La Commissione Europea ha pubblicato il documento ‘A Single Market Strategy for Europe - Analysis and Evidence’, che comprende la proposta di concedere a tutta l'industria farmaceutica europea di farmaci generici la possibilità di produrre medicinali ancora protetti dal certificato di protezione complementare purché destinati all’esportazione in paesi in cui il brevetto non esiste o è già scaduto o per lo stoccaggio su scala industriale destinato all'immissione in commercio alla scadenza del brevetto.
A oggi le case europee, a cominciare da quelle italiane che vogliono sviluppare l'export, sono costrette ad affidare la produzione a impianti collocati fuori dall’UE, con le conseguenze immaginabili sul piano occupazionale e sul PIL dei paesi dell’Unione. «Implementare la strategia della Commissione Europea è una misura che potrebbe rilanciare la domanda, aumentare l’occupazione qualificata e rendere sostenibile nel tempo la produzione farmaceutica di tutta Europa, e che non richiede né sovvenzioni né sconti fiscali» ha dichiarato Enrique Häusermann, presidente di AssoGenerici. «Mi sembra necessario che l’Italia usi il suo peso all’interno dell’Unione Europea perché questo nuovo schema venga adottato, non soltanto limitatamente a questo aspetto, ma anche per tutta la tematica dei brevetti. Riuscire ad avere una regolazione a livello sovranazionale darebbe certezze a tutto il comparto del farmaco».
Per Adrian van den Hoven, direttore generale dell’European Generic medicines Association, «l’industria europea del farmaco equivalente e del biosimilare potrebbe trovarsi nelle condizioni di creare molti posti di lavoro in più e di aumentare l’accesso dei pazienti a medicinali di alta qualità. Ma perché questo si realizzi l’UE deve adottare rapidamente la strategia delineata nel documento della Commissione». Senza trascurare, conclude Häusermann, «che poter contare su una produzione più basata localmente permetterebbe ai generici di entrare rapidamente in commercio anche nei paesi UE alla scadenza del brevetto, con un ulteriore risparmio per i servizi sanitari che la stessa Commissione ha stimato nel 20% circa della spesa attuale».
Sono due uomini e una donna i vincitori del Nobel per la Medicina 2015: l’irlandese William C. Campbell, il giapponese Satoshi Omura e la cinese Youyou Tu. I primi due sono stati premiati per le loro ricerche contro i nematodi, parassiti responsabili di diverse infezioni, la dottoressa Tu per aver scoperto nel 1972 una nuova terapia contro la malaria, l’artemisinina, oggi l’antimalarico più usato al mondo. La scienziata cinese è la dodicesima donna a ricevere il Nobel per la Medicina: la prima è stata Gerty Cori nel 1947. I candidati al Nobel per la Medicina (tradizionalmente il primo dei premi assegnati ogni anno) erano 327, di cui 57 nominati per la prima volta. L’ammontare del premio è di 8 milioni di corone svedesi, ovvero 855mila euro, da dividere fra i tre scienziati.
"Accetto umilmente il premio, è un giorno molto felice" sono state le prime parole di Satoshi Omura. "Ci sono molti ricercatori che hanno ottenuto moltissimi risultati. Il mio lavoro non è stato condotto pensando che avrei vinto un Nobel – ha aggiunto - ma sono stato fortunato. E sono molto contento che quello in cui ho creduto si sia rivelato corretto", afferma. Omura ha ricordato un aneddoto riguardo all’origine degli studi che gli sono valsi il massimo riconoscimento scientifico: teatro della sua scoperta è stato «un campo da golf sul mare, fra erba, sabbia e legno», dove il ricercatore ha trovato il microrganismo che è alla base del farmaco rivelatosi in grado di ridurre l’incidenza delle due gravi parassitosi.
Il Nobel assegnato è un premio alla lotta contro le malattie della povertà, che colpiscono centinaia di milioni di persone ogni anno. Le ricerche sulle infezioni provocate da parassiti condotte da Campbell e Omura hanno infatti permesso di mettere a punto nuove armi contro malattie (come la cecità fluviale e la filariasi linfatica) che affliggono un terzo della popolazione mondiale, concentrata in Africa sub-sahariana, Sud Asia e Centro-Sud America. La cinese Tu ha dato un enorme contributo alla lotta contro la malaria. “Quest’anno i premi Nobel sono andati a personalità che hanno sviluppato terapie che hanno rivoluzionato la cura di alcune delle malattie parassitarie più devastanti”, si legge in una nota del Karolinska Institutet di Stoccolma, che assegna i riconoscimenti. “Due scoperte - rileva il comitato dei Nobel - che hanno fornito all’umanità nuove armi per combattere malattie debilitanti: le conseguenze in termini di miglioramento della salute umana e di riduzione della sofferenza sono «incommensurabili». Dopo decenni di progressi limitati nello sviluppo di terapie efficaci contro malattie come la cecità fluviale, la filariasi linfatica e la malaria, le scoperte degli scienziati insigniti del premio Nobel 2015 hanno cambiato radicalmente la situazione”.
I farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) hanno dimostrato di inibire l'ovulazione e ridurre i livelli di progesterone nelle donne giovani e questo potrebbe ridurre la fertilità. Sono le conclusioni di una recente ricerca presentata al congresso dei reumatologi europei (Eular).
"I FANS, che sono ampiamente usati e possono essere acquistati senza prescrizione medica, impediscono la maturazione del follicolo ovarico provocando il mancato rilascio dell'ovulo nelle donne che li stanno assumendo", ha spiegato Sami Salman, dell'Università di Baghdad. Anche se "questo processo è reversibile, i medici devono consigliare alle donne di interrompere l'assunzione di questi farmaci, se vogliono essere fertili", ha dichiarato l'esperto a Medscape Medical News.
Salman e colleghi hanno valutato 39 donne in età fertile seguite in una clinica reumatologica perché affette da mal di schiena. Le donne sono state assegnate a uno dei quattro regimi di trattamento: diclofenac 100 mg/die, naprossene 500 mg due volte al giorno, etoricoxib 90 mg/die, o placebo. Prima di iniziare il trattamento, ogni donna ha fatto un'ecografia per valutare il diametro del follicolo dominante, le dimensioni dell'ovaio, e lo spessore endometriale. Nel corso della ricerca sono stati misurati anche i livelli di progesterone, che si abbassano a causa dei FANS, poiché è essenziale per l'ovulazione e l'impianto di un embrione fecondato.
