivi”, così come vi sono diverse proteine, alcune ricche dei primi, le altre dei secondi (quali le carni rosse e di maiale). Ma uno dei problemi della dieta chetogenica sta proprio nell’assenza di una “gerarchia” tra gli uni e gli altri, e anzi nell’esplicita ammissione dei grassi insaturi (inclusi olio di parma, burro, lardo), a compensazione di un taglio dei carboidrati che si riduce all’apporto calorico di una banana al giorno e null’altro (pasta, riso, pane e simili).
La riduzione dei carboidrati può avere delle buone motivazioni mediche, entro certi limiti, ma il messaggio lanciato da Harvard è che gli eccessi nell’alimentazione non vanno bene, men che meno nel lungo periodo. Non esiste una “ricetta unica” che funzioni per tutti, né sembrano utili soluzioni drastiche. Una biologa italiana, Tiziana Stallone, ha elaborato in proposito con una pubblicazione la teoria della “dieta-persona”. Serve un equilibrio che tenga conto dei gusti, necessità e anche debolezze di ciascuno. Sapendo che, dopotutto, come riconosciuto dalle massime autorità sanitarie mondiali, la ricetta della salute ce l’abbiamo già e proprio qui. Si chiama Dieta Mediterranea.
“I tagli lineari hanno indebolito fortemente il Servizio Sanitario Nazionale, la spesa media sanitaria pro-capite in Italia è di 2.261 euro, a fronte dei 3.509 della Francia e dei 4.200 euro della Germania”. I dati sono stati rilanciati dai sindacati confederali riuniti in Assemblea nazionale per il quarantennale del Ssn a Salerno, notando inoltre come la Sanità italiana, nello scorso decennio di crisi, abbia già pagato un conto salato, mentre altrove in Europa è invece cresciuta. Sono stati giorni densi di tavoli importanti per il settore in Italia, inclusa la 68esima sessione del Comitato regionale per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che ha tra l’altro puntellato l’obiettivo della “copertura universale”.
Obiettivo fatto proprio dal premier Giuseppe Conte, che ha sottolineato gli indicatori positivi sull’Italia (“secondi in Europa per aspettativa di vita”), annunciato la volontà di rilancio del Ssn e ammesso alcune delle principali criticità attuali, più volte segnalate sui nostri spazi, citando in particolare le gravi sperequazioni nell’accesso alle cure, sul piano socio-economico e anche tra Regioni.
Dalle parole si arriverà presto alla verifica dei fatti, anche con la prossima legge di Bilancio. Il nodo delle risorse non si limita peraltro al loro ammontare complessivo, ma anche alla qualità della spesa. Come ha documentato, tra gli altri, la Fondazione Gimbe, il nodo dei farmaci è cruciale, in quanto l’Italia risulta ancora, da recenti comparazioni europee, a un modesto 26esimo posto nel ricorso agli equivalenti, ed è un ritardo che costituisce di per sé un fattore di spreco per i conti pubblici e privati, a danno delle possibilità di cura.
Di questo si è parlato anche in occasione dell’Assemblea pubblica di Assogenerici, tenutasi a Roma, che ha peraltro presentato dati di un incoraggiante recupero, spinto anche dalla scadenza del brevetto di diversi farmaci. Nel primo semestre del 2018 il settore registra un incremento tendenziale del 12,1% in valore e del 5,7% in volume, elevando la propria quota nel mercato farmaceutico rispettivamente al 13,14% e al 21,95%. La differenza tra “valori” e “volumi” fornisce già un’indicazione sul potenziale risparmio: a parità di efficacia terapeutica rispetto ai medicinali “branded” il ricorso agli equivalenti permetterebbe di allargare le cure. Specularmente, il differenziale pagato di tasca propria dai cittadini che hanno scelto ancora la “marca” rispetto al “generico” ammonta - solo nel primo semestre - a 561 milioni. E paradossalmente l’incidenza del differenziale versato è superiore proprio nelle Regioni meridionali, che avrebbero maggiori necessità di trovare nuove risorse per la Salute. Con ricadute perfino, come notato da una ricerca internazionale, sulle loro capacità di copertura vaccinale.
