A volte non servono i manuali di psichiatria per capire quantomeno parte delle cause che determinano le tendenze depressive, specie se entrano in gioco di situazioni di palese disagio sociale e/o economico.
Un rapporto dell’Istat, “La salute mentale nelle varie fasi della vita, anni 2015-2017”, delinea tendenze piuttosto preoccupanti nel nostro Paese, a partire dal dato complessivo: “Nel 2016 circa 800mila persone di 18 anni e più (161 per 10mila residenti) hanno ricevuto trattamenti nei servizi dei Dipartimenti di salute mentale”.
Il disturbo psichico più diffuso tra gli italiani è proprio la depressione, che colpisce circa 2,8 milioni di persone, con proiezioni in aumento rispetto agli anni precedenti. Magra consolazione, rimaniamo un po’ al di sotto della media europea, il 5,5% contro il 7,1% continentale. L’aspetto cruciale è che la malattia colpisce selettivamente le categorie più deboli. Nel mondo del lavoro, i depressi tra gli occupati sono il 3,5%, mentre si sale all’8,9% tra i disoccupati e al 10,8% tra gli inattivi. Nell’ambito di genere, le donne sono il doppio a soffrirne, ossia il 9,1, rispetto al 4,8% degli uomini.
A far svettare amaramente il nostro Paese nell’ambito di statistiche comparate sono alcune categorie, e in particolare gli anziani: l’11,8% degli italiani over-65 risulta depresso, mentre in Europa si scende all’8,8%. La ragione di fondo è nella crescente condizione di isolamento, a dispetto delle nostre celebrate tradizioni familiari. “Si è impoverita la rete familiare e sociale e, in primo luogo nelle metropoli, è ormai venuta a mancare quella tradizionale assistenza di 'buon vicinato' del passato”, nota Claudio Mencacci, past president della Società Italiana di Psichiatria (Sip).
L’altra categoria a risultare a massimo rischio è quella dei giovanissimi, nell’età scolare. L’Istat rileva un lento ma costante incremento degli alunni con disabilità all'interno delle scuole italiane, due terzi dei quali hanno disabilità intellettive. Ancor più allarmanti le tendenze emerse all’ultimo Congresso della Sip. Gli utenti di neuropsichiatria infantile negli ultimi cinque anni sono aumentati del 45%, e nell’ultimo biennio è emerso un boom di emergenze psichiatriche tra gli adolescenti, +21% di accesso al Pronto Soccorso, addirittura +28% di ricoveri.
Le ragioni individuate alla base di tali incrementi sono in qualche modo speculari al problema degli anziani, afferiscono cioè all’isolamento.. “Sono ragazzi invisibili, poco intercettati e particolarmente vulnerabili”, spiega Filomena Albano, dell’Autorità Garante per l'infanzia e l'adolescenza (Agia) che ha promosso un'indagine in proposito, con una conclusione che richiama piuttosto duramente l’ambito dell’assistenza: “Mancanza di integrazione e comunicazione tra gli operatori dello stesso ambito territoriale, carenza di servizi e strutture dedicati e di personale con esperienza specifica, solitudine delle famiglie con adolescenti con disagio, che andrebbero sostenute adeguatamente e valorizzate”.
Per una volta il bicchiere sembra un po’ più che mezzo pieno in materia di Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), ovvero le prestazioni che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a fornire ai cittadini gratuitamente, o tutt'al più con la loro co-partecipazione tramite ticket.
L’elaborazione dei dati è di queste settimane, nell’ambito del Rapporto di Coordinamento di Finanza Pubblica 2018 della Corte dei Conti, un aspetto peraltro critico è che si riferiscono ancora al 2016. In quell’anno, comunque, sono uscite dall’“inadempienza” Sicilia, Molise e Sicilia. Restano nell’insufficienza ancora Calabria e Campania, anche se risultano anch’esse in risalita. Al vertice opposto, si conferma il Veneto.
Parametri che non convincono del tutto la più grande rete associativa italiana sulla salute, Cittadinanzattiva: “Non è pensabile continuare a considerare adempienti Regioni che hanno tempi per l’arrivo del mezzo di soccorso sul posto superiori a 18 minuti, o con un servizio di elisoccorso attivo solo di giorno”, commenta Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato dell’organizzazione, lamentando il perdurare di gravi diseguaglianze regionali e invocando quindi un maggior coordinamento nazionale.
Contro tali discrepanze la stessa Cittadinanzattiva ha lanciato un’apposita campagna, www.diffondilasalute.it, con l’eloquente slogan: “La salute è uguale per tutti”. Tutti gli attori del settore del resto convergono da tempo nella richiesta di maggiori risorse per la salute, inclusa l’attuale ministra Giulia Grillo. “Vogliamo aumentare i fondi per il SSN, ma dobbiamo ancora coprire quello che non era stato coperto per i Lea nella scorsa legislatura”, ha dichiarato in audizione parlamentare, riferendo di un “buco” pregresso che ammonterebbe a 600 milioni di euro.
Problemi di risorse, ma anche di scelte organizzative, incluso l’ambito farmacologico. Su questo è intervenuto anche l’Huffington Post, con un corsivo firmato da Carlo Gaudio, Direttore di Dipartimento a La Sapienza e Consigliere d’amministrazione dell’Agenzia Italiana del Farmaco. Il ricorso ai farmaci equivalenti, meno onerosi per i singoli e la collettività, permetterebbe di “liberare le risorse necessarie ed indispensabili per rafforzare e razionalizzare la ‘governance’ del sistema farmaceutico nel nostro Paese, creando nuove risorse per colmare le maggiori spese per i farmaci "innovativi", evitando il continuo ricorso a misure emergenziali, tampone o, peggio, estemporanee e dannose”. Gaudio nota che il settore in Italia, seppure in crescita, rimane agli ultimi posti europei e, a livello nazionale, presenta discrepanze tra Nord e Sud, che sono del tutto parallele alla qualità complessiva del servizio sanitario offerto, come rilevato dall’ultimo rapporto ministeriale. Quindi lancia una proposta: “Azioni e sistemi premiali per quelle Regioni che riescano a incrementare i volumi di vendita di farmaci ‘generici’”.
Lo si spiega per i farmaci, vale anche per le creme solari. Non basta disporre del prodotto, si tratta di utilizzarlo per bene, pena vanificarne gli effetti desiderati. L’errore nell’approccio alla tintarella è diffuso, anche per il permanere di parecchie idee sbagliate in materia, dall’ambito delle difese a quello delle conseguenze per la salute che, come confermano le più recenti evidenze, possono essere assai gravi.
Da una pubblicazione sulla rivista Acta Dermato-Venereologica, emerge che un’equipe anglo-australiana ha valutato dettagliatamente gli effetti del diverso utilizzo di creme a protezione 50 da parte di un gruppo di persone di pelle chiara. Le differenze sono emerse notevoli. Chi le usava poco o nulla riportava danni notevoli, che poi parzialmente si riducevano quando il prodotto era applicato con uno spessore di almeno 0,75 mg/cm2 (corrispondente, si stima, alla modalità “mediana” di impiego), e quasi si azzeravano se si arrivava ai 2 milligrammi.
