Farmaci biosimilari “promossi” dalla Società Italiana di Farmacologia (SIF) che ha aggiornato la propria posizione su questi medicinali, pubblicata per la prima volta nel 2007, utilizzando le conoscenze e i dati acquisiti in questi anni. Vista la rapida evoluzione delle conoscenze sul tema e l’emergere sul mercato di molti nuovi biosimilari, ciascuno con le proprie peculiarità, la SIF è ben conscia che la posizione presa potrebbe non essere più accurata negli anni a seguire e il documento elaborato dalla società scientifica rappresenta quindi un working paper in evoluzione.
La definizione di farmaco biosimilare come farmaco simile ma non identico al prodotto biologico di riferimento, molto spesso utilizzata in termini comunicativi e sicuramente non sbagliata da un punto di vista formale, può essere fuorviante per i non addetti ai lavori e fonte di non corrette interpretazioni, strumentalizzazioni o generalizzazioni. La definizione che propone la Società Italiana di Farmacologia è “farmaco biologico, nella maggior parte dei casi biotecnologico, approvato dall’Agenzia Europea del Medicinali (EMA), attraverso un comparability exercise con il prodotto di riferimento commercializzato da un’altra azienda”. Il comparability exercise è una procedura sperimentale, richiesta a fini regolatori, per cui il prodotto biosimilare viene confrontato a quello di riferimento da un punto di vista fisico-chimico (quality in termini regolatori), pre-clinico e clinico. Un biosimilare è il farmaco che si sia dimostrato sovrapponibile a tutti i livelli a quello di riferimento. Questo appena citato e altri aspetti esaminati nel documento SIF fanno chiarezza in un campo di estrema importanza per la sostenibilità e l’accesso a cure innovative.
I biosimilari offrono la possibilità di curare a costi molto contenuti e con elevata efficacia malattie complesse, dai disturbi reumatici ai tumori, consentendo un risparmio di risorse per il Sistema sanitario nazionale impiegabili per curare altre forme di malattia con farmaci sempre ad alta tecnologia ma molto costosi.
Vietato abbassare la guardia contro le allergie anche d’estate. Punture di insetti, frutti di mare crudi, frutta esotica e persino il vino bianco possono scatenare reazioni allergiche, mettendo a repentaglio la salute soprattutto se non si parte informati e non si adottano le giuste cautele. Lo sottolinea il professor Giorgio Walter Canonica, presidente della Società italiana di allergologia, asma ed immunologia clinica (Siaaic), che ricorda come ogni stagione abbia le sue peculiari forme di allergia. D'estate aumenta il rischio di punture di imenotteri, vale a dire api, vespe e calabroni, a causa del maggior tempo trascorso all'aperto, con più ampie zone di cute scoperta, e della maggior presenza di questi insetti in questa stagione dell’anno. Ma i rischi si nascondono anche nell'ingestione di frutta "esotica" che per un fenomeno di reazione incrociata con il lattice, può determinare reazioni anafilattiche in chi è allergico a questo tipo di gomma. Lo stesso dicasi per il consumo di pesce e frutti di mare crudi. Attenzione anche a frutta secca o a frutta con il nocciolo: tra i cibi più incriminati pesche, albicocche, e ciliegie. Pure l’happy-hour con il prosecco può essere un problema per chi soffre di allergie alimentari: i vini bianchi, notoriamente ricchi di solfiti, possono amplificare o scatenare reazioni allergiche in soggetti con asma bronchiale o allergie cutanee. «Le persone allergiche definite a rischio non devono dimenticarsi di portare con se il kit di emergenza, che oltre agli antistaminici e cortisonici deve includere l'adrenalina auto iniettabile - sottolinea Canonica -. In vacanza le gite sono più frequenti e se le reazioni generalizzate avvengono bisogna avere con sé i mezzi per contrastarle correttamente ed efficacemente anche in luoghi isolati. Ovviamente non bisogna abbassare la guardia anche per gli asmatici: sempre avere a portata di mano il broncodilatatore da usare in caso di attacco acuto». Un aiuto viene dalla disponibilità di farmaci equivalenti antistaminici, cortisonici e respiratori che permettono di dare risposte efficaci ai soggetti allergici, consentendo anche un risparmio importante. Un aspetto non di poco conto oggigiorno.
La metà delle persone con Hiv non sa di averlo. E’ l'allarme lanciato dagli esperti durante l'International Aids Conference che si è tenuta a Melbourne, Australia. Un'allerta che vede il futuro della lotta all'Aids nell'individuazione di quel 50% dli infettati inconsapevoli.
Durante il meeting è stata posta al centro la questione dei diritti delle “popolazioni chiave” più emarginate, dai tossicodipendenti ai lavoratori del sesso. Stefano Vella, ricercatore dell'Istituto superiore di sanità e fra gli estensori delle linee guida Oms sull'Aids, ha spiegato: «L'obiettivo dichiarato è mettere sotto controllo l'epidemia entro il 2030, ma per riuscirci bisogna fare emergere il "sommerso", quei milioni di persone che non sanno di avere il virus, e trattare tutti. E' un enorme problema di costi, di carenza di strutture, ma proprio i risultati ottenuti finora dall'alleanza di scienza, politica e società civile che combatte l'Aids, unica nel panorama mondiale, fanno ben sperare».