Per superare il problema la stessa Assogenerici ha avanzato un nutrito pacchetto di proposte in tema di “governance”. In attesa di risposte dai decisori istituzionali, ci si muove sul terreno concreto della lotta al diffondersi di patologie legate alla povertà o al mancato accesso alle cure, anche con il progetto pilota, avviati a Roma, di “Farmacie di strada”, in collaborazione, tra gli altri, con la Fondazione Banco Farmaceutico. “Abbracciare chi rischia di restare ai margini del diritto alla salute sancito dalla Costituzione e spesso suo malgrado tradito dal Servizio Sanitario Nazionale”, la sfida lanciata dal presidente dell’associazione Enrique Häusermann.
Gli “stili di vita”, tra la qualità dell’alimentazione e l’attività fisica, contano tantissimo, e i loro difetti sono i primi responsabili del fenomeno dell’aumento della propensione al sovrappeso, anche in Italia e soprattutto tra i bambini. Nondimeno, si dice, “il frutto non cade lontano dall’albero”, o almeno non sempre. Il proverbio ha un fondamento, i fattori di predisposizione genetica sono riconosciuti dalla scienza. E adesso trovano un dettaglio in più. I colpevoli non sarebbero genericamente “i genitori” ma solo uno, e cioè il papà.
Lo si legge sulla rivista Nature Communications e io dato emerge da una ricerca intergenerazionale condotta, su roditori, da centri universitari della Danimarca, della Germania e dell'Austria. Il presupposto, detto in parole comprensibili, è che ci sono varie forme di “grassi”, alcuni nocivi, altri no. I primi sono quelli “bianchi”, presenti nel tessuto adiposo perlopiù nello stomaco e su cosce e glutei, e ritenuti fattori di rischio cardiovascolare, di diabete e di altri disturbi metabolici.
La scoperta degli studiosi risiede nel fatto che sono perlopiù i geni del papà a condurre allo sviluppo di tale tessuto. Specularmente, è emerso che i geni materni facilitano invece la formazione del cosiddetto “tessuto adiposo bruno”, che avrebbe anzi effetti protettivi contro l’obesità e anche l’insulino-resistenza. Il segreto del “dono della mamma”, sarebbe nella funzione di un particolare gene, l’H19.
Il gene rappresenta solamente l’uno per cento del nostro codice genetico, ma le sue capacità protettive si produrrebbero essenzialmente nell’ambito del tessuto bruno, trasmesso appunto perlopiù dalla madre. La conclusione può innescare rivendicazioni e sfottò nella “guerra tra i sessi”, ma la sua portata scientifica è anzitutto un’altra.
L’H19 potrebbe rappresentare un nuovo fronte per la prevenzione e la cura dei problemi e patologie associate al sovrappeso. “Ci auguriamo che i nostri risultati possano essere il primo passo verso lo sviluppo di trattamenti nuovi e migliorati per le malattie legate all'obesità”, commentano i ricercatori.
Che la fisioterapia sia strumento terapeutico essenziale è un concetto chiaro da sempre tra i medici, sin da Ippocrate. E non si tratta solo di attività di riabilitazione da qualche disturbo o trauma muscolo-scheletrico. L’amplissimo ventaglio delle problematiche trattabili include “tendinopatie o infiammazioni tendinee, lesioni muscolari, neuropatie, capsuliti, ulcere, infiammazioni delle radici nervose, distorsioni, calcificazioni, dolore da sovraccarico fino alle patologie della colonna”, elenca la professoressa Angela Amodio, responsabile per la Puglia dell’Associazione Italiana dei Fisioterapisti (Aifi).
Nei giorni scorsi la categoria ha celebrato (in particolare con un evento a Tirrenia, nel pisano) la Giornata Mondiale della Fisioterapia - istituita nel 1996 dalla World Confederation for Physical Therapy - ricordando che sono più di due milioni gli italiani che si affidano ogni anno alle decine di migliaia di professionisti delle varie metodiche fisioterapiche. Numeri importanti, che naturalmente chiamano alla responsabilità l’intero settore.