Può sembrare una banalità, ma incorre in questo errore di “sottoutilizzo” almeno la metà dei bagnanti. La propensione all’errore, a sua volta, è dovuta tra l’altro a una quantità di “miti” in materia, riassunti nelle scorse settimane da un reputato specialista, il dermatologo canadese Robert Gniadecki.
Uno di questi prende di mira le creme stesse, che alcuni considerano non solo “inutili”, ma addirittura foriere di rischio cancerogeno, o quantomeno fonti di qualche irritazione. A scanso di equivoci lo stesso Gniadecki ne sconsiglia l’uso sui neonati sostenendo che “dovrebbero semplicemente essere tenuti al riparo dal sole” .
Un altro preconcetto riguarda la produzione di vitamina D, cruciale anti-ossidante agevolato dal sole, che sarebbe inibita dalle creme. L’esperto ammette l’obiezione ma ricorda: “Perché si produca la vitamina, basta una decina di minuti di esposizione diretta al giorno”. Terminati quei dieci minuti, meglio abbondare con le creme.
Gli effetti di una scarsa protezione sono gravissimi. Le radiazioni solari sono la principale causa di tumore alla pelle, ed è un rischio di lungo periodo, che può manifestarsi a distanza di molto tempo. Questo chiama in causa, in particolare, l’attenzione per i bambini. Una documentata conferma arriva dall’Università di Sidney, che ha effettuato una corposa indagine sugli australiani tra i 18 e i 40 anni. Ė emerso che un corretto uso delle creme durante l’infanzia e adolescenza riduce di circa il 40% il rischio di sviluppare un melanoma in età adulta.
Infine, una curiosità: sulla propensione all’errore sono emessi alcuni nessi sociologici. A risultare più “superficiali” – e dunque più esposte a rischio – sono risultate le persone a bassa istruzione e, sul genere, quelle di sesso maschile.
La qualità delle abitudini alimentari non è decisiva, da sola, nella terapia antalgica. Tuttavia può essere un supporto essenziale, che può garantire l’efficacia di trattamenti, farmacologici e non solo, contro il dolore. Da una ricerca italiana arriva un riscontro scientifico di rilievo, pubblicato sulla rivista Faseb Journal, che rilancia l’esigenza di un approccio integrato nelle terapie contro la sofferenza, e in particolare verso il dolore neuropatico.
“A oggi in dolore neuropatico non risponde alla maggior parte dei classici farmaci analgesici”, sostiene il coordinatore dello studio Sabatino Maione, ordinario di farmacologia all’Università della Campania Luigi Vanvitelli, ribadendo l’obiettivo di scovare “nuovi meccanismi molecolari e substrati cellulari e anatomici” alla base del dolore. Gli antidolorifici possono aiutare, e parecchio, ma in molti casi serve anche qualcos’altro.
E quell’altro può trovarsi in quel che si mangia, ma anche che non si mangia.
Gli studiosi campani hanno identificato un recettore, l’HCAR2, rilevandone l’alto potenziale analgesico. E poi hanno documentato come esso venga stimolato da un’altra sostanza, il beta-idrossi-butirrato (BHB). Ebbene, quest’ultimo viene prodotto in grandi quantità in presenza di digiuno prolungato o di dieta a bassissimo contenuto di zuccheri. Il che avrebbe di per sé un effetto antidolorifico, e per giunta alimenterebbe l’azione degli antidolorifici.
“Nessuna delle terapie attuali riesce ad azzerare il dolore neuropatico”, riconosce anche la Fondazione Veronesi, che aggiunge: “Il nome del farmaco non conta”.
Esiste dunque un potenziale nella corretta associazione tra alimentazione e farmaco contro il dolore, e una strategia controllata di momenti di digiuno sembra una strada promettente. L’aspetto rilevante, nella terapia antalgica, è che non c’è una variabile unica, bensì serve un approccio “olistico”. Un’altra ricerca ha documentato come l’attività fisica e un’alimentazione povera di grassi, insieme, possano aiutare parecchio, non solo sul dolore ma anche nella prevenzione di patologie come il diabete. La parola chiave è dunque “insieme”, ossia una strategia integrata, di cui il cibo, o anche la sua periodica assenza, è un documentato tassello.
Non serve recarsi in remoti Paesi esotici per incontrare l’esperienza di un’intossicazione alimentare. Il pericolo è dietro l’angolo anche da noi, e lo è soprattutto d’estate, per svariate ragioni. “Ė uno dei problemi di salute pubblica più diffusi nel mondo contemporaneo”, ricorda l’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (Adi), con qualche dato allarmante. “Si stima che nei soli Paesi industrializzati il 30% della popolazione sia colpito ogni anno da tossinfezione alimentare”, nota la vicepresidente Barbara Paolini.
L’Istituto Superiore della Sanità (Iss) ricorda che esistono oltre 250 tipi di intossicazione, innescati da una pluralità di agenti patogeni, ossia batteri, virus e parassiti. Qualche passo di rilievo, specie nei Paesi avanzati, è stato fatto, considerata la prevalenza, fino a tempi recenti, di febbre tifoidea e di colera. Malattie largamente debellate “grazie all’implementazione di migliori pratiche di gestione degli alimenti”, si nota, ma al contempo si constata un quadro in perenne evoluzione, anche nelle insidie.
“Vengono identificati continuamente nuovi patogeni (i cosiddetti patogeni emergenti, come Campilobacter jejuni, Escherichia coli 157:H7, Listeria monocytogenes, Yersinia enterocolitica, etc), alcuni dei quali si diffondono anche per effetto dell’incremento di scambi commerciali, di ricorso alla ristorazione collettiva, di grandi allevamenti intensivi e di viaggi”, spiega l’Iss, ricordando alcune emergenze specificamente europee, come la malattia di Creutzfield-Jacob, la cosiddetta “mucca pazza”, che “costituisce ancora oggi una delle principali preoccupazioni nel campo della sicurezza alimentare”, per le sue conseguenze potenzialmente letali, e anche per il fatto che, a differenza della maggioranza delle intossicazioni, può manifestarsi dopo molti anni dall’infezione.
In tutto questo rimane il quesito sul perché l’estate rappresenti la stagione più a rischio di tossinfezione. Una ragione sta, paradossalmente, nelle stesse consulenze alimentari. Con le alte temperature, si alimenta l’esigenza fisica e salubre di “piatti freschi”, ricchi di vitamine e altri nutrienti essenziali che con la cottura tendono a dileguarsi. La cottura serve però anche a “uccidere” gli agenti patogeni, che con l’afa proliferano, anche perché quest’ultima mette a sua volta a rischio la conservazione degli alimenti.