Secondo le cifre fornite durante la conferenza sono 35 milioni le persone sieropositive nel mondo, di cui circa metà inconsapevoli, compresi 3,3 milioni di bambini, mentre le nuove infezioni ogni anno sono 2,3 milioni. Nel 2013 circa 13 milioni di persone in tutto il mondo hanno ricevuto la terapia antiretrovirale, di cui circa 11 milioni nei paesi a basso e medio reddito. In quest’ottica una risorsa preziosa è rappresentata dai farmaci equivalenti antiretrovirali, che possono consentire il trattamento dell’infezione con un contenimento enorme dei costi, ma con grande efficacia terapeutica.
Nel 2013 aumenta del +3,5% il consumo di antibiotici, mentre la spesa si riduce del -3,4%. I dati scaturiscono dall’ultimo rapporto dell’osservatorio dell’impiego dei medicinali in Italia, rilasciato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). L’uso maggiore di antibiotici si osserva in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, mentre sono meno utilizzati nella Provincia autonoma di Bolzano, in Liguria, in Friuli Venezia Giulia e nel Veneto. Più in dettaglio, la minor spesa pro capite (7,2 euro) e il minor numero di prescrizioni (13,3 dosi giornaliere definite o DDD/1000 ab. die) si osservano nella Provincia autonoma di Bolzano, mentre la maggiore spesa pro-capite (25,0 euro) e il più elevato numero di DDD prescritte (33,8 DDD/1000 ab. die) sono registrate in Campania.
Le categorie maggiormente impiegate sono state le associazioni di penicilline, seguite da amoxicillina+acido clavulanico e macrolidi e lincosamidi. Gli antibiotici a brevetto scaduto rappresentano il 90,2% delle dosi di antibiotici totali e il 68,2% della spesa totale per antibiotici. Farmaci che sono presenti in farmacia come equivalenti e che, quindi, potrebbero fare risparmiare notevolmente i cittadini, a parità di efficacia.
Si continuano però ad osservare livelli elevati di inappropriatezza nell’utilizzo dei farmaci antimicrobici. L’impiego inappropriato di antibiotici supera il 20% in tutte le condizioni cliniche con particolare impatto per la laringotracheite (49,3%), cioè il mal di gola, in cui questi farmaci non sarebbero indicati.
Il rapporto ha evidenziato anche un più frequente utilizzo di antimicrobici nelle donne, in particolare nelle fasce di età adulta.
Il rischio di fratture dovute a fragilità ossea si può ridurre sensibilmente esponendo viso, braccia e gambe per 20 minuti al giorno per 5 giorni alla settimana e consumando alimenti come sgombro, anguilla e salmone affumicato.
Si tratta della ricetta per la prevenzione della fragilità delle ossa suggerita dal professor Giancarlo Isaia, presidente della Società italiana dell’osteoporosi, del metabolismo minerale e delle malattie dello scheletro (Siommms) e direttore del Dipartimento di geriatria e malattie metaboliche dell’osso all’Ospedale Molinette di Torino.
«L’estate è il periodo dell’anno in cui c’è più luce ed è più facile prendere il sole, stimolando quindi la sintesi di vitamina D, una vitamina fondamentale per il rafforzamento osseo e per le funzioni neuromuscolari e metaboliche», chiarisce l’esperto torinese. La vitamina D è necessaria per consentire al calcio di depositarsi nelle ossa, rendendole più resistenti.
Il fatto è che in Italia il 70% della popolazione soffre di carenza di vitamina D (condizione nota come ipovitaminosi D), con la conseguente riduzione della disponibilità di calcio e il progressivo impoverimento di questo minerale nello scheletro. Questa situazione costituisce un importante fattore di rischio per l’osteoporosi e per le fratture, di cui soffrono prevalentemente le donne.
L’invito a esporsi al sole a vantaggio della salute delle ossa fa, in realtà, parte di un’azione di sensibilizzazione che gli esperti della Siommms stanno portando avanti per combattere l’ipovitaminosi D e prevenire, quindi, il rischio di fratture. «L’osteoporosi è una malattia che in Italia colpisce 4,5 milioni di persone e va quindi trattata come una patologia di priorità sanitaria e sociale - conclude il professore - Uno stile di vita corretto che preveda lo svolgimento di attività fisica all’aria aperta, un’alimentazione equilibrata e l’esposizione al sole rappresenta un punto di partenza per contribuire ad allontanare il rischio della malattia e delle sue complicanze». Un aiuto può venire anche dalle supplementazioni di vitamina D, disponibili come preparati equivalenti, efficaci ed economici nello stesso momento.