“I trattamenti sono stati avviati il decimo giorno del ciclo della donna al fine di garantire che vi fosse un follicolo in via di maturazione” - ha chiarito Salman. Dopo 10 giorni consecutivi di trattamento, le donne sono state sottoposte un'altra ecografia per valutare l'effetto della terapia. "Per quelle che assumevano diclofenac, l'ovulazione è stata ridotta di un sorprendente 93%, mentre per entrambi naprossene e etoricoxib, l'ovulazione è stata ridotta di circa il 75%" - ha chiarito lo scienziato.
Dopo 10 giorni di utilizzo continuo dei FANS, c'è stata una significativa diminuzione del progesterone. I ricercatori sono stati in grado di convincere circa la metà delle donne a tornare il mese successivo per la valutazione dell'ovulazione.
Dopo l'interruzione dei FANS, tutte le donne "hanno ovulato normalmente durante il ciclo successivo", ha riferito il ricercatore. "Questo ci ha convinto che gli effetti anovulatori dei FANS sono reversibili. Tuttavia, questi risultati evidenziano gli effetti che i FANS possono avere sulla fertilità, e – ha aggiunto - potrebbero anche aprire la porta per la ricerca sulla nuova contraccezione d'emergenza con un profilo di sicurezza più favorevole di quella attualmente in uso".
"I farmaci contro la disfunzione erettile acquistati al mercato clandestino non hanno effetti, perché spesso non contengono neanche una percentuale minima del principio attivo e portano effetti collaterali non controllati". Questo l'allarme lanciato da Paolo Verze, responsabile scientifico del Simposio "Keeping men healthy", tenutosi a Napoli.
A margine del convegno, organizzato dalla Fondazione Menarini, Verze ha commentato i dati dell'Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) secondo cui cresce in Italia il mercato dei farmaci illegali, che vede in testa proprio le "pillole dell'amore". "Nel mercato della terapia erettile - spiega Verze - c'è sempre stato il problema dell'autoprescrizione, anche perché molti uomini vivono in modo ludico questi prodotti. A questo si è aggiunto un mercato illegale di contrabbando, come testimoniano i dati di molte polizie europee che spiegano come il traffico clandestino che prima era solo di sostanze stupefacenti o sigarette è stato in buona parte sostituito da quello dei farmaci per la disfunzione erettile. Chi li acquista - conclude Verze - lo fa per un risparmio economico e per by-passare l'acquisto in farmacia che crea un imbarazzo o addirittura un blocco psicologico per l'uomo. Ma acquistarli al mercato nero o online è un rischio molto forte".
La disfunzione erettile comunque non deve essere sottovalutata, anche perché potrebbe essere spia di una malattia cardiaca.
"Già nel 2003 uno studio condotto al San Raffaele dimostrò che circa il 70 per cento dei pazienti maschi giunti in pronto soccorso per un infarto cardiaco soffrivano di disfunzione erettile e che nella maggior parte di questi casi i problemi di difficoltà nell’erezione erano insorti mediamente tre anni prima dei sintomi cardiaci”, spiega il professor Francesco Montorsi, primario dell’Unità di Urologia e Direttore Scientifico dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. "In tutti i pazienti che oggi lamentano difficoltà nell’ottenere o mantenere l’erezione e che abbiano uno o più dei seguenti fattori di rischio associati (età superiore ai 50 anni, diabete mellito, fumo, ipertensione arteriosa) – aggiunge Montorsi - si raccomanda di eseguire la visita specialistica cardiologica con elettrocardiogramma sotto sforzo”.
Uno stile di vita sano e corretto è fondamentale per la nostra salute. E questo è ancora più vero soprattutto nelle fasi della vita più delicate, come la gravidanza. A questo tema il Ministero della Salute ha voluto dedicare un doppio appuntamento, nello Spazio Donna di Padiglione Italia a Expo: il primo per affrontare il tema della sicurezza nutrizionale, il secondo per approfondire il tema del diabete durante la gestazione.
"In gravidanza - ha spiegato Alberto Mantovani, esperto dell'Istituto Superiore di Sanità - l'alimentazione deve essere equilibrata, ricca di vitamine e minerali essenziali. In particolare, quando si programma la gravidanza e nei primi 3 mesi la supplementazione con acido folico, che è una delle varie vitamine B, è importante per prevenire alcune gravi malformazioni, soprattutto del sistema nervoso. Ed è ancora più efficace se integrata da una dieta varia, ricca di verdura e frutta contenenti folati". Seguire la dieta mediterranea, sottolinea il Ministero, riduce la frequenza di bimbi nati con la spina bifida, con malformazioni congenite del cuore, del labbro e del palato. Inoltre, una corretta alimentazione, si legge, "aiuta a portare avanti la gravidanza nei migliori dei modi riducendo il rischio di parto pretermine e diabete gestazionale".
Proprio il diabete in gravidanza è una patologia in crescita, a causa della sedentarietà delle gestanti, di scorrette abitudini alimentari o per l'innalzamento dell'età media delle donne incinte. I responsabili di Diabetologia dell'Ospedale Niguarda di Milano, della Società Italiana di Medicina Generale e dell'Ospedale di Vimercate hanno allora illustrato come "una corretta alimentazione è condizione indispensabile a garantire un buon esito della gravidanza, attraverso un adeguato incremento del peso corporeo e una buona condizione nutrizionale. Tutti strumenti necessari per soddisfare le richieste energetiche materne e fornire al feto i nutrienti indispensabili per il suo sviluppo".
In gravidanza è quindi consigliata un'alimentazione varia ed equilibrata, che includa ogni giorno i diversi gruppi di alimenti: “almeno 5 porzioni di frutta e verdura - concludono gli esperti - farinacei come pasta, pane, riso, patate, proteine derivate da carne, pesce, legumi, abbondanza di fibre derivate da pane integrale, frutta e verdura, prodotti caseari come latte, formaggi, yogurt".