Su questo sono in atto novità e sfide importanti nel nostro Paese. Ė infatti in corso la costruzione di un apposito Albo, in base al Decreto Ministeriale dello scorso 13 marzo, all’interno degli “Ordini dei Tecnici Sanitari di Radiologia Medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche, della Riabilitazione e della Prevenzione”. A inizio luglio sono scattate le richieste di iscrizione, tramite un formulario on-line, e in breve tempo le “preiscrizioni” hanno già raggiunto la notevole quota di 65mila, di cui ben 27mila specificamente fisioterapisti.
Se queste saliranno a 50mila potrà istituirsi un vero e proprio Ordine. Attenzione, perché la norma è perentoria: l’iscrizione – naturalmente condizionata a seri paletti di formazione – è obbligatoria per poter esercitare, e va fatta subito, senza attendere il 2019. La dimensione “ordinistica” serve alla categoria per le sue esigenze di rappresentanza, le istanze formative e previdenziali, ma anche a proteggere i pazienti da fenomeni insidiosi di “abusivismo” professionale.
A proposito di responsabilità, è stato divulgato anche un “decalogo” per i pazienti, che inizia proprio con l’imperativo di affidarsi a un professionista titolato e aggiornato (magari anche rispetto alle nuove tecniche, non solo “manualistiche”, quali la fototerapia e laserterapia). Poi si tratta di evitare di tergiversare troppo, attendendo che il dolore diventi insopportabile, prima di recarsi dal fisioterapista: la “tempestività”, come in ogni branca della medicina, è variabile essenziale per l’efficacia delle cure. Importante, inoltre, “non avere fretta” nell’ottenimento dei risultati: il buon terapeuta non è un “mago” né “uno che scrocchia”, al contrario è colui che permette al paziente un percorso di riabilitazione endogeno e duraturo. E poi, come per i farmaci, è essenziale “l’aderenza terapeutica”: se ci sono dei “compiti a casa”, vanno svolti con attenzione, senza pigrizie o dimenticanze. Possibilmente seguendo anche i consigli ricevuti sull’alimentazione e gli “stili di vita”.
Le classifiche sui sistemi sanitari sono tante, e prese singolarmente non sempre forniscono un quadro corretto della realtà. Che “non siamo la migliore Sanità al mondo”, lo abbiamo capito purtroppo già da un po’ anche in base ai risultati di un'inchiesta fondata perlopiù sulle opinioni dei pazienti. Ma per comprendere, nel confronto con gli altri Paesi, i punti di forza e criticità di un sistema è utile incrociare i parametri delle diverse indagini internazionali. È quello che ha fatto l’osservatorio della Fondazione Gimbe, con esiti piuttosto interessanti.
L’analisi ritenuta più “completa” è quella dell’OCSE, anche perché include diverse variabili sullo stato di salute effettivo della popolazione. Siamo piuttosto in alto in Europa (quarti) nella speranza di vita, ma in basso per quel che riguarda la mortalità cerebrovascolare, tumori, basso peso alla nascita. Sugli “stili di vita” rimaniamo in buona posizione per il consumo di frutta e per la bassa incidenza di sovrappeso tra gli adulti, ma emerge al contempo una tendenza al peggioramento, grazie anche all’ampiezza del fenomeno dei fumatori giovanissimi e della sedentarietà.
Sono quindi dati che vanno letti nel loro insieme. “Non è più tempo di illudersi utilizzando in maniera opportunistica le prestigiose posizioni del nostro SSN riferite a classifiche obsolete (2° posto OMS), oppure che mettono in relazione l’aspettativa di vita con la spesa sanitaria pro-capite (3° posto Bloomberg)”, spiega Nino Cartabellotta, presidente del Gimbe.
Per quanto riguarda la durata media di vita, ad esempio, risultiamo in un ottimo secondo posto nella percentuale della popolazione sopra i 65 anni e sopra gli 80, ma crolliamo alla ventesima postazione per l’“aspettativa di vita in buona salute”.
Insomma, qui si vive parecchio - e questo dice qualcosa - ma spesso si vive male, e questo dice qualcos'altro, sui difetti nell’assistenza. E in tema spuntano dati eloquenti anche sul fronte dei farmaci. Siamo ad esempio alti in classifica per numero di farmacisti occupati, ma assai in basso (26esimi) per il ricorso ai farmaci equivalenti. Che è significativamente maggiore nei Paesi e nelle Regioni italiane dove l’assistenza sanitaria è migliore nel suo insieme: la ragione principale è semplice, a parità di efficacia terapeutica costano meno, liberando risorse per potenziare la platea e la qualità delle cure.