I supplementi quotidiani di olio di pesce diminuirebbero non solo il declino mentale associato al morbo di Alzheimer, ma anche il rischio dello sviluppo e della progressione della malattia neurologica degenerativa. A sostenerlo è un nuovo studio statunitense, pubblicato, sulla rivista "Alzheimer & Dementia", sulla base di analisi sulle capacità mentali di 819 volontari e sulla stessa dimensione del cervello accertata tramite sofisticate tecniche di immagine. La ricerca ha seguito i partecipanti per oltre 4 anni sottoponendoli a test cognitivi e ad esami di risonanza magnetica cerebrale. I volontari erano anziani con vari livelli di abilità mentali all'inizio dell’indagine, dai soggetti completamente sani, a persone con leggeri problemi di senilità, a pazienti già malati di Alzheimer. Gli scienziati del Rhode island hospital guidati da Lori Daiello, hanno osservato come tutti i partecipanti che assumevano regolarmente olio di pesce ricco di grassi omega-3 avessero risultati migliori nei test di memoria e ragionamento rispetto a chi non prendeva i supplementi. «Inoltre - ha spiegato Daiello - la corteccia cerebrale e l'ippocampo, ossia le aree del cervello responsabili della formazione e ritenzione della memoria, hanno evidenziato una diminuzione di volume inferiore a quella di chi non prendeva gli omega-3».
Una notizia incoraggiante, dal momento che ad oggi non esiste una cura contro questa malattia neurologica devastante per chi ne è colpito e per i suoi familiari e considerando che è oggi disponibile un equivalente a base di omega-3 ad alta concentrazione. Insomma, una promettente possibilità di prevenzione anche conveniente da un punto di vista economico.
La buona notizia è che viviamo di più: grazie soprattutto ai farmaci, usati regolarmente da un terzo degli italiani, ma anche alle condizione di vita migliori e all’alimentazione, guadagniamo in media tre mesi di vita ogni anno. E’ quanto emerge dal rapporto sulla salute degli italiani elaborato dall’Istat, che ha messo a confronto la situazione odierna con quanto avveniva nel 2005. L’Istituto di statistica evidenzia che siamo una popolazione sempre più vecchia, chiamata a fare i conti con la crisi economica. Dal 2005 ad oggi sono in crescita i casi di tumore ma nel 60 % dei casi si curano di più, aumentano pure del 50% le malattie della tiroide, le demenze senili, le allergie, l’osteoporosi, mentre diminuiscono i problemi respiratori, probabilmente per la riduzione del numero di forti fumatori, anche se la sigaretta viene accesa con sempre maggior frequenza dai giovani e dalle donne. Il rapporto segnala un aumento di un punto percentuale degli obesi che oggi sono l’11% della popolazione, come pure un aumento del disagio psichico, con la depressione a farla da padrona delle problematiche mentali dato che ne soffrono 2,6 milioni di italiani. I connazionali si dicono nell’80% dei casi molto soddisfatti dal Sistema sanitario nazionale, ricorrono sì agli specialisti, ma non ai dentisti, come dimostra la riduzione del 30% delle visite. Una forte riduzione c’è anche nell’uso di medicine alternative e nell’omeopatia, che si è ridotto quasi della metà.
In questo quadro, come dimostrato dal rapporto dell’Osservatorio sull’uso dei medicinali in Italia, si registra un incremento del ricorso a farmaci equivalenti, che permettono di curarsi con efficacia risparmiando. Ma si potrebbe fare di meglio, a tutto vantaggio dei cittadini.
Non solo mette a rischio il cuore e i vasi sanguigni, ma adesso sembra che il colesterolo in eccesso possa favorire anche l’insorgenza di alcuni tipi di tumore molto comuni, come il cancro al colon, al seno, ai polmoni e il melanoma. Lo hanno scoperto i ricercatori dell'Università dell'Illinois di Chicago, guidati da Wonhwa Cho, professore di biochimica.
Una quantità di colesterolo troppo elevata nel sangue è, come noto, tra le cause principali dell’occlusione di arterie e quindi della comparsa di infarto miocardico e ictus cerebrale. Ma, secondo i ricercatori americani, il colesterolo non produrrebbe danni limitati solo al sistema cardiovascolare, ma potrebbe essere coinvolto nella formazione dei tumori. Come? Il colesterolo sembra giocare un ruolo importante nella trasmissione di segnali che regolano l’attività delle cellule. Cho e colleghi hanno visto che il colesterolo si lega a una proteina detta “Dishevelled” che a sua volta stimola una via chimica nota come “Wnt”, importante per la proliferazione delle cellule. Quando il colesterolo è in eccesso, aumenta la stimolazione del processo di replicazione cellulare, con la conseguenza di una maggior probabilità di comparsa di cellule che non rispondono più ai segnali di controllo e quindi capaci di dare il via a una trasformazione verso il tumore. I tipi di cancro connessi alla via di segnalazione Wnt sono appunto quelli elencati in precedenza.
La connessione tra elevati livelli di colesterolo e incidenza di tumori, soprattutto al seno, era stata evidenziata poco tempo fa, ma sfuggiva ancora il meccanismo alla base di questa associazione. «La nostra ricerca spiega come mai le diete troppo ricche di grassi possano promuovere l’insorgenza del cancro», afferma Cho. Grazie alla loro scoperta, pubblicata sulla rivista Nature Communications, Cho e colleghi pensano sia possibile produrre farmaci in grado di andare a colpire questo processo, in modo da bloccarlo e prevenire i tumori.
Resta comunque un fatto: il colesterolo in eccesso va ridotto, anche grazie a terapie farmacologiche che, fortunatamente, sono disponibili come farmaci equivalenti, quindi efficaci e accessibili a tutti.