Il crepacuore, che colpisce 9 volte su 10 le donne, esiste, ha un nome e uccide come l'infarto. Ricercatori dell'Istituto di Cardiologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore - Policlinico A. Gemelli di Roma hanno scoperto che la questo misterioso attacco di cuore, noto come sindrome di Takotsubo (oppure cardiomiopatia da stress), non è purtroppo benigna come ritenuto finora, ma può arrivare a tassi di mortalità simili a quelli dei pazienti ricoverati in ospedale per infarto (5%). La scoperta è frutto di uno studio appena pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine che arriva la vigilia della giornata mondiale per il cuore.
Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale e per l'Italia ha coinvolto un gruppo di ricercatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore guidato dal professor Filippo Crea, direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, e dalla dottoressa Leda Galiuto, professore presso lo stesso Dipartimento. Fra le università e i centri internazionali coinvolti nello studio la Mayo Clinic di Rochester, l'Università di Zurigo e l'Oxford University.
La sindrome si manifesta come un infarto, con sintomi quali dolore al petto o affanno improvviso, si associa ad alterazioni dell'elettrocardiogramma, ma al momento della coronarografia d'urgenza, eseguita nel sospetto di infarto miocardico, le coronarie risultano sorprendentemente normali, senza stenosi (restringimento). Il cuore, però, mostra una alterazione della forma, che diventa a palloncino, a simulare appunto il vaso (tsubo) che usano i giapponesi per raccogliere i polipi (tako). La terapia di questa strana sindrome si basa sull’impiego di farmaci prevalentemente attivi contro lo scompenso cardiaco, che sono tutti disponibili anche come farmaci equivalenti
Febbricola, naso che cola, mal di gola, spossatezza. Circa 60 mila italiani alla settimana fanno i conti con i malanni autunnali, colpiti da virus 'cugini’ dell'influenza. A favorire queste infezioni gli sbalzi climatici marcati di questo periodo, spiega Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università di Milano, sottolineando che l'influenza vera e propria è ancora lontana e "dovrebbe arrivare per Natale".
"Siamo ancora in attesa di sapere come è andata l'epidemia nell'emisfero australe - aggiunge - ma ci aspettiamo una stagione media, con 4-5 milioni di casi. Il virus influenzale è ancora quello dello scorso anno H1N1. C'è poi una mutazione svizzera H3N2 e una variante di tipo B che arriva dalla Thailandia. Non ci sarà molta differenza rispetto alla stagione passata. Ma il clima sarà cruciale: se sarà rigido i casi potranno essere di più".
Intanto in occasione della campagna di informazione "l'Influenza che verrà #previenila", lanciata e promossa da Moige (Movimento Italiano Genitori Onlus), Amiot (Associazione Medica Italiana Di Omotossicologia) e Sipps (Società Italiana Di Pediatria Preventiva E Sociale), gli esperti ricordano le sette regole d’oro per prevenire l’influenza: lavare spesso le mani con acqua e sapone; riparare bocca e naso quando si tossisce o starnutisce e non toccare occhi, naso e bocca; evitare il fumo attivo e passivo; seguire sempre uno stile alimentare sano che preveda cibi ricchi di vitamina C; rimanere a casa quando si manifestano i primi sintomi dell'influenza ed evitare luoghi affollati quando i casi di malattia sono molto numerosi. Infine, vaccinarsi: il medico di famiglia e il pediatra sono le persone più indicate a cui rivolgersi.
Tra gli strumenti un sito (www.previenila.it), un numero verde già attivo (800385014) per informazioni e materiale informativo distribuito nelle farmacie e negli studi medici. "Insieme al mondo medico - aggiunge poi Maria Rita Munizzi, presidente nazionale Moige - sarà creato anche un Osservatorio Influenza per informarci sui periodi di picco influenzale". L'Osservatorio sarà guidato da Fabrizio Pregliasco. "Nella prevenzione dell'influenza la vaccinazione è la strategia raccomandata, insieme alle buone norme igieniche”, ribadisce l’esperto.
Una maglietta hi-tech per sconfiggere la depressione. Si chiama Nevermind ed è un progetto finanziato con cinque milioni di euro dalla Commissione Ue. Il dispositivo, frutto della collaborazione tra Università di Pisa, Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana (AOUP) e centro di ricerca Enrico Piaggio, è in grado di monitorare i segnali fisiologici dell'organismo associati all'insorgenza della depressione e di utilizzarli per il trattamento di pazienti con malattia psicosomatica.
La T-shirt “anti-depressiva” studierà gli effetti della mindfulness, una tecnica basata sulla meditazione orientale affermatasi nel trattamento della depressione all'interno delle terapie cognitivo-comportamentali più moderne.
"La depressione - spiega Pietro Pietrini, dell'Unità operativa di Psicologia clinica dell'AOUP - si accompagna a una moltitudine di cambiamenti nei parametri fisiologici che, per quanto talvolta possano anche non essere percepiti dal paziente, sono misurabili e rappresentano uno strumento efficace per seguire il decorso della malattia e gli effetti della terapia attraverso il linguaggio del corpo".
Il progetto Nevermind, sottolinea lo psicologo clinico Claudio Gentili, consentirà di "studiare pazienti nefropatici a Pisa, oncologici a Torino, cardiopatici e amputati in Portogallo e i comportamenti e la prevenzione del suicidio in Svezia. In questo modo - aggiunge - potremmo avere un'ampia gamma di pazienti diversi e tentare di definire le basi psicofisiologiche comuni e condivise delle reazioni psicologiche depressive, indipendentemente dal tipo di patologia in cui si verificano".
Il “male oscuro”, come è stata definita la depressione, rappresenta una delle patologie psichiatriche più diffuse e in crescita. La scoperta che nelle persone depresse esiste una minore presenza di alcune molecole utilizzate dalle cellule del cervello per “dialogare”, in particolare la serotonina e la noradrenalina, ha permesso di sintetizzare farmaci, disponibili come equivalenti, che, aumentando i livelli di queste molecole, permettono, insieme alle terapie psicoanalitiche, di ritornare a una vita piena e positiva.
Il consumo di sale cambia da regione a regione in Italia. E con esso anche l’impatto che ha sulla salute cardiaca delle persone. È questo il risultato di una ricerca pubblicata sulla rivista di settore British Journal of Medicine. Che ci indica come ad influire sulla nostra salute, anche se non viene adeguatamente percepito, concorrano anche le differenze economiche e sociali.