Tra le maggiori criticità evidenziate dal Gimbe, svettano quelle sul personale.
Siamo nelle ultime posizioni, ad esempio, per percentuale di medici sotto i 55 anni e per numero di laureati in scienze infermieristiche. “Mancano 50mila infermieri”, l'allarme lanciato nei giorni scorsi dalla Fnopi, l'organizzazione di categoria, che sulla base di studi internazionali ricorda: “Se ogni infermiere assistesse al massimo 6 pazienti sarebbero evitabili almeno 3.500 morti l'anno”. Attualmente, invece, il rapporto è 1 a 11.
Sembra una sciocchezza ma un boccone mal gestito provoca almeno un morto a settimana in Italia, soprattutto (ma non solamente) tra i bambini con meno di tre anni. Serve allora un salto di consapevolezza tanto dei rischi quanto dei rimedi, perché si tratta sovente di tragedie evitabili. “Ė importante che i genitori siano informati su come comportarsi in casi del genere”, esorta Mario Balzanelli, presidente della Società Italiana dei Sistemi 118, ricordando anche la disponibilità (gratuita) del suo Servizio a fornire chiarimenti alle famiglie. E pubblicando ora un apposito “vademecum”.
I suggerimenti riguardano soprattutto la necessità immediata di digitare quel numero. “Deve essere chiamato per primo e non per ultimo”, si spiega, per l’urgenza di un soccorso immediato, ma anche in quanto “gli infermieri operatori della Centrale Operativa organizzano e guidano la risposta emotiva disperata dei genitori e dettano in tempo reale le manovre salvavita da effettuare prima dell'arrivo del mezzo di soccorso”.
Si tratta poi di evitare gli errori tipici del “fai da te”, come infilare le dita in gola cercando di rimuovere il corpo estraneo, il che spesso peggiora l’ostruzione anziché risolverla, spingendola in profondità. O ancora, spostare il corpo per portarlo in ospedale, cosa perlopiù deleteria oltre che vana, specie in presenza di un eventuale arresto cardiaco, su cui la risposta dev’essere invece un immediato massaggio localizzato.
Gli altri consigli riguardano perlopiù la prevenzione, a iniziare dall’attenzione a evitare cibi troppo grossi, specie pezzi di carne o cilindrici e lisci (dagli acini d’uva ai wurstel), per non parlare di gomme da masticare o caramelle appiccicose. E naturalmente bisogna prestare attenzione anche agli altri oggetti, specie quelli piccoli (bottoni, biglie, monete), inclusi i giocattoli, che siano a norma e non si rompano facilmente. Perfino l’europarlamento si è occupato del tema discutendo ad esempio della dimensione minima delle “sorprese” contenute nelle uova di cioccolato, perché il fattore di rischio è reale.
Per quanto riguarda le tecniche d’emergenza da utilizzare, vale sempre (la consiglia anche la Federazione Italiana Medici Pediatri) la “manovra di Heimlich”. Si tratta, col bambino a testa in giù, di sistemare un pugno sopra l’ombelico, circondarlo l’altra mano e quindi spingere contemporaneamente verso l’interno e verso l’alto, per facilitare l’espulsione del corpo estraneo. Ripetendo la procedura fino all’arrivo dei soccorsi e comunque fino all’ottenimento dell’effetto desiderato.
Sui cattivi “stili di vita” gli allarmi “patologici” a volte suonano ambivalenti nella percezione dei destinatari. “Corro qualche rischio, me ne assumo la responsabilità, se mi ammalo la pagherò, ma intanto me la godo”, pensano in molti, quasi con orgoglio. Così facendo naturalmente si sbaglia, per se stessi e i propri cari. E si sbaglia anche per una variabile in più, poco gradita a chi dice di “godersela”: “trattarsi male” ha anche l’esito di farci invecchiare, prima e peggio, anzitutto sul piano cognitivo.