Quali farmaci sono più utilizzati dai cittadini italiani per combattere il dolore? Secondo quanto riscontrato da un sondaggio condotto nel periodo 31 marzo-6 aprile 2014 su circa 1.000 persone che hanno avuto accesso a farmaci antalgici in 100 farmacie di Roma, il paracetamolo risulta essere il farmaco più usato, seguito da ibuprofene, diclofenac e nimesulide.
La ricerca rientra nell’ambito del progetto , promosso dall’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Roma, dalla Fondazione Gigi Ghirotti e da Federfarma Roma e con il patrocinio del Ministero della Salute.
Il progetto vuole coinvolgere il farmacista in una raccolta di dati sulla gestione del dolore e mettere in luce la sua importanza nella gestione in merito all’appropriatezza terapeutica del dolore minore attraverso i farmaci SOP (senza obbligo di prescrizione) e OTC (da banco), nel suggerimento alla persona con dolore dello specialista di riferimento e nella sensibilizzazione del paziente stesso verso la possibilità/necessità di trattare sempre il dolore con un percorso validato.
Un atteggiamento di questo tipo porta vantaggi reali al paziente che vive un accesso immediato alle cure per il suo dolore, al farmacista riconosciuto come protagonista della salute e più in generale al Sistema sanitario, che troverebbe proprio nel farmacista un alleato nel riportare la gestione del dolore dall’ospedale al territorio.
Stando a quanto emerso dal sondaggio, il 74% degli intervistati aveva più di 50 anni e nel 59% dei casi soffriva di dolore di tipo saltuario, contro un 41% che invece era affetto da un dolore cronico. Il paracetamolo è stato indicato come farmaco più utilizzato per combattere il dolore dal 27% delle persone, seguito da ibuprofene (24%), diclofenac (13%) e nimesulide (10%).
Il 40% degli intervistati ha dichiarato di curarsi facendo ricorso a farmaci da automedicazione, il 20% è ricorso al consiglio del farmacista, gli altri si sono rivolti al medico di medicina generale (20%) e allo specialista (20%).
E’ di grande interesse sottolineare che tutti questi farmaci sono disponibili come equivalenti, preparati che non soltanto offrono la stessa efficacia degli originatori di marca, ma che consento anche un grande risparmio per il cittadino.
La spesa farmaceutica totale, pubblica e privata, è stata pari a 26,1 miliardi di euro, con un aumento del 2,3% rispetto al 2012. E’ il dato saliente dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul consumo dei medicinali in Italia elaborato dall’ Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Nel 2013 ogni italiano ha consumato in media 1,7 dosi di farmaci al giorno (1.679 dosi al giorno ogni 1.000 abitanti) e il 70,4% di questi farmaci è stato erogato a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Ma un aspetto è particolarmente significativo: la prescrizione di farmaci a brevetto scaduto ha rappresentato nel 2013 il 64,3% delle dosi e il 41,5% della spesa netta (con un incremento del +3,8% rispetto al 2012); di questi solo il 14,9% è costituito dai farmaci equivalenti. Quest’ultimo dato, pur se in crescita rispetto al 2012 (in cui rappresentava il 13,4%), tradotto in termini più comprensibili, significa che l’85,1% dei farmaci a brevetto scaduto è stato pagato direttamente dai cittadini, che hanno dovuto corrispondere di tasca propria la differenza tra il costo del farmaco di marca senza più copertura brevettuale e il farmaco equivalente (erogato gratuitamente dal Sistema sanitario). Un’opportunità di risparmio sprecata, a parità di efficacia delle cure. “L’aumento della spesa farmaceutica territoriale comunicato dal Direttore generale dell’AIFA, professor Luca Pani, costituisce effettivamente un segnale d’allarme. Non solo per le finanze pubbliche, ma soprattutto per i cittadini su cui ricade una quota non indifferente della spesa farmaceutica”, dice il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann. “Una parte almeno di questa maggiore spesa, però, potrebbe essere evitata – prosegue Häusermann -. Secondo i dati del nostro ‘salvadanaio’ i cittadini italiani da gennaio a giugno hanno speso 456 milioni di euro per pagare la differenza di prezzo farmaco tra generico e originale a brevetto scaduto, e già 34 milioni nella prima settimana di luglio. Una spesa di difficile comprensione, visto che esiste una notevole variabilità tra una Regione e l’altra se non tra un’ASL e l’altra”. Del resto è stato lo stesso professor Pani a indicare come la quota di medicinali equivalenti dispensata in Italia, il 14,9%, sia molto più bassa di quella dei paesi europei di riferimento. Come sottolineato dall’AIFA, sono in arrivo nuovi farmaci molto importanti, per i quali si rischia di non avere risorse sufficienti.
E’ venuto il momento di aumentare il risparmio laddove è possibile senza mettere a repentaglio né la qualità né la sicurezza e l’efficacia delle cure. Un più ampio ricorso a equivalenti e biosimilari è oggi più che mai la chiave per poter garantire ai cittadini l’accesso ai salvavita di domani”.