L’Italia in questo caso sembra quasi divisa in due: il Nord ed il Centro da una parte ed il Meridione dall’altra, in base alla scolarizzazione ed alla ricchezza. Ed è quest’ultimo a far registrare un consumo di sale molto più alto con le relative conseguenze. Questo minerale, se utilizzato in eccesso, può causare ritenzione idrica e tutta una serie di disturbi tra i quali pressione alta e scompensi elettrolitici.
I dati sono stati raccolti nell’ambito del Programma MINISAL-GIRCS e dimostrano come nelle regioni del Sud il consumo di sale sia pari a 11 grammi circa a persona rispetto ai valori del resto di Italia, inferiori ai 10 grammi. Questo comportamento alimentare ha forti ripercussioni sulla salute, mettendo come già anticipato le malattie cardiache in prima linea: “Questo studio ci fornisce indicatori importanti per la costruzione di strategie mirate di informazione e prevenzione delle malattie cardiovascolari e va nella direzione auspicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che indica proprio nella riduzione del consumo di sale alimentare uno degli obiettivi prioritari di queste strategie”, commenta Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
A differente consumo di sale corrispondono incidenze diverse di ipertensione e rischi cardiovascolari. Analizzando il rapporto sodio-potassio nel campione studiato, composto da 3857 donne e uomini di età compresa tra i 39 ed i 79 anni, è stato possibile verificare come ad alti valori di sodio corrispondessero bassi valori di potassio, una situazione non ideale a livello cardiovascolare. Come risolvere il problema? Consumando meno sale e mangiando più frutta. Nei casi tuttavia in cui la pressione troppo alta del sangue non diminuisca dopo adozione di uno stile di vita idoneo, è necessario avviare una terapia farmacologica con preparati oggi disponibili come farmaci equivalenti efficaci e accessibili a tutti.
Ogni 3 secondi, nel mondo, una persona si ammala di demenza, e l'Alzheimer è la forma più comune perché rappresenta il 60% di tutti i casi. A livello planetario i casi sono oltre 46 milioni, una situazione che andrà a peggiorare nei prossimi anni, visto che le stime ne prevedono 74,7 milioni nel 2030 e 131,5 milioni nel 2050.
Nel nostro Paese le persone con demenza saranno ben 1.609.000 nel 2030 e 2.272.000 nel 2050. Oggi nel nostro paese si contano un milione e 240 mila malati, come rivelano i dati del Rapporto mondiale Alzheimer 2015. "Considerando l’anno in corso, i nuovi casi sono 269.000 e i costi ammontano a 37,6 miliardi di euro - spiega Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia. Alla luce di queste numeriche, chiediamo al governo di mettere in atto il Piano nazionale demenze, assegnandogli i finanziamenti adeguati per supportare concretamente i malati e le loro famiglie".
L'Alzheimer è un processo degenerativo che colpisce le cellule cerebrali, provocando il declino progressivo delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità. Eppure molto può essere fatto, anche grazie alle tecnologie, per aiutare le famiglie di chi ha perso la memoria a causa di questa patologia. In occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer, celebrata il 16 settembre, al Ministero dell'Interno è stato sottoscritto un protocollo di intesa tra il dicastero, il Commissario Straordinario del Governo per le persone scomparse Vittorio Piscitelli e i Ministeri della Salute e del Lavoro. Lo scopo è quello di potenziare gli strumenti per ritrovare le persone scomparse affette da gravi patologie neurodegenerative, mediante l'uso di sistemi di geolocalizzazione, in collaborazione con le sale operative delle Forze dell'Ordine. Concretamente, il progetto si fonda su un dispositivo elettronico, che dovrebbe costare tra i 100 e i 150 euro, in grado di avvertire la centrale di controllo nel momento in cui un malato si allontana dal perimetro definito con i familiari o con chi lo ha in cura. Se i primi tentativi di rintracciarlo dovessero fallire, il centro di monitoraggio un alert alle forze di polizia. Il progetto risponde a un'emergenza sociale, perché spesso la malattia porta i malati ad allontanarsi dal proprio domicilio con il rischio di perdersi e di mettere a repentaglio la propria vita. I malati potranno essere dotati, nelle fasi iniziali della patologia, del dispositivo da portare al collo o alla cintura che consente di rintracciarli attraverso l'allarme generato dal sistema di controllo.
La tecnologia dunque in aiuto dei malati, ma anche dei medici che devono diagnosticare precocemente la malattia. "La ricerca ha fatto importanti passi avanti - spiega Vincenzo Di Lazzaro, direttore dell'Unità operativa di Neurologia del Campus Bio-Medico di Roma - grazie soprattutto all’analisi di sostanze presenti nel liquido cefalorachidiano, di marcatori genetici, di tecniche avanzate di risonanza magnetica e di esami come la PET con cui si può studiare il metabolismo cerebrale".
Nuove tecniche d'indagine neurofisiologica consentono inoltre di studiare la funzione di particolari gruppi di cellule all'interno del cervello umano in maniera non invasiva, registrando gli effetti prodotti dalla stimolazione di specifiche aree cerebrali mediante campi magnetici. "Nel nostro istituto - aggiunge Di Lazzaro - è in corso un progetto di ricerca il cui obiettivo è riuscire a diagnosticare precocemente e con bassi costi la malattia. Alcuni protocolli d'indagine consentono di misurare l'attività di particolari cellule cerebrali, la cui funzione è compromessa in maniera specifica nell'Alzheimer rispetto ad altre forme di demenza". Tutto ciò nella speranza di trovare cure efficaci che possano affiancarsi alle terapie farmacologiche. Ma nel frattempo è indispensabile garantire un aiuto ai malati di Alzheimer e a chi si prende cura di loro. Secondo Patrizia Spadin, presidente dell'Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA) “Le celebrazioni, come la Giornata Mondiale, sono inefficaci, servono i fatti. Venti o trenta anni fa era fondamentale, per far conoscere il problema, denunciare i numeri della prevalenza e dell'incidenza, descrivere la patologia. Ma oggi no. I problemi sono altri: il taglio previsto di 3 miliardi e mezzo in sanità, l’insufficiente finanziamento di 400 milioni al Fondo nazionale per la non autosufficienza, il mancato adeguamento dei Lea, l'Isee che considera fonte di reddito la pensione di invalidità e l'indennità di accompagnamento, i tagli locali ai servizi territoriali".