A ricordarlo e a documentarlo robustamente è ora una ricerca effettuata da alcune accademie californiane, pubblicata sul Journal of Alzheimer’s Disease. Sono stati coinvolti oltre 30mila individui, dai nove mesi di vita fino a ultracentenari, sottoposti a due scansioni cerebrali (“Spect”, tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli), una durante uno stato di riposo, l’altra durante uno sforzo di concentrazione.
Il presupposto metodologico è nell’importanza dell’afflusso di sangue al cervello. Esso rappresenta solo il 2% della massa corporea, ma riceve circa un quinto del sangue pompato dal cuore, per il tramite di oltre 370mila vasi sanguigni. E così, gli studiosi americani hanno analizzato la circolazione sanguigna in ben 128 regioni cerebrali, confrontando i parametri dell’“età stimata” del cervello e quella “cronologica”, valutandone gli eventuali nessi con i comportamenti personali e altre variabili.
Ė quindi emerso che il consumo costante di alcol induce a un invecchiamento precoce di 0,6 anni, col deficit di attenzione si sale a 1,4, col disturbo bipolare a 1,6, con l’uso prolungato di cannabis si arriva a 2,8, e con la schizofrenia a 4. Gli studiosi sottolineano soprattutto il dato relativo all’uso di marijuana, peraltro ancora terreno di dispute più o meno ideologiche e al contempo ingrediente-chiave soprattutto nell’ambito della terapia del dolore. Il problema qui segnalato è comunque quello dell’abuso. “Non è una sostanza innocua, i nostri risultati invitano a un ripensamento del suo effetto sul cervello”, spiegano gli autori dello studio.
Si tratta di temi che convergono con un’iniziativa tutta italiana.
Dal 17 al 22 settembre ricorre la Settimana di Prevenzione dell’Invecchiamento Mentale, organizzata dall’associazione no profit Assomensana. Tra test, colloqui ed eventi informativi l’iniziativa coinvolgerà 350 specialisti e 200 città. La variabile sottolineata sarà però un'altra, ossia l’importanza dell’attività fisica, per il cervello e naturalmente non solo. “La mancanza di movimento è uno dei fattori più importanti nell’insorgenza di molte patologie moderne, dal diabete alle cardiopatie”, ricorda il presidente di Assomensana, Giuseppe Alfredo Iannoccari, in aggiunta all'accertata accelerazione del declino cerebrale.
Dopo decenni di promozioni e trasmissioni televisive che annunciano miracoli, lo scetticismo è motivato. Di più, è condiviso dagli scienziati: un trattamento risolutivo sostanzialmente ancora non c’è. Qualcosa però si muove, e succede proprio in Italia, con novità piuttosto promettenti annunciate in una pubblicazione sulla rivista americana Dermatologic Surgery dai ricercatori dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata (Idi) di Roma.
Si tratta di una terapia biologica e cellulare per la perdita dei capelli, che consiste in un prelievo dal paziente di un campione di plasma - ricco di piastrine, globuli bianchi e fibrina - che viene poi trattato con un “emoconcentratore” (progettato da un’azienda italiana), e quindi reiniettato nella zona del capo interessata dalla perdita di capelli. L’idea è semplice, e non presenta effetti collaterali (sovente pesanti, nelle terapie conosciute finora), se non in qualche possibile sensazione di gonfiore e bruciore che si risolve spontaneamente entro due o tre giorni.
Per sperimentarla è stato coinvolto un esteso campione di 168 persone, che soffrivano di alopecia androgenetica. Tra loro, 102 uomini di età media di 28 anni, che saliva a 36 anni per le 66 donne. Il campione è stato seguito per tre anni, e confrontato con un “gruppo di controllo”, non sottoposto alla terapia, che ha in effetti palesato un aggravamento della perdita di capelli.
Per gli altri, sottoposti alla nuova terapia, emerge invece un grande successo, pressoché senza precedenti, con la ricrescita riscontrata nell’80% dei pazienti trattati, inclusi quelli con forme avanzate di calvizie. Ed è un risultato che fa presagire un allargamento della platea di persone coinvolte. “Un possibile campo di applicazione di questa tecnica riguarda anche pazienti che hanno perso i capelli a causa della chemioterapia”, spiega il coordinatore dello studio Giovanni Schiavone. La procedura ha un costo di circa 1500 euro: parecchio ma non troppo - si nota all’Idi - considerando anche il paragone con le alte spese sostenute da molti in lozioni perlopiù inefficaci.