Gli imperativi in proposito vanno dunque seguiti con cura, anche nei comportamenti individuali. Fondamentale l’igiene, delle mani, dei canovacci, e di tutti gli oggetti e contenitori che entrano in contatto col cibo. Cruciale un rapido refrigerio dei cibi acquistati, senza però riporre nel frigo alimenti caldi perché aumentano la temperatura dell’intero vano, ed evitando di inserire gli alimenti avanzati nel tegame di cottura, anziché in un apposito contenitore in vetro. Il cibo crudo, a iniziare dalla frutta, va sempre lavato accuratamente, possibilmente con un po’ di bicarbonato. Se si tratta del freezer, lo scongelamento dev’essere graduale, sicché meglio il frigorifero della temperatura ambiente. Sono piccoli accorgimenti utili a contrastare errori diffusi che possono avere anche conseguenze serissime.
Va precisato da subito: le alte temperature non sono ritenute, di per sé, fattore di rischio di infarti o ictus, nemmeno in presenza di pregressi di interventi di angioplastica o bypass. Nondimeno il nostro corpo è oggettivamente sotto pressione, e vanno seguite alcune cautele, soprattutto tra i più fragili, maggiormente esposti a disturbi o complicanze di tipo cardiovascolare. “Il caldo può scatenare il colpo di calore ma può anche peggiorare le condizioni esistenti, come malattie cardiovascolari, respiratorie, renali o mentali”, ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).
La stessa Oms all’inizio di questa estate particolarmente calda ha ricordando le conseguenze piuttosto drammatiche di precedenti analoghe circostanze. All’ondata di caldo registrata in Europa nel 2003, ad esempio, furono attribuite ben 45mila morti. E le principali con-cause sono state riconosciute in variabili non tanto sanitarie quanto sociali: condizioni domestiche inadeguate (quindi con poche difese dalle alte temperature), l’età della persona e il suo isolamento. Il primo imperativo della prevenzione è allora per i familiari e vicini della persona a rischio: evitare di lasciarla sola.
Sul piano cardiovascolare, sebbene appunto non vi siano allarmi specifici legati al caldo, è bene fare attenzione soprattutto alla pressione. Le alte temperature tendono infatti ad abbassare i valori pressori, vasodilatando e incrementando la traspirazione, e innescando inoltre possibili sensazioni di vertigini e di fatica. Inoltre, il gran caldo può incidere sull’efficacia e gli effetti avversi di alcuni medicinali, sicché è utile un consulto medico sui loro dosaggi.
Per il resto, valgono sempre i vecchi consigli, dall’alto consumo idrico a un’alimentazione leggera, fino all’imperativo di evitare di uscire nelle ore più caldi e di esporsi agli sbalzi termici anche con un abuso dell’area condizionata. Questo riguarda tutti, anche chi non va in vacanza. Il governo americano, con un apposito report, ha esplicitamente esortato datori di lavoro e lavoratori a misure preventive.
Questo riguarda orari, tempi di esposizione alla luce solare, attrezzature, abbigliamento. La soglia ritenuta critica è di 32 gradi, ma i colpi di calore possono registrarsi anche a temperature più basse. “Senza le dovute precauzioni una giornata estiva con oltre 26 gradi può essere fatale”, si legge. Gli autori dello studio hanno rilevato infatti decine di episodi mortali legati al caldo. “Il rischio del colpo di calore sul luogo di lavoro è alto e poco apprezzato”, ricordano, citando in particolare le categorie più esposte, soprattutto i lavoratori in esterna, dall’agricoltura all’edilizia.
Fa caldo, per molti c’è la spiaggia, le alte temperature abbassano i bisogni di cibo e stimolano la sudorazione, qualche preoccupazione per il giro-vita costituisce un incentivo ulteriore a cercare di rimettersi almeno parzialmente in forma. Soprattutto, è il tempo di almeno un po’ di riposo, che di per sé aiuta a ripristinare l’assetto psicofisico e metabolico messo sotto pressione dalle fatiche quotidiane delle stagioni fredde.
Tutto vero, ma la realtà è che vale anche e soprattutto il contrario. Magari si nuota un po’, si fa qualche bella escursione in montagna e altrettanto importanti passeggiate in acqua, ma per molti l’estate è perlopiù tempo di “vacanza”, anche dalle attività fisiche. Poi ci sono i cambi repentini di abitudini, che rappresentano di per sé un fattore di stress. E ci sono gli “strappi”, che ci concediamo con maggiore disinvoltura, specie sull’alimentazione. Per tutto questo arriva però una pur parziale rassicurazione: a detta di qualche esperto, l’estate sarebbe il periodo peggiore, non il migliore, per pensare a qualche dieta.
“In inverno l'organismo 'spreca' moltissimo per mantenere la temperatura sui 36 gradi, facilitando la perdita di peso. Ciò non accade in estate, sicché le diete funzionano poco”, racconta ad esempio all’agenzia Adkronos il nutrizionista Ciro Vestita, aggiungendo una curiosità: “Molti nutrizionisti e dietologi non prendono neppure appuntamenti in questo periodo”. Meglio dunque rinviare la dieta a dopo l’estate, quando tra l’altro si recupera il pieno controllo della routine alimentare domestica.
“Diete” a parte, qualche buona norma estiva va comunque seguita, e lo ricorda anche il ministero della Salute. L’imperativo numero uno rimane l’alto consumo d’acqua. Poi, cercare di mantenere un po’ di regolarità nei pasti (a partire da una robusta colazione), tanta frutta e verdura, un’attenzione supplementare alle scadenze e alla conservazione degli alimenti sottoposti ad alte temperature, poco sale, meglio iodato, cibi freschi, senza esclusione (né esagerazione) di qualche buon gelato.
Una postilla riguarda i bambini, che in maggioranza tendono a tornare a scuola con qualche chilo di troppo. Dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale arriva qualche consiglio in più, centrato non tanto sugli ingredienti quanto sulle abitudini. Tra le priorità indicate, quella di cercare di mangiare in famiglia, e anche di coinvolgere i bambini nelle scelte e nelle azioni, dalla spesa alla cucina. La “socialità” sarebbe il primo argine alle cattive abitudini, prima ancora di “decaloghi” e diete.
“L’aspettativa di vita per i malati di tumore al pancreas non è sostanzialmente cambiata negli ultimi 40 anni, restiamo al 5% nei cinque anni, e ci sono pochissimi trattamenti e perlopiù palliativi”, ammettono gli studiosi dell’Università Mary Queen di Londra e dell’australiana Curtin, perorando l’urgenza di “nuovi obiettivi farmacologici e nuove strategie terapeutiche”. Il commento – riportato dalla rivista Oncogene – non rappresenta una semplice lamentatio, bensì la premessa all’annuncio di nuovi riscontri scientifici da un fronte parzialmente inatteso: la cannabis.
In sintesi, è stata sperimentata sui roditori una molecola della cannabis, il cannabidiolo, col riscontro ultimo che triplicherebbe la sopravvivenza dei pazienti, se applicato in aggiunta al trattamento chemioterapico: la gemcitabina. Esiti promettenti, vista anche la premessa deludente sulla ricerca in proposito degli ultimi anni.