Si stima che in Italia siano ben 12 milioni le persone che soffrono di insonnia. Ma potrebbe essere un dato sottostimato. Nonostante questo, spesso il problema viene liquidato come se fosse un qualcosa di passeggero. Eppure, in molti casi il disturbo si rivela cronico. Secondo un recentissimo studio americano condotto da ricercatori della Virginia Commonwealth University di Richmond su coppie di gemelli, dietro l’insonnia cronica ci sarebbe lo zampino della genetica. Il problema si trasmetterebbe di generazione in generazione, soprattutto dalle mamme. Il gruppo di ricerca ha analizzato i dati di circa 7.500 partecipanti allo studio. L’ereditabilità del problema è risultata del 59% per le donne e del 38% per gli uomini. “Questo studio indica che i geni possono svolgere un ruolo più importante nello sviluppo dei sintomi di insonnia per le donne che per gli uomini”, ha detto l’autore Mackenzie Lind. “L’evidenza delle differenze di sesso – ha aggiunto – può essere utile per indirizzare specificamente le donne ad interventi per migliorare il sonno”.
D’altronde sono sempre più numerose le evidenze scientifiche che dimostrano quanto la mancanza di sonno faccia male alla nostra salute. Ad esempio, un recente studio pubblicato sulla rivista Hypertension ha suggerito che chi soffre d’insonnia cronica avrebbe fino al 400% di probabilità in più di sviluppare l’ipertensione. Altri studi recenti hanno evidenziato come l’insonnia sia il più rilevante sintomo che anticipa la comparsa, della depressione. Un alterato equilibrio sonno-veglia, infatti, causa nervosismo, stress ed eccessiva tensione.
Inoltre, la letteratura scientifica è ricca di studi che hanno collegato l’insonnia a un rischio maggiore di sviluppare demenza con il tempo, di avere le difese immunitarie più basse, di sviluppare disturbi alla vista, di essere in sovrappeso.
“Il sonno è qualcosa a cui non possiamo assolutamente rinunciare, anche se molti vorrebbero”, dice Liborio Parrino del Centro del Sonno dell’Università di Parma e segretario nazionale dell’Aims (Associazione Italiana Medicina del Sonno).
La buona notizia è che esistono diversi rimedi. “Una lista di cose che non bisogna fare prima di andare a letto”, precisa Parrino. “Se ci pensiamo bene, infatti, non abbiamo alcun bisogno di imparare a dormire – continua - perché già nella pancia della mamma siamo bravissimi a farlo. Basterebbe infatti solo non ostacolare il sonno con abitudini e comportamenti oggi molto diffusi, ma nemici del sonno”. Per fare pace con il sonno bisogna cominciare a stare attenti a cosa si mette in tavola a cena. “Sono sconsigliati i piatti pesanti, come salsicce e bistecche”, spiega l’esperto. “Il rischio è di sovraccaricare il metabolismo di sera”, aggiunge. Meglio quindi consumare carboidrati, come la pasta, il riso, l’orzo e il pane. O latte e latticini che contengono L-triptofano, un aminoacido che stimola la sintesi della serotonina, il neurotrasmettitore cerebrale che favorisce il rilassamento dell’organismo. “Una tazza di latte con cereali e biscotti sono un ottimo viatico per il riposo”, spiega Parrino.
Mangiare leggero non significa lasciare la pancia vuota. “Se non si mangia, mentre dormiamo il cervello ci sveglia e fa scattare la fame che impedisce un buon sonno”, spiega Parrino. Che aggiunge: “Attenzione all’alcol. Anche se è vero che l’alcol è un sedativo e fa venire sonno, è altrettanto vero che dopo 4 ore di lavoro per il fegato l’alcol scompare dal sangue e causa delle mini-crisi d’astinenza che disturbano il sonno”. L’esperto, inoltre, invita a evitare caffeina, cola, tè ed energy drink. Lo stesso dicasi per le sigarette. Il fumo non rilassa: in realtà, accade qualcosa di simile a quello che succede con gli alcolici. “La nicotina ha un’emivita breve e può creare delle microcrisi di astinenza nel pieno del sonno”, dice Parrino.
Niente tv, poi, a letto. “In generale, guardare la tv a letto disturba il sonno”, dice l’esperto. “La luce del televisore “uccide” la melatonina, l’ormone amico del sonno, e di conseguenza disturba il sonno”, aggiunge. L’idea è quella di considerare il letto il luogo in cui si dorme. Quindi, meglio guardare la tv sul divano. E lo stesso avviene con smartphone, tablet e pc.
Ok alle letture, ma occhio alla luce. Un buon libro prima di addormentarsi va bene. “Purché in condizioni luminose protette”, sottolinea l’esperto. “È consigliabile non usare lampade che emettono luce blu e che, notoriamente, disturbano il sonno”, aggiunge. Infine fare esercizio fisico fa bene alla salute. “Ma fare attività poco prima di mettersi a letto può creare difficoltà ad addormentarsi per via dell’adrenalina che il movimento fisico libera nell’organismo”, conclude l’esperto. Insomma basta poco per facilitare il sonno. Nei casi in cui nonostante tutti gli accorgimenti ciò non avviene possono essere utili dei farmaci (anche generici) che possono aiutare a risolvere il problema, sempre dietro consiglio del medico.
La carenza di vitamina D può influenzare la comparsa della sclerosi multipla, la malattia degenerativa autoimmune che provoca lesioni al sistema nervoso centrale e rappresenta il disturbo neurologico più comune tra i giovani adulti.
Il legame tra bassi livelli nel sangue del micronutriente e la malattia neurologica era stato segnalato da diversi studi e da osservazioni epidemiologiche che hanno diagnosticato una maggiore prevalenza del disturbo nei paesi nordici, dove è minore l’irraggiamento solare. Ora, uno specifico studio ha individuato un nesso di causalità diretta.
I ricercatori canadesi della McGill University hanno analizzato il livello di vitamina D in 14.498 pazienti malati di sclerosi multipla e le informazioni relative a 24.901 controlli medici. Secondo i dati raccolti, una carenza genetica di vitamina D raddoppierebbe il rischio di ammalarsi di sclerosi multipla. Aumentando il livello di questa vitamina nei pazienti è quindi possibile ridurre le probabilità dell'insorgere della malattia.