La metodica rientra nell’ambito della cosiddetta “medicina rigenerativa”, già impiegata contro patologie quali l’artrosi al ginocchio. Nei mesi scorsi, ad esempio, l’Università di Manchester ha sperimentato un principio attivo già utilizzato nel trattamento dell’osteoporosi. Per ora si è trattato solo di test effettuati in laboratorio e gli stessi ricercatori inglesi avvertono che serviranno tempo e cautela prima di arrivare all’esperienza clinica. chiedono tempo e cautela. In Italia invece la procedura anti calvizie è già in uso e, all’evidenza, per molti ha funzionato.
I riscontri scientifici e gli appelli sono ricorrenti, eppure non ci siamo ancora. Anziché restituire ai bambini quello che non solo è un “diritto inalienabile”, ma anche uno strumento essenziale di crescita psicofisica, ossia il gioco, lo stiamo annientando. Pesano diverse variabili, dai cambi di “stile di vita” dei genitori (ambedue presi dal lavoro o quantomeno impegnati a cercarlo) all’irruzione delle tecnologie digitali. “Fattori di rischio” che meriterebbero adeguate contromisure, pubbliche e private, che invece latitano.
Un avvertimento in proposito arriva da una pubblicazione dell’Accademia Americana di Pediatria, dal titolo eloquente: “Volete bambini più creativi, curiosi, sani, con abilità da 21esimo secolo? Fateli giocare”. Il gioco, dunque, addirittura “da prescrivere”, al pari di un prezioso farmaco, secondo gli esperti americani.
In cima alle loro preoccupazioni c’è naturalmente il nodo della sedentarietà, che rappresenta un allarme globale, dibattuto da anni anche in Italia, per la sua catena di conseguenze, a iniziare dal dilagare dell’obesità. Qui però si affronta un aspetto correlato in più. L’attività ludica è talmente a repentaglio che i bambini stessi sembrano spesso dimenticarsela. Per il 20%, “giocare” significa stare su uno smartphone, per il 12% la risposta è il videogame.
Il sondaggio è stato condotto sui bambini americani, che trascorrono 4,3 ore al giorno davanti a uno schermo, media del resto poco superiore a quella italiana. Cosa si perdono? In una parola, il cervello. Giocare nella socialità è una palestra essenziale dello sviluppo cognitivo ed emotivo, oltre che fisico. Si nutre la creatività a tutti i livelli, la capacità di confronto interpersonale, la gestione dello stress e delle sconfitte, la facoltà di trasformare il più insignificante degli oggetti in uno strumento di immaginazione e di attività ludica.
Tra i dati richiamati dai pediatri statunitensi, emerge che meno della metà dei bambini esce ogni giorno a giocare o anche solo a passeggiare, anche perché il 94% dei genitori esprime preoccupazione per la loro sicurezza, sicché nell’arco di 16 anni il tempo speso dai bambini nel gioco all’aperto è crollato del 25%. Il messaggio è comunque esplicitamente rivolto anche alle scuole. Perfino negli Stati Uniti, che vantano un’alta cultura sportiva e ricreativa nelle strutture d’istruzione, emerge un costante calo nelle durate degli intervalli e dei tempi dedicati all’educazione fisica. Pessima idea, con accertate ricadute negative anche sui risultati scolastici.
Aggredire i tumori facendo leva sul sistema immunitario del paziente, opportunamente “risvegliato”. Ė la logica della nuova terapia cellulare - su cui hanno lavorato anche scienziati italiani - che ha ricevuto il via libera dell’Agenzia Europea per i Medicinali, a un anno dal placet dalle autorità statunitensi. E che suscita parecchie speranze nel mondo della ricerca
La nuova metodica si chiama “Car-T”, rispondendo all’acronimo di Chimeric Antigen Receptor, ossia una proteina ibrida sintetica (quindi creata in laboratorio), mentre la “T” si riferisce al linfocita chiave delle nostre difese immunitarie. La tecnica, piuttosto complessa, consiste nell’isolare i globuli bianchi del paziente. Da questi vengono quindi selezionati i linfociti, inserendo il frammento di Dna che reca le informazioni necessarie a calibrare la proteina. Le cellule T così rielaborate costituiscono così il “farmaco vivente”, che quindi viene moltiplicato e reinfuso nel corpo del paziente.