Sempre più giovani colpiti dalla malattia di Parkinson. Crescono, infatti, i casi in cui la malattia del sistema nervoso insorge in persone al di sotto dei 40 anni di età. «In Italia, 300mila persone sono affette da Parkinson, un numero destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni», hanno specificato gli esperti coinvolti nel meeting “Muoversi, conoscersi, sorridere”, che ha riunito le associazioni di volontariato attive a favore dei malati di Parkinson, coordinate da Parkinson Italia onlus. Nel corso dell’incontro è emerso come l’età d’esordio del Parkinson sia sempre minore: un paziente su 4 ha meno di 50 anni, il 10% ha meno di 40 anni e le famiglie con figli in età scolare, dove uno dei genitori è malato, sono più di 30mila. Inoltre, nei giovani la malattia ha un decorso più veloce e un’aggressività maggiore. Il problema, quindi, non è solo clinico, ma sociale e ha un forte impatto sulla vita di migliaia di famiglie. Oltretutto, sono ancora pochi i centri di cura specializzati e si valuta che il 65% dei malati non riceve cure adeguate alla sua condizione.
Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva morte di cellule nervose (neuroni) situate nella cosiddetta “sostanza nera”, una piccola zona del cervello che produce una sostanza detta dopamina, necessaria per controllare i movimenti di tutto il corpo. Chi ha il Parkinson produce sempre meno dopamina, perdendo il controllo del suo corpo. Arrivano così tremori, rigidità, lentezza nei movimenti, fino all’invalidità totale. È stato dimostrato che i sintomi iniziano a manifestarsi quando sono già andati perduti il 50-60% dei neuroni dopaminergici; da qui la necessità di diagnosi precoci e di centri specializzati e competenti, oggi ancora poco diffusi sul territorio.
Purtroppo, tuttora non esiste una cura definitiva ma solo trattamenti sintomatici, che sono, tuttavia, disponibili anche come farmaci generici, quindi medicinali che uniscono efficacia a sicurezza e convenienza.
Uomini in terapia con antidepressivi di seconda generazioni a rischio di maggior “freddezza” verso le loro partner.
A evidenziare questo potenziale effetto farmacologico, a cui le donne sarebbero meno soggette, è stato un team di ricerca italo-statunitense, coordinato dalla psichiatra Donatella Marazziti, del Dipartimento Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa, e pubblicato sulla rivista Journal of affective disorder. «Il nostro studio – spiega Marazziti - era volto a indagare le eventuali modifiche di alcune dinamiche dei rapporti d'amore durante il trattamento a lungo termine della depressione con farmaci antidepressivi di prima generazione, i cosiddetti triciclici, e con quelli di seconda generazione, definiti inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (Ssri)». L'indagine si è svolta tramite un questionario su un campione di 192 pazienti composto da 123 donne e 69 uomini'". «I risultati hanno mostrato che gli antidepressivi più recenti possono avere un impatto sui sentimenti d'amore soprattutto negli uomini, potendo ostacolare l'attaccamento del maschio verso la partner», riferisce la psichiatra toscana. Che sottolinea: «In pratica durante terapia antidepressiva determinarsi un appiattimento affettivo, legato al sesso di appartenenza». Analizzando questo parametro emozionale, gli studiosi hanno osservato nei maschi una più frequente insorgenza di una sorta di apatia verso le partner, maggiore se i farmaci venivano assunti da più tempo. Si tratta, tuttavia, di un’osservazione che dovrà essere confermata da altri studi. E d’altronde la stessa Marazziti evidenzia anche aspetti positivi della ricerca: «Se il rapporto di coppia è stabile e di lunga durata, l'effetto di distacco osservato negli uomini è minore».
La depressione resta comunque una malattia estremamente seria, che vede nell’uso a lungo termine degli antidepressivi un cardine centrale della sua terapia. La disponibilità di farmaci equivalenti rende questa cura, fortunatamente, accessibile a tutti.
«Ormai non è più possibile rimandare un intervento sulla disciplina di generici e biosimilari che metta fine a una serie di incongruenze che non sono questioni formali, ma costano ogni mese milioni di euro al Servizio sanitario nazionale», dice il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann. «Dopo i moniti della Commissione europea, le ripetute pronunce dei giudici amministrativi i costanti richiami dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in merito alle condizioni di accesso al mercato da parte di imprese produttrici di farmaci generici o biosimilari, non è più possibile mantenere l’attuale assetto normativo». Il presidente di AssoGenerici commenta con queste parole gli interventi registrati negli ultimi giorni su un aspetto cruciale per lo sviluppo del generico: il cosiddetto “patent linkage”, cioè le norme che vincolano l’ammissione al rimborso di un nuovo generico alla scadenza del brevetto del farmaco originale. «A questo proposito, la sentenza emessa dal TAR del Lazio lo scorso 26 giugno è esemplare: non spetta all’AIFA controllare se un brevetto è scaduto o meno, quindi una volta che ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio, deve essere inserito nelle liste di trasparenza», prosegue Häusermann. La sentenza, peraltro, interviene anche su un altro aspetto e cioè la natura stessa della copertura brevettuale, che riguarda soltanto il principio attivo, cioè l’elemento innovativo, e non per esempio l’associazione tra un principio attivo in scadenza e un altro scaduto da tempo, come nel caso esaminato dal TAR del Lazio, che verteva sui generici dell’associazione di un sartano (farmaco contro la pressione alta del sangue), a brevetto scaduto dal 2013, e di un diuretico introdotto addirittura negli anni ‘60. «Se si fossero applicati da subito i principi stabiliti nella sentenza, si sarebbero risparmiati da gennaio a giugno di quest’anno 18 milioni di euro», sottolinea il presidente di AssoGenerici. «Per inciso, la pratica di prolungare la durata dei brevetti attraverso operazioni per così dire cosmetiche era stata da tempo denunciata dalla Commissione Europea. In questo quadro va però apprezzata la rapidità dell’AIFA che ha immediatamente inserito nelle liste di trasparenza i farmaci equivalenti in questione che erano stati “parcheggiati” nella classe C».