“Il link che c'è tra la carenza di vitamina D e il rischio di sviluppare la sclerosi multipla è sempre stata un'importante area di interesse per la comunità scientifica che si occupa di questa malattia”, spiega la Dottoressa Karen Lee. “Certo il basso livello di vitamina D non è da considerarsi l'unico fattore di rischio – sottolinea Lauren Mokry, autrice dello studio – ma averlo identificato potrebbe avere un impatto significativo per la prevenzione di questa terribile malattia”.
Anche secondo uno studio condotto dai ricercatori della Harvard School of Public Health (HSPH) e coordinato dal professor Alberto Ascherio, la vitamina D potrebbe rallentare la progressione e ridurre la gravità della malattia.
Il team di studiosi è riuscito a evidenziare come i pazienti in una fase iniziale della malattia presentassero bassi livelli di vitamina D. Un fattore che è stato considerato indicativo della gravità ma anche della velocità di progressione della sclerosi multipla. Così, i ricercatori hanno ipotizzato che, nella fase iniziale della malattia, una più consistente assunzione di questa vitamina potesse allontanare i sintomi della patologia.
I risultati sono stati rincuoranti: i pazienti che nella fase iniziale della malattia registravano adeguati livelli di vitamina D nell’organismo, presentavano un tasso di nuove lesioni cerebrali inferiore del 57%, un tasso di recidiva della malattia inferiore del 57%, e un incremento annuo del volume delle lesioni inferiore del 25% rispetto ai partecipanti con bassi livelli di vitamina D. Per garantirsi una buona riserva di vitamina D nell'organismo è necessaria in primo luogo l'esposizione alla luce solare. I quantitativi presenti nei cibi sono piuttosto bassi, ma un cucchiaino (o una pillola) di olio di fegato di merluzzo al giorno può essere utile, soprattutto per le persone anziane. Per superare queste difficoltà esistono preparati, disponibili anche come equivalenti, capaci di fornire le quantità necessarie di vitamina D al nostro organismo.
Le persone che mangiano molto pesce hanno meno probabilità di soffrire di depressione. Lo ha scoperto uno studio della Qingdao University di Shandong (Cina), pubblicato sul Journal of Epidemiology & Community Health. I ricercatori hanno esaminato i dati di studi precedenti pubblicati fra il 2001 e il 2014 che hanno coinvolto un totale di 150.278 persone. Dai risultati è emerso che gli uomini che seguono una dieta ricca di pesce hanno il 20 per cento di probabilità in meno di essere depressi, mentre le donne il 16 per cento in meno. Questo risultato, secondo gli studiosi, sarebbe legato alla presenza nel pesce degli acidi grassi omega-3, sostanze fondamentali per migliorare la struttura delle membrane cerebrali e capaci di modificare l'attività dei neurotrasmettitori, come dopamina e serotonina, entrambi coinvolti nella depressione.
Gli omega-3 sono sostanze di estrazione naturale definite essenziali, in quanto il nostro organismo non è in grado di produrle e che, pertanto, devono essere assunte con la dieta (soprattutto pesce) o attraverso una specifica integrazione. Questo molecole, disponibili anche come farmaci equivalenti, sono note per difendere il sistema cardiovascolare da malattie e hanno già dimostrato la capacità di ridurre del 50% i casi di morte improvvisa nelle persone con malattie cardiache.
Il nuovo studio mostra un’altra e non meno importante attività degli omega-3 contro la depressione, attività potenziata anche dalle vitamine e dai minerali presenti nel pesce. "L'elevato consumo di pesce può anche essere collegato a una dieta più sana e a un migliore stato nutrizionale, tutte condizioni che potrebbero contribuire al minor rischio depressione", hanno concluso i ricercatori.
Non tutta la nevrosi viene per nuocere. Questo sembra essere il risultato cui sono arrivati alcuni scienziati che, come spiegato sulla rivista scientifica Cell, dopo aver analizzato i livelli di attivazione cerebrale dei soggetti nevrotici, hanno concluso che a questo tipo di disturbo non corrispondono solo aspetti negativi, come l'ansia, o la depressione, ma anche altri positivi, come la creatività.
In passato si era già ipotizzato che le persone tendenti a provare emozioni negative fossero in realtà più sensibili nei confronti di situazioni considerate minacciose. Deduzioni queste ottenute in seguito ad osservazioni su come i farmaci ansiolitici riducessero la sensibilità delle cavie in relazione alle punizioni subite o aiutassero i pazienti psichiatrici a sentirsi più rilassati e felici.
In un altro studio, effettuato tramite risonanza magnetica, si mostrava come nelle persone con spiccata tendenza ad avere pensieri negativi si registrasse un'elevata attivazione cerebrale nella corteccia prefrontale, associata alla percezione del pericolo. Questi diversi livelli di attività delle aree del cervello che governano i pensieri, secondo Adam Perkins, autore della pubblicazione su Cell, potrebbero rappresentare una spiegazione della nevrosi. Inoltre, secondo ricerche effettuate dal professor Dean Mobbs, della Columbia University di New York, le persone nevrotiche, in situazioni di tensione, tendono a passare rapidamente da uno stato d'ansia ad uno di panico, passaggio questo controllato dalla parte del cervello che regola e gestisce le emozioni.
Unendo i vari studi, il professor Perkins ha dedotto che le persone nevrotiche riescono a vivere esperienze negative intense non corrispondenti al reale livello di stress al quale sono sottoposte, il che sarebbe legato ad una fervida immaginazione che li porta a spingere il piede sull'acceleratore finendo per trasformare l'ansia in panico. I nevrotici potrebbero quindi essere tali a causa della loro tendenza a rimuginare più a lungo sui problemi rispetto agli altri.
Tutta la propria salute in un microchip e in un sistema “on-line” per rendere ''più semplice per i cittadini l'esercizio del diritto alla salute'': è il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ad annunciare di avere firmato il regolamento sul Fascicolo sanitario elettronico (Fse) inserito nel quadro della nuova Sanità Digitale. In sostanza un cartellino con un microchip raccoglierà tutti i dati sanitari e socio assistenziali. Collegato in rete, potrà essere letto per assistere meglio il malato o accertare i suoi bisogni e conterrà, tra le altre info, il dossier dei farmaci usati, la propria dichiarazione di eventuale disponibilità a donare gli organi, ma anche i verbali del pronto soccorso e molto altro ancora.