Si tratta di una terapia una tantum che, al riscontro delle verifiche europee, ha dato esiti incoraggianti: una risposta è stata riscontrata nel 72% dei pazienti, in oltre la metà dei casi la risposta è stata “completa”, e a un anno dall’infusione oltre il 60% dei malati gravi era ancora in vita. Un “medicinale personalizzato” per definizione, dunque, anzi una vera e propria “nuova strategia terapeutica” – spiega Andrea Biondi, direttore di Clinica Pediatrica all’Università di Milano Bicocca - “per la prima volta abbiamo evidenza che il sistema immunitario, geneticamente manipolato, può rappresentare un'arma contro il tumore”. Al risultato ha contribuito non poco l’Italia, anche nell’ambito dei trial registrativi, che hanno coinvolto strutture in Lombardia e Lazio.
Il bersaglio “certificato” è il linfoma diffuso a grandi cellule B, un tumore molto aggressivo che colpisce adulti e anziani, e la leucemia linfoblastica acuta, il tumore pediatrico più frequente. Patologie su cui già agisce positivamente la chemioterapia, ma non sempre, in quanto c’è una parte dei pazienti (circa un quinto) che non risponde affatto. La rete oncologica Alleanza Contro il Cancro plaude e guarda oltre: “Ė probabile che a breve vengano sviluppate terapie Car-T anche in altri tipi di tumore”, sottolinea il presidente Ruggero De Maria.
Non mancano però le difficoltà, dall’allestimento di centri attrezzati per la terapia alla natura delle stesse. “Sono trattamenti gravati da importanti tossicità – ricorda ancora Biondi - quando un paziente inizia questa terapia, nella prima settimana può avere bisogno di essere trasferito in una rianimazione, per gli effetti della reazione immunologica nell’organismo”. E poi c’è il problema dei costi, per le casse pubbliche e private, su cui l’Agenzia Italiana del Farmaco dovrà negoziare con i produttori. Negli Stati Uniti – che peraltro hanno un sistema poco comparabile – si arriva a quasi mezzo milione di dollari.
Le criticità del nostro Servizio Sanitario Nazionale, a fianco delle perduranti virtù, sono amaramente note all’esperienza di molti. E quando si fanno approfondimenti comparati con altri Paesi escono perlopiù conferme. Ė ad esempio il caso dell’ultimo rapporto dell’organizzazione Health Consumer Powerhouse, che valuta e “classifica” la qualità dell’assistenza in Europa sulla base soprattutto della percezione dei pazienti. Ci colloca in un modesto 20esimo posto tra 35, in una gerarchia che vede primeggiare i Paesi Bassi, seguiti dalla Svizzera.
La valutazione viene effettuata comparando i dati statistici ufficiali e i livelli di soddisfazione dei cittadini intorno a ben 46 indicatori, suddivisi in sei aree (diritti dei pazienti e informazione, accesso alle cure, risultati trattamenti, gamma servizi, prevenzione e l'uso di prodotti farmaceutici). L’esito, nel suo insieme, è tutt’altro che “catastrofista”: “L'assistenza sanitaria europea sta migliorando costantemente: la mortalità infantile e il tasso di sopravvivenza alle malattie cardiache, ictus e cancro stanno dando buoni risultati. Inoltre l’empowerment del paziente si sta sviluppando”.
E anche sul nostro Paese, se si guarda ai numeri, si rileva un pur lieve recupero rispetto all’anno precedente, quand’eravamo 22esimi. Allargando il raggio, però, la tendenza al peggioramento c’è, in quanto alle prime rilevazioni, effettuate dodici anni fa, eravamo intorno al 15esimo posto, mentre alle ultime siamo costantemente dalla posizione 20 in giù. Ed è soprattutto la motivazione principale di tale discesa a destare crescente preoccupazione e a configurare una vera e propria “anomalia italiana”.