Il sole in soccorso della pressione del sangue troppo alta (o ipertensione arteriosa).
Una ricerca, condotta presso l’università di Edinburgo e pubblicata sul Journal of Investigative Dermatology, ha scoperto che i raggi Uva, responsabili di scottature se ci si espone al sole senza adeguate protezioni, hanno anche il benefico effetto di ridurre la pressione arteriosa e il battito cardiaco. In particolare, una volta penetrati nella pelle, sembrano in grado di stimolare il rilascio di una particolare molecola, l’ossido nitrico, che riduce la pressione del sangue, indipendentemente dall'effetto vasodilatatore dovuto al calore.
I ricercatori, che hanno eseguito i test su 24 donne, affermano: «Sono sufficienti 20-30 minuti di esposizione per far calare la pressione di 3-4 millimetri di mercurio. Basti pensare che a una diminuzione di 5 millimetri di mercurio corrisponde una diminuzione del rischio di ictus del 34% e di ischemia del 21%». Lo studio dimostra che un’esposizione al sole naturale, nelle giornate assolate nelle aree del Sud Europa, assicura una dilatazione delle arterie attraverso la pelle. «Questo cambia la nostra valutazione del rapporto rischio/beneficio per l'esposizione al sole», dicono gli autori. E aggiungono: «Una moderata esposizione al sole è benefica per lo sviluppo della vitamina D nelle ossa, ma ora sappiamo che c'è dell'altro. Da evitare però che l'esposizione induca danni profondi, eritemi e scottature che facilitano l'insorgenza di tumori. Si può stare dunque al sole, con moderazione e le adeguate protezioni, senza scottarsi».
Resta comunque il fatto che la terapia dell’ipertensione passa, dopo un adeguato stile di vita con più esercizio fisico e dieta bilanciata, dall’uso di medicinali, disponibili oggi come equivalenti per tutte le diverse classi farmacologiche.
Sono sedici milioni gli italiani che hanno problemi 'sotto le lenzuola' e non si curano. Disfunzioni erettili ed eiaculazione precoce, per gli uomini, calo del desiderio e anorgasmia, per le donne: problemi tanto diffusi, quanto sottaciuti, visto che, dati alla mano la percentuale di chi non ne parla con uno specialista arriva fino al 90%. «In particolare gli uomini hanno difficoltà a rivolgersi a un medico e convivono per anni con questi disagi», spiega Vincenzo Mirone, Segretario Generale della Società Italiana di Urologia (SIU), a margine della presentazione, a Napoli, dei nuovi Dipartimenti per il Benessere di Coppia (DBC), promossi dalla SIU e dall'Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani(AOGOI). Il fatto è che le disfunzioni sessuali «viaggiano sempre in due e difficilmente riguardano solo uno dei due componenti della coppia, tanto che si può parlare di 'danni di coppia'» sottolinea Mirone. «Se ad esempio - prosegue - lui ha una disfunzione erettile, non è difficile che lei lamenti vaginismo. Quando l’uomo soffre di eiaculazione precoce, la donna quasi certamente avrà problemi di anorgasmia». Per questo, «le nuove terapie di coppia si basano su un approccio condiviso. Considerare entrambi i partner cercando di stabilire un dialogo profondo, empatico, e senza reticenze", conferma Antonio Chiàntera, Segretario Nazionale AOGOI, è "un cambiamento rivoluzionario nell'approccio e nella gestione delle più comuni patologie e dei disturbi sessuali».
Un aiuto a queste problematiche può arrivare anche dai farmaci specifici per la disfunzione erettile, oggi disponibili anche come equivalenti e quindi di costo più accessibile, a fronte di una identica efficacia e sicurezza rispetto a quelli di marca.
Circa il 50% delle persone in terapia con le statine, cioè farmaci per abbassare il colesterolo troppo alto nel sangue, non assume il medicinale come dovrebbe o non lo prende affatto, nonostante sia prescritto dal medico. Il risultato è che, secondo uno studio finlandese, un evento cardiovascolare acuto (come l’infarto miocardico o l’ictus) su dieci è dovuto alla mancata assunzione delle statine.