Il cannabidiolo è un metabolita non psicoattivo della Cannabis sativa dotato tra l’altro di effetti rilassanti, anticonvulsivanti, antidistonici, antiossidanti, antinfiammatori, e oggetto di studi nell’ambito della ricerca contro la depressione e le malattie neurologiche anche alla luce del fatto che è lo stesso cervello umano a produrre sostanze, chiamate endocannabinoidi, analoghe a quelle della marijuana.
Il loro effetto antidolorifico è solidamente acquisito dalla scienza, sebbene non manchino preoccupazioni e polemiche, specie oltreoceano, sui possibili effetti di dipendenza. Il composto attivo della marijuana, il THC, è comunque base di uno “strumento per contrastare i disturbi legati al cancro e gli effetti collaterali delle chemioterapie”, secondo tra gli altri la Food and Drug Arministration statunitense. Del resto, nota anche l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc), “l'uso medico della cannabis risale a oltre 3.000 anni fa, e nel XIX secolo è stata introdotta in Occidente come antidolorifico, antispastico e antiepilettico”.
Dalla ricerca anglo-australiana emerge peraltro qualcosa in più rispetto al sollievo dalla sofferenza. Il cannabinoido sembra anche avere potenziali di cura del tumore. Con ricadute che potrebbero essere di breve periodo, essendone già stato approvato l’uso clinico. “Potrebbe entrare in uso quasi immediatamente - incalzano gli autori dello studio - senza dover aspettare i tempi tecnici di approvazione di ogni nuovo farmaco da parte delle autorità regolatorie”.
Ė un filone ancora poco considerato e studiato in Italia, eppure il problema c’è ed è oramai riconosciuto dalla scienza. La “depressione post-partum” – che in realtà può iniziare già in fase pre-natale – colpisce molte donne, se ne stimano addirittura una su quattro. Ma il nodo è che ci si è per lungo tempo largamente dimenticati degli uomini. Anche loro ne sono esposti, sebbene non per ragioni direttamente “ormonali”, complice anche il drammatico cambiamento di ruolo imposto non solo dal lieto evento, ma anche dai mutati contesti familiari contemporanei.
Una conferma arriva dall’Università dell’Indiana, con una pubblicazione su Jama Pediatrics. Da un riesame di quasi diecimila visite familiari in cliniche pediatriche l’incidenza del problema è risultata del 4,4% tra i padri, solo qualche decimale in meno rispetto alle madri. Ė un problema individuale, dai risvolti comportamentali e anche cognitivi, che per giunta - come accade se la persona colpita è la mamma - possono ricadere in sintomi depressivi anche sui figli, specie nell’adolescenza.
Altri studi recenti avevano conteggiato una prevalenza ancor più alta del problema, oltre al 10%, con sintomi fisiologici – oltre che strettamente psicologici – dall’ambito gastrointestinale (vomito, costipazione, diarrea) ai disturbi del sonno, da cefalee a problemi cutanei, fino a far coniare la definizione della “sindrome del papà incinto”.
“In Italia non abbiamo ancora ricerche che facciano luce su questo nuovo disagio maschile”, nota il sociologo Roberto Fumagalli, che ha scritto un libro sulla paternità e sottolinea la problematica dei cambiamenti sociali contemporanei: una famiglia sempre più isolata, meno nonni in forze a disposizione nelle vicinanze, la madre che ha legittime aspirazioni e necessità lavorative. Alla nuova emozione, fatica e responsabilità si aggiunge un’incertezza ed evoluzione di ruolo: “Deve mettere all’angolo la figura del padre autoritario, maschio ed egemone, per trasformarsi in un papà ‘plastico’ e flessibile, capaci di essere accudente ed empatico, anche un po' ‘mammo’ per supportare la compagna”.
Il cambio è virtuoso, ma anche difficoltoso. “Nel periodo che precede la nascita l’uomo ha la funzione di contenimento: le ansie, preoccupazioni e le angosce materne sia prima e sia dopo il parto vengono limitate grazie alle rassicurazioni continue e le attenzioni del padre”, ricorda la psicologa Emmanuella Ameruoso. Il fatto è che le merita anche lui. L’American Academy of Pediatrics già raccomanda uno screening psico-fisico per ambedue i genitori dopo il parto. Ma c’è un ostacolo in più, sottolineato da tutti gli esperti: è l’uomo stesso a essere troppo restio a chiedere aiuto, mentre la verità è che ne ha davvero bisogno.
“Ho passato la vita a guardare negli occhi della gente, è l’unico luogo del corpo dove forse esiste ancora un’anima”, diceva il compianto scrittore portoghese José Saramago. Che l’occhio sia “specchio dell’anima” è un concetto consolidato nella letteratura. Ma lo è anche per la scienza, che lo riconosce possibile sede di individuazione di vari disturbi, incluse gravi patologie. Di questi giorni l’annuncio dall’University College di Londra, con una pubblicazione su Jama Neurology, dell’esito di una ricerca che dimostra quanto l’osservazione della retina possa contribuire a una diagnosi tempestiva della demenza.
Sono stati coinvolti ben 32mila soggetti di mezza età, tra i 40 e i 69 anni, sottoponendoli sia a un normale “Oct”, un esame semplice e non invasivo per “fotografare” la retina (utilizzato ad esempio per la diagnosi della maculopatia), sia a una serie di test cognitivi di memoria. Gli esami sono stati condotti tre anni fa, e poi ripetuti di recente.
Nella ripetizione è emerso un doppio nesso che appare assai stretto. Gli oftamologi londinesi hanno riscontrato infatti che le persone con uno strato retinico più sottile sono maggiormente esposte non solo a piccoli deficit mentali nell’immediato, ma anche, nell'arco del tempo considerato, a un rilevante aggravamento dei problemi cognitivi, con un aumento di rischio di Alzheimer e altre forme di demenza stimato intorno al 100%.
Il fatto può scatenare, probabilmente a ragione, molte congetture di natura psicoterapeutica sull’importanza di “tenere gli occhi bene aperti”, di continuare a “guardare” il mondo, senza farsi blindare dalle fatiche, dalle paure e dai disturbi dell’età. Ma rinvia anche a un filone farmaco-scientifico cruciale. La ricerca sul declino cognitivo – nonché la lotta a varie patologie come l’Alzheimer – ha registrato negli ultimi anni parecchie delusioni e battute d’arresto. Ma c’è un tassello che rimane essenziale, e sta nella diagnosi precoce, cruciale per poter arginare tempestivamente il declino cognitivo.
E su questo si annunciano altre novità promettenti, anche in questi giorni, e anche dall’Italia. Lo si legge su Annals of Neurology grazie ad una ricerca coordinata dalla Fondazione-Gemelli-Università Cattolica di Roma, che ha subito ricevuto ampia eco internazionale . Si tratta di una metodica che, tramite un semplice esame del sangue combinato a un elettro-cardiogramma (quindi senza metodi invasivi od onerosi come Pet, risonanza magnetica o puntura lombare), permetterebbe di identificare, tra le persone con lieve declino cognitivo, quelle predisposte a sviluppare la demenza. L’accuratezza riscontrata è del 92%.
Dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) alla Società Italiana di Farmacologia (Sif), dai portali ospedalieri ai pediatri, l’estate è l’occasione per ricordarci l’abc del kit di medicinali imprescindibili che servono in casa, oltre che in vacanza. I consigli possono suonare a volte scontati, ma la realtà è che l’errore – a partire dalla sottovalutazione delle possibili necessità terapeutiche – è assai frequente. In particolare, ci si dimentica spesso che anche i farmaci vanno protetti dall’afa.
La prima raccomandazione della Sif è infatti quella di conservare il medicinale a temperature non superiori ai 24 gradi. Questo riguarda soprattutto le preparazioni liquide, per le quali si suggerisce addirittura il frigorifero. E se esistono alternative “solide” al medicinale, vanno preferite in quanto più resistenti al calore. I prodotti, inoltre, vanno difesi per quanto possibile dall’umidità, che può danneggiarne parecchi, dalle capsule ai cerotti.
Fondamentale, dunque, la protezione del farmaco mentre si viaggia, cercando i punti del veicolo meno esposti al calore. Se il mezzo di trasporto è l’aereo, peraltro, la raccomandazione è speculare. Il medicinale va preferibilmente inserito nel bagaglio a mano, in quanto, se finisce nella stiva, può ritrovarsi in volo a parecchi gradi sotto lo zero, e anche questo può essere un fattore di rischio.
Un altro errore diffuso, specie quando si va in vacanza, è quello di liberarsi delle “carte”, dalla prescrizione medica al foglio illustrativo, dalla tessera sanitaria (ed eventuali documenti assicurativi) fino alla confezione del farmaco. Va invece conservato e portato con sé tutto, soprattutto se si è lontani dal proprio medico curante, perché tali carte possono essere preziose se si deve consultare qualcun altro, o anche perché descrivono in dettaglio indicazioni, posologia ed eventuali effetti avversi, e, non ultimo (nel caso della scatola), in quanto riportano la data di scadenza, che in presenza di alte temperature è ancor più cogente.
Sul problema dell’afa va inoltre ricordata una postilla, non meno essenziale. Essa può rappresentare un fattore di rischio non solo per l’integrità dei farmaci, ma anche per la nostra reazione agli stessi, e questo vale naturalmente soprattutto per i più fragili. “Gli effetti del caldo sull’organismo possono essere acuiti dall’assunzione di farmaci che interferiscono con alcuni processi quali la termoregolazione – ricorda ad esempio il presidente dell’Aifa Melazzini - causando, specie in soggetti più a rischio, come chi soffre di problemi cardiaci, circolatori e respiratori, conseguenze a volte anche gravi”.
La parola chiave (ahinoi di nuovo in inglese) è “misperception”. Uno studio italiano, pubblicato sulla rivista Obesity, rilancia il problema del sovrappeso, specie tra i più giovani, a partire da una diversa angolatura, quella della percezione dei genitori. Che risulta gravemente errata. In altre parole, tra le tante variabili che incidono sulla crescente obesità infantile nel nostro Paese, si aggiunge anche quella della mancata presa di coscienza del problema all'interno della famiglia di appartenenza.
Lo studio è stato condotto dall'Università di Padova, sotto il coordinamento di Dario Gregori, sulla base del monitoraggio di oltre 2700 bambini tra i 3 e gli 11 anni in dieci Stati, tra Europa, Sudamerica e Asia. Tra loro, ben 774 sono risultati in sovrappeso o obesi, e la proporzione maggiore – quasi la metà dei ragazzi sul totale nazionale – è stata rilevata in India. Il dato potrebbe sorprendere, considerando gli alti livelli di indigenza che permangono nel Paese di Gandhi, ma costituisce in realtà una conferma del fatto che il problema coinvolge soprattutto le economie emergenti, per i rapidi – e non sempre salubri – cambiamenti alimentari indotti.
Ma il guaio è anche nella scarsa consapevolezza. In Italia, in particolare, ben “l'80% dei bimbi in sovrappeso sono stati percepiti dalle madri come normopeso”, riferisce il professor Gregori. La sottovalutazione è colpevole anche perché si rivela tra l'altro foriera di una minore propensione a intervenire tramite percorsi dietetici e/o motori. Il che naturalmente rilancia l'esigenza di politiche di sensibilizzazione e informazione, rivolte alle stesse famiglie.
La tendenza all'aumento dell’obesità infdantile presenta cifre drammatiche. Nei mesi scorsi, con una pubblicazione su Lancet, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha rivelato che il numero di bambini e adolescenti obesi (tra i 5 e i 19 anni) si è addirittura decuplicato negli ultimi quarant'anni. Sarebbero oggi oltre 123 milioni nel mondo, a fronte – drammatico paradosso – del perdurare della malnutrizione, che ancora terrebbe sottopeso altri 200 milioni di ragazzi circa.
Da una recente ricerca, condotta anch'essa in ambito Oms, emerge inoltre che, nell'ambito europeo, i tassi di crescita maggiori dell'obesità infantile sono rilevati nei Paesi meridionali, ossia nei templi della dieta mediterranea, celebrata per i suoi benefici per la salute. All'evidenza, complici le difficoltà economiche, si mangia peggio – tra merendine e alimenti a basso costo – e ci si muove di meno. Non è solo un problema di “girovita”, ma anche di maggiore esposizione alle più gravi patologie. Secondo il noto oncologo Nathan Berger, della Case Western Reserve University di Cleveland, l'obesità è associata a un aumentato rischio di ben tredici forme tumorali.
I Pronto Soccorso costituiscono forse il sito più amato, e al contempo odiato, della Sanità italiana. In entrambi i casi non dovrebbero generalmente esserlo. Si tratterebbe della struttura deputata alle sole emergenze, ma sovente vi si ricorre anche quando la reale emergenza non c’è, stretti nella tenaglia tra il legittimo timore suscitato anche da qualche piccolo malore e la consapevolezza dei tempi eccessivi delle liste d’attesa. Il problema è oramai endemico, ma quel che si tende a dimenticare è che l’estate non è affatto un periodo di “tregua”, bensì, al contrario, specie quest’anno, di accentuazione del problema del sovraffollamento.
Le ragioni sono molteplici. Una di esse è l’ampio e crescente fenomeno delle febbri estive, legate a decine di forme virali “parenti” dell’influenza vera e propria, con relative possibili complicanze. L’aumento, già rilevato a inizio stagione, è a sua volta dovuto soprattutto, secondo gli esperti, ai cambiamenti ambientali in atto, con un “clima subtropicale” che caratterizza oramai il nostro Paese, determinando repentini sbalzi di temperatura che indeboliscono le naturali difese del nostro organismo.