La grande nota dolente è quella delle gravissime sperequazioni territoriali, in parte dovute a ragioni economiche, in parte all’assetto organizzativo. “L’Italia ha la più grande differenza riferita al Pil pro capite tra le Regioni di qualsiasi Paese europeo, il Pil della regione più povera è solo 1/3 di quello della Lombardia (la più ricca)”, si legge. E poi: “Anche se in teoria l'intero sistema sanitario opera sotto un ministero centrale della salute, il punteggio dell’Italia è un mix tra il verde (livello alto) da Roma in su e il rosso (livello più basso) per le regioni meridionali e per questo su molti indicatori i punteggi sono gialli”.
Anche a livello europeo, dunque, il problema delle discrepanze nell’assistenza in Italia salta agli occhi. E conferma quanto più volte denunciato nel nostro Paese, incluso un recente studio, qui già segnalato, della rete associativa di Cittadinanzattiva, che ha lanciato un’apposita campagna in proposito. Ė un problema di equità, ma anche di costi collettivi. Un altro approfondimento, compiuto dalla Fondazione Gimbe, esamina l’esteso fenomeno della “mobilità interregionale” nella Salute, ossia gli spostamenti (perlopiù da Sud a Nord) effettuati per curarsi. Ebbene, si tratta di un costo annuo da 4,6 miliardi di euro. Con l’aggravante, nota la fondazione, che è un “fiume di denaro ancora poco trasparente”.
La scienza è piuttosto chiara. Non si tratta di aspettare la mezza età per affrontare la tendenza al declino cognitivo e i relativi rischi patologici: ogni fase della vita lascia tracce nel tempo, nel bene e nel male. Attenzione però, il medesimo concetto vale anche all’interno della singola giornata. “Alzarsi male” carichi di preoccupazione, non solo ci fa “star male” nell’arco dell’intera giornata, ma soprattutto tenderà a vanificare la nostra capacità di affrontare la fonte della nostra preoccupazione quotidiana.
A rilanciare il concetto è una ricerca dell’Università della Pennsylvania, pubblicata sul Journal of Gerontology: Psychological Sciences.
I ricercatori americani hanno reclutato 240 lavoratori di diversa collocazione socio-economica, sottoponendoli a una serie di domande nell’arco della giornata, per due settimane, tramite una app per smartphone. I quesiti vertevano, tra le altre cose, sulle previsioni e sulle situazioni reali di stress, ed erano accompagnati da test di memoria sul loro lavoro, ripetuti cinque volte al giorno.
L’esito è presto detto: livelli superiori di stress “previsionale” sono risultati associati non solo a un aumento di reale stress durante la giornata ma, e più ancora, a capacità cognitive diminuite. “Gli esseri umani pensano e cercano di anticipare gli eventi, il che può aiutarci a prepararci o perfino a prevenirli, ma tale facoltà può rivelarsi deleteria per le nostre funzioni mnemoniche, indipendentemente dal verificarsi o meno dell’evento stressante”, spiegano gli studiosi.
Le varie forme di demenza sono considerate oramai un’emergenza globale, anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si stima che ne soffrano attualmente oltre 35 milioni di persone ma la cifra è destinata a raddoppiarsi entro un ventennio e a superare i 115 milioni entro il 2050. A determinare il fenomeno, oltre alla tendenza all’invecchiamento della popolazione, sono fattori molteplici, anche di natura genetica, ma c’è oramai un consenso sull’incidenza di variabili “ambientali”, sociali, di “qualità della vita”.
In proposito i consigli proliferano, dalla cura degli hobby a una buona interazione sociale, dall’attenzione all’allenamento “mentale” ad attività creative.
La prima cosa da “non dimenticare” è insomma quella di aver cura di sé, della qualità della propria esistenza e spirito. Ma c’è una cosa interessante in più che emerge dalla ricerca statunitense. L’imperativo a “trattarci bene” vale prioritariamente al risveglio. “Anticipare lo stress” risulta deleterio alle nostre capacità cognitive se avviene il mattino, mentre se lo si fa la sera prima non ha lo stesso effetto, probabilmente perché c’è poi una notte di mezzo. Lo abbiamo già segnalato su questi spazi: “Memoria è anche saper dimenticare”.