Gli studiosi dell’università di Turku, in Finlandia, hanno scoperto che alcune caratteristiche legate allo stile di vita rendono più probabile la tendenza a non prendere i farmaci prescritti contro il colesterolo. Dopo avere studiato quasi 12.000 persone, i medici finlandesi hanno visto che le persone non obese o in sovrappeso, quelle che non avevano malattie cardiovascolari o che non erano fumatori erano più facilmente propense a non prendere correttamente i farmaci rispetto ai fumatori e agli obesi. Ma come, verrebbe da chiedersi, proprio le persone apparentemente più virtuose sono poi quelle più distratte? «In effetti è così – dicono gli autori dello studio – Chi ha più malattie concomitanti e quindi corre un rischio più elevato di malattie acute cardiovascolari è in genere più attento ai farmaci che deve prendere, come le statine».
Come fare per aumentare l’aderenza alla terapia ai farmaci contro il colesterolo? Una possibile risposta arriva da un altro studio, italiano, condotto in cinque Asl lombarde, che ha mostrato come il ricorso al farmaco equivalente anticolesterolo rispetto a quello di marca consenta una accettazione maggiore della terapia. «Uno dei motivi – spiega il professor Giorgio Colombo coordinatore dello studio – va individuato nel minore costo del farmaco equivalente che può essere acquistato pagando soltanto il ticket e senza ulteriori costi come invece avviene per lo stesso farmaco ma di marca. Questo consente un accesso più ampio alla cura contro il colesterolo che deve essere continuata per un lungo periodo».
Sono un alleato prezioso per la salute, capaci di ridurre i grassi in eccesso nel sangue e prevenire così le malattie cardiovascolari. Si tratta degli acidi grassi omega-3, sostanze di estrazione naturale definite essenziali, in quanto il nostro organismo non è in grado di produrle e che, pertanto, devono essere assunte con la dieta (soprattutto pesce) o attraverso una specifica integrazione. «Gli omega-3 esplicano i loro benefici attraverso vari meccanismi protettivi: riducono i trigliceridi, prevengono o riducono l’ostruzione delle arterie (azioni cosiddette antiaterogene e antitrombotiche) e prevengono le aritmie cardiache», spiega Roberto Volpe, lipidologo e ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) di Roma. «Uno studio condotto dal GISSI (Gruppo Italiano per lo Studio della Sopravvivenza nell'Infarto miocardico) – puntualizza Luigi Tavazzi, Direttore Scientifico di GVM Care & Research e membro del comitato scientifico del GISSI - ha valutato la prevenzione dell’infarto cardiaco testando l’efficacia degli Omega-3 e ha evidenziato che queste molecole riducono del 50% i casi di morte improvvisa nelle persone con malattie cardiache».
Ma per poter svolgere funzioni tanto importanti quanto delicate, queste sostanze devono essere assunte a precise concentrazioni. «Gli omega-3, chiarisce Alessandro Mugelli, Ordinario di Farmacologia, Direttore Dipartimento Neurofarba di Firenze, si trovano in commercio a diverse concentrazioni: gli integratori hanno una concentrazione di acidi grassi polinsaturi inferiore a quella garantita dai farmaci, dove la concentrazione di omega-3 è superiore all’85%, un valore necessario per ottenere i risultati osservati negli studi clinici. È importante – sottolinea Mugelli - utilizzare i farmaci a base di omega-3 perché i risultati positivi degli studi clinici condotti sono stati ottenuti con concentrazioni superiori all’85%». Gli omega-3 sono disponibili anche come farmaci equivalenti che a parità di efficacia e sicurezza, consentono di proteggere cuore e vasi sanguigni a un costo decisamente inferiore rispetto a quelli di marca, aspetto importante per un’ampia azione di prevenzione cardiovascolare, sia a carico del SSN sia se sostenuta dai singoli cittadini.
Non fanno solo risparmiare a parità di efficacia, sicurezza e qualità della cura, ma consentono anche un indirizzamento delle risorse economiche per lo sviluppo di nuove terapie. Sono molti i vantaggi offerti da una più ampia diffusione dei farmaci generici. Come spiega il Centro Studi di AssoGenerici, il tema dell’evoluzione degli investimenti per la ricerca è un aspetto vitale per lo sviluppo della sanità moderna e per la cura delle patologie più gravi.
È solo da un cospicuo impegno in Ricerca e Sviluppo che è possibile attendersi l"individuazione di nuove molecole e la capacità di aggredire in modo efficace anche patologie oggi inguaribili. Un monopolio permanente sui prodotti farmaceutici fornirebbe pochi incentivi alle aziende “griffate” per investire in innovazione e ricerca. Come in tutti i settori, la concorrenza è uno stimolo importante verso l’innovazione.
E’ particolarmente interessante al proposito quanto accade negli USA che sono il paese con il più alto tasso di innovazione farmaceutica globale. Gli “States” rappresentano anche e non a caso il paese che gode di uno dei più alti tassi di penetrazione generica (circa 80% in volume) e che vanta una storia di campagne di sensibilizzazione governative sull’uso degli equivalenti. La maggiore concorrenza nel settore farmaceutico fuori brevetto negli USA, generatasi con una combinazione di leggi sul diritto alla sostituibilità del farmacista, sull’approvazione rapida dell’autorizzazione all’immissione in commercio dei generici, ha portato ad un massiccio aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo delle aziende americane. Questo ha determinato conseguentemente, il miglioramento della loro posizione competitiva come innovatori farmaceutici sullo scenario mondiale. L’approvazione di queste disposizioni nella metà degli anni ‘80, corrisponde esattamente al crescere della spesa compita in ricerca e sviluppo negli USA, che risulta significativamente cresciuta come percentuale sul prodotto interno lordo del paese. Un modello da prendere ad esempio.