L'Fse è infatti l'insieme di dati e documenti digitali di tipo sanitario e socio-sanitario raccolti attraverso i controlli o i ricoveri presenti e passati ed ha come scopo principale quello di agevolare l'assistenza al paziente, offrire un servizio che può facilitare l'integrazione delle diverse competenze professionali e fornire una base informativa per migliorare tutte le attività assistenziali e di cura.
Nel rispetto delle normative per la protezione dei dati personali, il Fascicolo consentirà non solo al paziente di poter disporre facilmente di tutte le notizie sul suo stato di salute ma permetterà al medico di adottare in modo più sicuro e veloce i dati necessari per completare la diagnosi soprattutto in caso di pazienti con un quadro complesso. Il modello di Fse consentirà inoltre attraverso i resoconti, l'incrocio dei dati e la trasparenza, di evitare inefficienze e contribuirà a migliorare la programmazione, il controllo e la valutazione del sistema sanitario nel suo complesso, nel contesto italiano e europeo.
“L'istituzione del Fascicolo Sanitario Elettronico rappresenta il presupposto necessario per poter giungere ad una sintesi delle diverse istanze esistenti e promuovere la condivisione di un modello di riferimento nazionale, che coinvolge tutti gli enti e le strutture del Servizio sanitario nazionale (sia i soggetti pubblici, sia i soggetti privati accreditati) e tutti gli assistiti del Ssn'', ha spiegato il Ministro Lorenzin in una nota.
Sono ben 208 le prestazioni diagnostiche troppo spesso prescritte in modo inappropriato secondo il Ministero della Salute. Per questo si pensa adesso a un’inversione di tendenza e a un ridimensionamento della rimborsabilità. La mossa voluta dal ministro Beatrice Lorenzin, sintetizzata nel decreto sugli enti locali appena convertito dal Parlamento (che dovrà ottenere il parere positivo del Consiglio Superiore di Sanità), potrebbe avere implicazioni tanto per i medici quanto per i cittadini.
Una volta entrato in vigore, solo in alcuni casi le prestazioni incluse nell'elenco saranno a carico del servizio sanitario; se non ricorrono le condizioni elencate nel documento del Ministero, infatti, i pazienti dovranno pagare di tasca propria. Un esempio? L'esame per individuare il colesterolo alto nelle persone sopra i 40 anni: se è tutto a posto, i valori sono nella norma e non ci sono modifiche nello stile di vita del cittadino e nemmeno nuove terapie, potrà essere ripetuto a carico del servizio sanitario non prima di 5 anni. Diversamente, dovrà pagare l'interessato.
Il grosso dell'operazione riguarda probabilmente le risonanze magnetiche, cioè gli esami più spesso a rischio di inappropriatezza. Sono costosi e spesso vengono svolti (a detta degli stessi radiologi) quando non ce n'è bisogno, tanto da collocare l’Italia in cima alla classifica europea delle prescrizioni di questo accertamento. Previsioni stringenti anche per alcune tac, passate dal Sistema Sanitario Nazionale solo se giustificate da sospetti di malattie oncologiche e da traumi.
Anche per quanto riguarda i test genetici sono previsti tagli. "Si tratta di prestazioni molto onerose - si legge nella bozza - che vengono prescritte da specialisti ed eseguite una sola volta nella vita. Nel decreto saranno riservate alla diagnosi di specifiche malattie genetiche definite in un elenco a parte". Non sarà quindi più possibile prescriverle per una generica mappatura del genoma o a fini di ricerca. Le prestazioni di genetica interessate sono 53 su 180 e alla loro individuazione hanno contribuito esponenti di rilievo della Società Italiana di Genetica Umana.
Fra le voci che verranno sottoposte a controlli più rigidi anche l'allergologia. Alcuni test allergologici e le immunizzazioni (cosiddetti vaccini) dovranno essere prescritti solo a seguito di visita specialistica allergologica.
Resta sul tavolo il problema delle liste d'attesa, che secondo i più critici potrebbe allungarsi. Un punto sul quale interviene il Tribunale dei diritti del malato (TDM). "Colpisce come all'interno delle misure annunciate dal Ministero sulla inappropriatezza non venga affrontato il nodo delle liste di attesa interminabili, anche di oltre un anno - ha detto Tonino Aceti, coordinatore nazionale del TDM - Cittadinanzattiva - Questa agli occhi dei cittadini è la peggiore forma di inappropriatezza vissuta ogni giorno sulla propria pelle, insieme alla necessità di ricorre al privato o all'intramoenia per aggirare le stesse liste di attesa, o vedersi rifiutare una prescrizione dal medico per far quadrare i conti".
L’utilizzo smodato nelle ore notturne di smartphone, tablet e computer per stare sempre connessi sui social network può provocare negli adolescenti una grave insonnia con conseguenti stati depressivi e ansia. Lo testimonia una ricerca che ha analizzato il comportamento notturno e mattutino di 467 ragazzi fra gli 11 e i 17 anni, realizzata dall’Università di Glasgow, in Scozia, e presentata a una conferenza medica che si è tenuta a Londra.
“Chi effettua il log in a notte fonda pare essere particolarmente interessato dal problema”, ha detto l’autrice principale dello studio, Heather Cleland Woods. L’indagine si è basata anche sulla valutazione dei livelli di autostima dei ragazzi, particolarmente bassi in chi eccede nell’utilizzo dei ritrovati tecnologici per stare in continuazione (pure quando è a letto) nel mondo dei social network.
Ansia e depressione, ha sottolineato la ricercatrice, sarebbero legati proprio alla carenza di riposo e all’insonnia. Del resto, già nel 2011 uno studio dell’American Psychological Association aveva messo in relazione l’utilizzo smodato di social network con comportamenti tipici della schizofrenia e della depressione acuta. Ansia e depressione, tuttavia, sono malattie in crescita nel mondo degli adolescenti e non vanno trascurate anche perché chiamate direttamente in causa nei suicidi dei ragazzi.
Una terapia piscologica supportata da un uso corretto di farmaci (oggi a disposizione come generici) quando necessario rappresenta la strada maestra per curare questi disturbi. Ma “prevenire comportamenti a rischio, come quello legato all’eccessivo uso delle tecnologie della comunicazione, è un aspetto di importanza fondamentale”, conclude Cleland Woods.