Un’altra ragione sta nel fatto che gli operatori sanitari vanno legittimamente in vacanza, sicché, nonostante gli tra sforzi di turnazione, l’estate risulta penalizzata. La “domanda” sanitaria non diminuisce dunque granché rispetto alla stagione invernale, mentre “l’offerta” un po’ sì. Inoltre, le ferie degli uni o degli altri inducono a frequenti slittamenti negli appuntamenti e talora perfino alla chiusura di qualche reparto ospedaliero, alimentando ulteriormente la pressione sui Pronto Soccorso.
“Più passano gli anni più il problema aumenta”, riconosce Sandro Petrolati, Coordinatore della Commissione emergenza Anaao-Assomed, conteggiando “un 20-30% in meno di personale medico” in tali strutture, e sottolineando che “non basta sostituire gli operatori con contratti atipici o a gettone”. Scarso turnover, poco personale specializzato, il nodo generale dei tagli alla Sanità, spiega Petrolati, citando in particolare “la politica della chiusura dei posti letto nei reparti, senza offrire una reale alternativa, il che fa esplodere il Pronto Soccorso, trasformato in un luogo di ricovero, dove il paziente viene curato in barella”, anziché essere condotto appunto nell’apposito reparto.
In effetti, i dati raccolti ad esempio nella Regione Lazio mostrano che due terzi dei pazienti in Pronto Soccorso sono in “codice verde”, ossia in uno stato “poco critico, assenza di rischi evolutivi, prestazioni differibili”. Nell’aumentata pressione, incrementa anche il rischio d’errore, che poi ricade sull’operatore stesso, oltre che sulla persona trattata.
Proprio di recente due infermieri sono stati condannati in Cassazione per omicidio colposo, e il “sovraffollamento” non è stato ritenuto un’attenuante. Da notare che qui il problema non riguarda solo le Regioni più in difficoltà, bensì anche quelle più virtuose nell'assistenza.
Ė un nodo centrale della Sanità italiana, che reclama risorse e un efficientamento della spesa, anche farmacologica.
Qualche cambiamento si annuncia a partire dalla nomenclatura: i “codici” non saranno più associati a colori, bensì a numeri, da 1 a 5, a seconda della gravità. Obiettivo: una razionalizzazione del sistema che, dirottando i pazienti con problemi minori verso percorsi specialistici, riesca a trattare il 95% delle emergenze entro un’ora.
Stop ai “trionfalismi” dalla narrazione sulla lotta al tumore al seno, specie se in fase metastatica. Lo hanno chiesto quest’anno, in una lettera aperta alle redazioni italiane, un gruppo di circa 200 pazienti che dicono basta al silenzio in materia ma anche agli annunci di “vittorie di Pirro”, e invocano, invece, risposte concrete, e possibilmente definitive.
Il tumore al seno rimane infatti la prima causa di morte oncologica nel nostro Paese: le donne in cancro metastatico sono 30mila e, a ben vedere dai dati dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica, quelle “definitivamente guarite”, ossia con rischi di mortalità analoghi alle coetanee mai colpite da tumore, sarebbero solo il 16%.
Nondimeno, i passi avanti ci sono e sono reali, sicché la sopravvivenza media a 5 anni dalla diagnosi tumorale è oggi salita a circa l’87%. Migliorano i farmaci, e prendono al contempo il largo nuove metodiche, impensabili fino a pochi anni fa. In particolare, si fanno strada due approcci di tipo immunoterapeutico, che fanno leva sull’uso delle difese naturali del paziente, sollecitandone le cellule tramite terapia farmacologica oppure lavorando sulle cellule immunitarie. A quest’ultimo proposito una équipe del Maryland ha annunciato si annuncia l’esito notevole di una sperimentazione con quest’ultima metodica, tramite “linfociti T”, su una paziente ritenuta oramai “incurabile”, non avendo reagito a nessun altro trattamento, e ora, a due anni dalla guarigione, è del tutto libera dalla malattia, senza dover più ricorrere ad alcun farmaco.
“Lo studio è in fase sperimentale, ma poiché questo nuovo approccio all'immunoterapia dipende dalle mutazioni, non dal tipo di cancro, il progetto potrà essere esteso ad altri tipi di tumore”, spiegano i ricercatori americani. Ad avanzare, comunque, è anche l’efficacia delle terapie cosiddette “tradizionali”. Al Policlinico di Modena è stata trattata una donna con un raro carcinoma maligno in entrambi i seni, diagnosticato al quarto mese di gravidanza. Ė stata quindi calibrata una terapia chemioterapica, adattata per evitare danni al nascituro e al contempo ridurre la dimensione dei moduli prima dell’intervento, effettuato dopo il parto, con l’esito, anche qui, di una completa guarigione.
Non sempre va così bene, ma sono proprio i “casi limite” a raccogliere l’interesse della medicina, in quanto forieri di potenziali indicazioni sulle dinamiche che li determinano”. Al dipartimento di Oncologia dell’Università di Verona è stata dunque attivata un’unità consacrata ai cosiddetti “exceptional responders” . “Stiamo abbinando la diagnostica molecolare all'identificazione di sottogruppi di pazienti che rispondono meglio, o anche peggio, a determinati trattamenti” in relazione a vari tipi di tumore, spiega l’ordinario Giampaolo Tortora.
La ricerca quindi si muove, e i risultati ci sono, per un numero crescente di donne.
A dover ancora avanzare, comunque, è anche la prevenzione. Si stima che quasi il 10% dei nuovi casi di tumore al seno sia in fase metastatica già al momento della diagnosi. Numeri troppo elevati, per una malattia su cui la tempestività terapeutica rimane una variabile che può rivelarsi decisiva.
Sull’impiego degli schermi, e in particolare dei contemporanei dispositivi digitali, la lista delle possibili controindicazioni è oramai entrata nel linguaggio medico, a partire dalla concetto di Internet Addiction Disorder, già ricordato più volte in questi spazi. I problemi peraltro non compaiono solo in presenza di “abusi”, ma perfino in coincidenza con l’atto, in apparenza “creativo” o quantomeno “documentale”, dello scatto di una fotografia.
Lo spiega in questi giorni uno studio dell’Università della California-Santa Cruz, pubblicato sul Journal of Applied Research in Memory, che ha monitorato una quarantina di propri studenti impiegati in una visita virtuale a un museo. In particolare, è stato confrontato l’impatto cognitivo tra coloro che si limitavano a osservare le opere e quelli che invece le fotografavano con il loro smartphone.
Il confronto può far sobbalzare qualche professionista dello scatto, convinto (per ottime ragioni) che la fotografia possa aiutare a “guardare meglio” e a cogliere particolari che a occhio nudo potrebbero sfuggire, oltre a “rendere eterno” l’oggetto o lo scenario immortalato. L’esito di tale ricerca, eseguita tramite test mnemonici successivi alla visita, rovescia tutto. Chi fotografa sembra ricordare meno di ciò che ha visto rispetto a chi si limita a osservare, ed è una differenza netta, conteggiata in un calo mnemonico medio di circa il 20%. Lo scarto si attuava perfino tra coloro che usavano lo “Snapchat”, sapendo cioè che le immagini avrebbero avuto una durata di soli dieci secondi. La ragione, spiegata dagli studiosi, è l’attivazione di quel che viene chiamato “scarico cognitivo”, o “disimpegno attenzionale”, in cui l’attenzione cerebrale viene ridotta, in quanto “delegata” al dispositivo.