Arriva una piccola rivoluzione in farmacia. Dal 3 luglio nelle farmacie italiane verrà distribuito direttamente dalle mani del farmacista il foglietto illustrativo dei medicinali che abbiano avuto delle modifiche di natura amministrativa o nuove indicazioni alla modalità d’uso. Perché una rivoluzione? Fino a ieri (per la precisione fino al 2 giugno 2014) qualunque tipo di modifica del foglio illustrativo di un farmaco (non ancora riportata quindi nel documento presente all’interno della confezione) faceva scattare immediatamente un meccanismo complesso che prevedeva: il ritiro di tutti i medicinali presenti nelle farmacie e la sostituzione dei lotti contenenti la documentazione non aggiornata, che andavano distrutti, dato che non è consentito aprire e manomettere la confezione di un medicinale. Un processo articolato, evidentemente costoso in termini di tempo e risorse, nonché moltiplicatore di sprechi, dato che l’imprevisto “cambio di programma” condannava ogni anno una grande dose di confezioni al macero, per motivi di sicurezza.
Con l’entrata in vigore della Determina Aifa 371 del 14 aprile 2014 (“Criteri per l’applicazione delle disposizioni relative allo smaltimento delle scorte dei medicinali”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 3 maggio) l’Agenzia ha disciplinato le modalità di attuazione del dettato normativo, stabilendo che il foglio illustrativo aggiornato deve essere consegnato al cittadino direttamente dal farmacista. Come? Semplicemente collegandosi a una banca dati costantemente aggiornata e stampando il nuovo “bugiardino”.
Le Organizzazioni dei Produttori hanno realizzato il “Progetto Farmastampati”, un utile strumento per la gestione delle scorte dei medicinali che hanno subito modifiche al proprio foglio illustrativo, sulla base di quanto stabilito dalla suindicata Determina AIFA. Per informare i cittadini di questa importante innovazione, è stata promossa una Campagna di comunicazione rivolta al pubblico, con la diffusione di una Locandina esplicativa delle motivazioni per cui, all'atto della dispensazione di un farmaco, il farmacista potrebbe consegnare anche una copia del foglio illustrativo aggiornato, sottolineando altresì l'importanza del ruolo professionale del farmacista. E’ possibile scaricare la locandina cliccando qui
«I dati forniti dal rapporto di Farmindustria sul “biotech”, con l’annuncio dell’arrivo di centinaia di nuovi trattamenti, sono incoraggianti anche per noi: significa che in futuro ci saranno altrettante opportunità per i farmaci biosimilari», sostiene Francesco Colantuoni, vicepresidente di AssoGenerici, commentando i dati diffusi dall’associazione che riunisce le industrie del farmaco. «Come emerso chiaramente anche dall’andamento del Congresso annuale della Società Americana di Oncologia Clinica (ASCO) recentemente tenutosi a Chicago – dice Colantuoni - è ormai evidente che in alcuni settori chiave della medicina, come l’oncologia, ma anche l’infettivologia e l’endocrinologia, si sia arrivati a una svolta grazie alle terapie biologiche. E’ però altrettanto evidente che l’arrivo di queste terapie, tanto innovative quanto costose, pone un problema etico centrato sull’accesso alle cure». Trattamenti dal costo pari a centinaia di migliaia di dollari/anno non sono, infatti, facilmente sostenibili. «Anche in Italia, una della principali preoccupazioni dei clinici è riuscire a garantire i nuovi trattamenti al maggior numero di pazienti per i quali sono indicati, stanti le limitazioni dei budget», prosegue il vice presidente di AssoGenerici. «Però, e lo abbiamo visto anche nel corso del nostro Convegno nazionale, a questa preoccupazione non seguono a volte comportamenti coerenti». Se da una parte ci sono specialisti che ricorrono al biosimilare come farebbero con qualsiasi altro medicinale approvato dall’EMA, solo meno costoso dell’originator, quindi più accessibile e capace di liberare risorse da destinare ai nuovi trattamenti, dall’altra ci sono prese di posizione opposte, nelle quali si viene a chiedere di condurre sperimentazioni locali per stabilire se e a quali condizioni sia possibile usare il biosimilare. «Una situazione assurda: se un farmaco biosimilare è registrato come tale è perché ha già superato il vaglio della sperimentazione», afferma Colantuoni. Il vice presidente di AssoGenerici è convinto che le chiavi per orientare l’allocazione delle risorse del Servizio sanitario nazionale siano in mano al medico, il quale ha la possibilità di fare in modo di concentrare la spesa sui trattamenti innovativi pur continuando a garantire i trattamenti consolidati, grazie al ricorso ai biosimilari. «Ma quando si vede che in alcune Regioni la prescrizione di questi medicinali è pari al 40% e in altre al 10% soltanto si ha l’impressione che questa occasione di equità e razionalità la si voglia perdere», conclude Colantuoni.