Interrotto in America, con quasi due anni di anticipo, uno studio scientifico federale per l'emergere di “dati salvavita”: la ricerca chiamata “Sprint” ha scoperto quanto bassa deve essere la pressione sanguigna sistolica (cioè la massima) per ridurre significativamente i rischio di infarto, ictus e morte.
Il numero salvavita – dibattuto da decenni dagli esperti - è sotto i 120 mmHg. E' questa la cifra emersa dai test condotti da ricercatori dell'Istituto nazionale Usa per il cuore, polmoni, sangue su oltre 9.300 persone di sesso maschile e femminile e di oltre 50 anni di età.
I volontari erano stati divisi in due gruppi: uno doveva mantenere la pressione sistolica sotto i 140 mmHg, come attualmente raccomandato, l'altro sotto i 120 mmHg. I pazienti in quest'ultimo gruppo hanno evidenziato rischi di infarto, danni cardiaci e ictus più bassi di un terzo rispetto agli altri, e i loro rischi di morte sono risultati più bassi addirittura di un quarto. Lo studio dovrebbe portare ad un rapido cambiamento delle linee guida sulla pressione sanguigna.
Come in ogni medaglia, tuttavia, c'è anche l'altra faccia. Raggiungere valori di pressione del sangue inferiori, infatti, significherà ricorrere a terapie antipertensive (oggi disponibili come medicinali equivalenti) più incisive. Nello studio chi scendeva sotto i 120 mmHg prendeva in media 3 farmaci contro i 2 di chi rimaneva sotto ai 140 mmHg. il che potrebbe portare a una maggiore probabilità di effetti indesiderati. Ma i benefici superano comunque i rischi.
Secondo i ricercatori della Loughborough University basterebbero due minuti di saltelli sul posto per rinforzare l'osso iliaco, ovvero l'osso dell'anca, riducendo il rischio, nelle persone anziane, di frattura in seguito a cadute. Lo studio, intitolato “The Influence of High-Impact Exercise on Cortical and Trabecular Bone Mineral Content and 3D Distribution Across the Proximal Femur in Older Men: A Randomized Controlled Unilateral Intervention”, abbreviato in “Hip Hop Study”, e pubblicato sul Journal of Bone and Mineral Research, ha preso in analisi 34 uomini over 65 e ha chiesto loro di saltellare per due minuti al giorno, per un anno, su un'unica gamba, evitando di modificare l'attività fisica regolarmente svolta e l'alimentazione seguita fino al momento dello studio.
Trascorsi 365 giorni, le ossa dei volontari sono state analizzate ed è stato riscontrato un aumento del 7% della massa ossea e della densità dello strato di osso spugnoso. In particolare, i dati hanno mostrato un incremento delle parti di osso di solito più sottili e più a rischio frattura. I risultati, spiegano i ricercatori, hanno implicazioni sulla prevenzione e la cura dell'osteoporosi, la condizione clinica in cui lo scheletro di un paziente perde massa ossea e, di conseguenza, resistenza, ed è tipica delle persone più anziane.
I saltellamenti rafforzano l'osso e lo rendono più resistente. “Le fratture all'osso dell'anca sono una grande preoccupazione per le persone anziane. Portano forti dolori, riducono la mobilità e l'indipendenza del paziente e aumentano il rischio di morte”, spiega Sarah Allison, Loughborough University (UK) che ha coordinato la ricerca. Il tipo di esercizio studiato è accessibile a tutti, poiché non richiede uno sforzo fisico insostenibile o quantità di tempo infinite, e i vantaggi che porta dovrebbe spingere tutti a seguirlo. Nei casi di indebolimento particolarmente marcato della componente minerale dell’osso, come evidenziato dalla misura della densità minerale ossea, risultano comunque utili i farmaci che bloccano il riassorbimento dell’osso, come i bisfosfonati, disponibili anche come medicinali generici.
Da giovedì 24 settembre a martedì 29 settembre si svolgerà in Italia la Settimana dell’Ipercolesterolemia Familiare, promossa da SISA, Società Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi. Nella giornata inaugurale, il 24 settembre, si celebra in tutta Europa, su iniziativa di EAS, European Atherosclerosis Society, la Giornata Europea dedicata alla malattia.
Nel nostro Paese l’iniziativa prevede la possibilità per i cittadini di contattare o recarsi nei Centri specializzati SISA per ricevere informazioni gratuite relative alle problematiche dell’ipercolesterolemia familiare ed alla necessità di controllare i livelli del colesterolo sin da giovani. Aderiscono alla manifestazione i 38 Centri per lo studio delle dislipidemie che afferiscono al progetto LIPIGEN, network italiano delle dislipidemie genetiche (elenco completo disponibile sul sito www.sisa.it).
In particolare, a disposizione dei cittadini gli specialisti di 8 centri in Lombardia, 5 nel Lazio, 4 in Emilia Romagna, 3 in Toscana, Sicilia e Sardegna, 2 in Veneto, Campania e Puglia, 1 in Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Marche e Abruzzo. “L’iniziativa nasce con l’obiettivo di rendere consapevoli gli italiani del ruolo della componente genetica nell’ipercolesterolemia, che interessa circa 240.000 persone” spiega il professor Maurizio Averna, Presidente SISA, Responsabile Unità Operativa Semplice di Medicina Interna e Dislipidemie genetiche presso Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Paolo Giaccone di Palermo e Professore Ordinario di Medicina Interna presso l’Università degli Studi di Palermo.“
Nelle forme più gravi, infatti, valori alti spesso si manifestano già dalle prime decadi di vita: è molto importante, quindi, eseguire i controlli sin da giovani, prima dei 18 anni, specie se in presenza di ipercolesterolemia nei genitori, e ripeterli almeno ogni 5 anni. C’è poi la forma poligenica comune, in cui fattori ambientali, l’alimentazione soprattutto, agiscono in presenza di fattori genetici predisponenti aumentando i livelli di colesterolo: questa forma, per fortuna meno grave, interessa circa 1.2 milioni di italiani”. Complessivamente, quindi, sommando le due forme di ipercolesterolemia familiare, si tratta di circa 1.5 milioni di cittadini italiani interessati. Nella terapia dell’ipercolesterolemia un ruolo importante è giocato dalle statine disponibili in farmacia come farmaci generici.