Il fenomeno concettualmente rimanda a un’altra ricerca, pubblicata in queste settimane sulla rivista Psychological Science, condotta dall’Università dell’Arizona sull’impatto della “chiacchiera futile” e superficiale sul benessere psichico. Studi precedenti l’avevano derubricata a fonte di infelicità, nel paragone con l’esercizio di discorsi “importanti e impegnativi”. Adesso arriva la smentita: anche la più banale delle interazioni è necessaria. Gli studiosi lo spiegano con una metafora sui farmaci. “Ognuno ha un principio attivo, e non potrebbe esserne privo – spiegano – e lo stesso riguarda le chiacchiere, sono in tutti casi un tassello essenziale della nostra vita sociale”, purché avvengano nella fisica prossimità.
Sui pericoli di “dipendenza” nell’era digitale la letteratura è estesa, con moniti rivolti in particolare ai più giovani, per la duplice ragione di trovarsi nell’età dello sviluppo e per il fatto di non aver sperimentato il mondo che c’era prima di tale era. Spunta peraltro una buona notizia. Uno studio sudcoreano, tra gli altri, ha recentemente documentato come il processo dell’Internet Addiction Disorder, con i relativi danni cognitivi, sia rapidamente reversibile, tramite appositi percorsi di “terapia cognitiva-comportamentale”. L’importante è saper riconoscere il problema, e possibilmente prevenirlo.
Ė una delle patologie in più rapido aumento nel mondo: si stima quasi mezzo miliardo di persone coinvolte. E quando si parla di diabete i fattori di rischio perlopiù indagati riguardano gli “stili di vita”, specie nelle economie avanzate e ma anche in quelle emergenti, tra sedentarietà e scelte alimentari “industriali”, con ricadute sugli indici di obesità e sui rischi metabolici. Ma c’è un’altra variabile che viene presa in sempre più seria considerazione, ed è quella dell’inquinamento.
A rilanciarne il nesso, rispetto all’esposizione al diabete, è ora un esteso studio internazionale condotto negli Stati Uniti, che ha quantificato i danni delle polveri sottili sulla capacità del corpo di regolare correttamente gli zuccheri nel sangue. “Fino a una decina di anni fa pensavamo che l’inquinamento atmosferico causasse polmoniti, bronchiti, asma e poco altro, ora sappiamo che può causare tra l’altro danni cardiovascolari, tumori al polmone e malattie croniche al fegato”, ricorda lo scienziato newyorchese Philip Landrigan.
Per quel che riguarda il diabete, si è oramai compreso come il particolato atmosferico possa raggiungere attraverso i bronchi la circolazione sanguigna, aumentando i livelli di infiammazione e riducendo la produzione di insulina. Nell’ultima stima, pubblicata sulla rivista Lancet, si ritiene che le polveri sottili abbiano contribuito ad almeno 3,2 milioni di nuovi casi nel solo 2016, pari al 14% del totale delle nuove diagnosi.
Un altro aspetto rilevante dello studio è che vengono prese di mira perfino le “soglie di sicurezza” stabilite anche nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Negli Stati Uniti, ad esempio, dove il limite è fissato a 12 microgrammi per metro cubo d’aria, emerge che il rischio di diabete aumenti già a partire da 2,4 microgrammi.
E mentre in tutto il mondo i lobbisti sono al lavoro per allentare i pur cauti vincoli stabiliti sulle emissioni nocive, sarebbe viceversa oramai urgente “l’implementazione di politiche e interventi urbanistici orientati a diminuire l’inquinamento e aumentare l’attività motoria, tra piste ciclopedonali, strutture sportive a buon mercato, veicoli elettrici, controlli maggiori sulle emissioni auto, aree chiuse al traffico”, incalza il professor Gary O’Donovan, dell’Università delle Ande di Bogotà, in Colombia, una delle città in maggiore sofferenza. Il nesso insomma c’è, è assai stretto e, attenzione, si attiva perfino prima della nascita: tre anni fa uno studio svedese ha documentato come i rischi di diabete aumentino con l’esposizione all’inquinamento delle donne in gravidanza.
A volte è una scelta “ereditata”, in altre il ricorso a “quel medico” è un atto di mera abitudine, indipendentemente dalla nostra valutazione, spesso e volentieri abbiamo un rapporto motivato di intima fiducia. In ogni caso prevale una certa “inerzia” dinanzi alla scelta di cambiare il proprio medico di base. Del resto, da una ricerca britannica, dell’Università di Exeter, la più estesa mai realizzata nel suo genere, emergerebbero benefici significativi da tale “resistenza”.
Riesaminando gli esiti di 22 studi pregressi in proposito, condotti in nove Paesi (con differenze notevoli sul piano dell’organizzazione e dell’assistenza sanitaria), gli studiosi inglesi hanno documentato come la “continuità” abbia una ricaduta reale sulla salute. In quasi tutti i contesti, chi non cambia il medico attingerebbe infatti a rischi di mortalità notevolmente ridotti.
Perché esiste tale nesso? I ricercatori ipotizzano una duplice motivazione. Vi sarebbe anzitutto una dimensione “psicologica” con effetti sull’appropriatezza e aderenza terapeutica. Diminuirebbe cioè lo “stress da visita”, e al contempo si consoliderebbe un rapporto empatico che rafforzerebbe nel tempo la conoscenza e la fiducia tra medico e paziente, migliorando sia la pertinenza diagnostica sia la propensione a seguire correttamente i consigli del professionista.
L’altra ragione è che una buona relazione tra medico di base e paziente condurrebbe anche a una maggiore propensione a farsi seguire con continuità dagli specialisti chiamati in causa dal problema del singolo. Si potenzierebbe cioè un “rapporto a tre”, con tutto quel che consegue sul piano dell’attenzione e della qualità terapeutica.
Nondimeno, la scelta del medico di famiglia va ponderata per bene, e quella di cambiarlo è un diritto riconosciuto. La principale rete associativa italiana di pazienti, Cittadinanzattiva, ha perciò elaborato un apposito vademecum. I consigli forniti sono alquanto semplici, ma a volte li si dimentica. Si tratta di analizzare gli elenchi istituiti presso le Asl (a volte anche on-line), che dal 2005 impongono anche il curriculum dei singoli medici, inclusa dunque la loro specializzazione. Non secondario, è bene informarsi sull’indirizzo, gli orari di visita, la disponibilità a consulti telefonici o a comunicazioni digitali col paziente. E se si decide di cambiare, è importante motivare la propria scelta: l’Asl, e il medico stesso, hanno diritto e dovere di conoscere le ragioni dell’eventuale “ricusazione”.
Che la salute del corpo e quella della mente vadano strettamente a braccetto è un concetto chiaro agli umani sin dai tempi di Aristotele. Ė la scienza contemporanea peraltro a specificare progressivamente le dinamiche di tale nesso. L'ultima novità in tal senso è annunciata dall'Università australiana di Curtin e pubblicata sulla rivista Health Psychology.
Viene documentato come l’impiego della “fantasia” abbia conseguenze immediate sulla qualità dei comportamenti personali in termini di “stili di vita”, con infine ricadute rilevanti sul piano della prevenzione. “Esistono forti legami tra le malattie croniche, come quelle cardiache e il diabete, e il comportamento, gli interventi basati sull'immaginario offrono un modo economico ed efficace per promuovere comportamenti positivi come l'attività fisica e un'alimentazione sana”, spiegano i ricercatori.
I vantaggi “economici” della psicologia, e in particolare i benefici di risparmio e di salute di un miglioramento della condizione psicologica della persona, costituiscono oramai una letteratura consolidata, anche in Italia. “Studi precedenti hanno mostrato come interventi finalizzati a stimolare l’immaginazione fossero utili a stimolare le performance degli atleti, dei piloti e dei pazienti al seguito di un ricovero, ora si dimostra come essi stimolino inoltre comportamenti utili alla salute personale”, rivendicano dall’Australia. Chi è stimolato all’uso dell’immaginazione infine mangia meglio, fuma e beve meno, ed è più orientato all’attività sportiva.
Attenzione pero: serve anche la volontà personale di procedere in questa direzione. Un altro studio, compiuto dall’Università americana di Stanford su centinaia di partecipanti, ha documentato come i percorsi di “apertura” a interessi diversi dal proprio quotidiano costituiscano una variabile essenziale per la capacità di sviluppare collegamenti e connessioni.
È qui che entrano in gioco gli stili di vita, con un particolare riferimento alla proliferazione dei nuovi strumenti digitali, a partire da smartphone e tablet. Le utilità sono note, un po’ meno l’enormità dei rischi, soprattutto (ma non solo) per lo sviluppo dei più piccoli. Uno studio del Boston College ha dimostrato come i bambini, esposti a tali dispositivi, abbiano già smarrito l’85% dei livelli di creatività raggiunti dalle generazioni precedenti. Ė allora essenziale mettere dei paletti seri sul loro impiego, a tutela dello sviluppo cerebrale dei più giovani nonché, all’evidenza, della loro capacità di tutelare nel tempo la propria salute psico-fisica.
Si dice gran caldo e si pensa subito a ventilatori e condizionatori. Il contrasto alle alte temperature -con i loro effetti debilitanti e, specie per i soggetti a rischio, pericolosi - si gioca però anche a tavola. Non sempre i consigli che proliferano in questi giorni sulla stampa divulgativa sono davvero precisi e pertinenti, ma l'alta attenzione a una dieta corretta rimane una reale priorità, soprattutto nel pieno della stagione estiva.
Cruciale è anzitutto l'ambito dell'idratazione, che si alimenta non solo bevendo molta acqua, ma anche scegliendo cibi freschi come frutta e verdura. “Sono ricchissime d'acqua e permettono così una reidratazione più veloce del nostro corpo”, ricorda a Repubblica Loreto Nemi, nutrizionista all'Università Cattolica di Roma, che specularmente suggerisce la rinuncia agli alimenti di difficile digestione, quali “fritture e cibi molto elaborati e cotti come arrosti, spezzatini, bolliti o timballi”. Cuocere troppo tende ad appesantire, e anche a cancellare alcuni nutrienti essenziali. I peperoni, ad esempio, sono ricchi di vitamina C, la quale, nota il dietista, “è una vitamina idrosolubile che si perde durante la cottura”.
L'elenco di ciò che andrebbe “messo al bando”, o quantomeno limitato ai minimi, è del resto ben più lungo. Vanno evitati gli alcolici (che tra l'altro tendono a innalzare la temperatura del corpo e a favorire la disidratazione), i cibi precotti, che con l'afa sono più esposti a eventuali contaminazioni batteriche, l'eccesso di sale e di zuccheri, e anche l'acqua ghiacciata, che può innescare congestioni. Sono rischi da tenere in seria considerazione, in quanto il corpo è sotto stress, e lo è soprattutto nei giorni di repentino balzo delle temperature.
Non è tuttavia solo una questione di rinunce, la lista dei cibi suggeriti offre un’ampia scelta. “L’ideale è una tartare di pesce crudo per fare incetta di Omega 3 e proteine”, suggerisce Nemi. O ancora, un bel piatto di spaghetti con le zucchine, in quanto “ricche di potassio, acqua, acido folico, clorofilla e sali minerali”.
Prioritario è un alto consumo di vitamine, presenti soprattutto, per l'appunto, nella frutta e nella verdura fresca. Tra i mille benefici, Coldiretti ricorda anche quello dell'abbronzatura. In particolare, “i cibi ricchi in vitamina A favoriscono la produzione nell’epidermide del pigmento melanina che protegge dalle scottature e dona il classico colore scuro alla pelle”. L'organizzazione dei coltivatori stila anche una “classifica” tra gli alimenti che ne sono più ricchi. A primeggiare, nettamente, è la carota, seguita nell'ordine da spinaci e radicchio, poi albicocche, cicoria, lattuga, melone giallo, sedano, peperoni, pomodori, pesche gialle, cocomeri, fragole e ciliege.
“Ė una di quelle scoperte che aprono nuove frontiere nella medicina”, proclama La Stampa. E in effetti quel che è emerso da uno studio sviluppato dall’ospedale Molinette della città della salute di Torino (Dipartimento di Neuroscienze, diretto dal professor Riccardo Soffietti) insieme a un gruppo di studiosi di Madrid, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, sembra suggerire il potenziale di una decisa correzione di rotta nella ricerca oncologica, ben al di là dell’ambito specifico trattato.
L’obiettivo dello studio era quello di comprendere i meccanismi di crescita delle metastasi cerebrali, complicanza sempre più frequente dei tumori “solidi”, quali quello al polmone o alla mammella, difficilmente contenibile fino ad oggi con la semplice terapia farmacologica. “Sono stati studiati circa cento campioni di metastasi provenienti da interventi neurochirurgici”, spiega Soffietti.
L'esito, che sposta i paradigmi della ricerca materia, è che la crescita è risultata facilitata da un fattore molecolare presente non tanto nelle cellule tumorali quanto in quelle sane del cervello, finora ritenute, viceversa, una potenziale barriera difensiva alla metastasi stessa.
“Abbiamo dimostrato per la prima volta che i pazienti con espressione di Stat3 sugli astrociti reattivi hanno una sopravvivenza molto più breve – spiega Soffietti. – ovvero che questi specifici astrociti reattivi, quando esprimono l’antigene Stat3 esercitano 'un’attarzione fatale' sulle cellule tumorali, facilitando il loro ingresso nel cervello”.
Si apre pertanto, grazie alla ricerca italiana, un nuovo orizzonte farmacologico. L'obiettivo è ora quello di verificare, tramite studi clinici, la possibilità di bloccare l'azione della molecola identificata con specifici principi attivi.