Il mal di schiena? Potrebbe essere colpa dell'evoluzione, che ci ha portato a camminare su due piedi, e di una similitudine accentuata con i nostri 'antenati' per eccellenza, gli scimpanzé. Le colonne vertebrali di alcune persone sembrerebbero infatti meno adatte a camminare erette e in particolare quelle di quanti soffrono di alcune malattie come l'ernia del disco tendono ad essere più simili nella forma a quelle degli scimpanzé, che per lo più si muovono a quattro zampe. E' quanto emerge da uno studio scozzese, canadese e islandese pubblicato su BMC Evolutionary Biology.
Gli studiosi hanno confrontato 141 vertebre umane, 56 vertebre di scimpanzé e 27 vertebre di orangotanghi, trovando significative differenze nella forma. Dalla loro osservazione però è emerso che tra le vertebre umane ve ne erano 54 con protuberanze, dette nodi di Schmorl, spie di ernia del disco, più vicine nella forma a quelle degli scimpanzé, piuttosto che a quelle umane senza protuberanze. "Le nostre vertebre sono cambiate mano a mano che ci siamo evoluti, utilizzando per muoverci due gambe piuttosto che quattro - spiega Mark Collard, della Aberdeen University - tuttavia, l'evoluzione non è perfetta e alcune caratteristiche vertebrali, come quelle che abbiamo identificato simili agli scimpanzé, potrebbero essere rimaste: il risultato èche alcune persone hanno vertebre che sono meno in grado di sopportare la pressione di camminare su due piedi".
Che derivi da motivi evoluzionistici o meno è certo che il mal di schiena interessa una nutrita fetta della popolazione che spesso per controllarne i sintomi deve ricorrere a farmaci antidolorifici e antinfiammatori disponibili con ampia possibilità di scelta come preparati equivalenti efficaci e accessibili.
Per il 35% degli italiani la copertura pubblica per i farmaci è insufficiente, mentre per il 79% sono troppi i medicinali per patologie gravi a carico dei pazienti. E quando si scopre un nuovo principio attivo, mediamente dopo 15 anni di ricerca, servono in media 427 giorni dopo l'approvazione a livello comunitario per arrivare all'uso effettivo (solo 109 nel Regno Unito). Sono solo alcuni dei dati che emergono dal Monitor Biomedico 2015, l'indagine condotta periodicamente dal Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) nell'ambito del Forum per la Ricerca Biomedica.
L'indagine sottolinea che negli ultimi trent'anni l'aspettativa di vita è aumentata di 6,5 anni per le donne e di 8 anni per gli uomini, raggiungendo rispettivamente 85 e 80 anni in media. Nel tempo la sopravvivenza a molte patologie, sia acute che croniche, è migliorata significativamente, comportando una crescita continua nella domanda di cure sempre più efficaci. Secondo il 35,2% degli italiani, però, la disponibilità di farmaci garantiti dal Servizio sanitario nazionale è giudicata "insufficiente" (la percentuale sale al 53,8% tra le persone meno istruite); il 78,8% ritiene che sono troppi i farmaci necessari per patologie gravi a carico dei pazienti; l'83% pensa che il ticket penalizzi le persone malate; il 58% dichiara di aver subito un aumento della spesa di tasca propria per la sanità negli ultimi anni e il 65% indica proprio i farmaci come voce di spesa in aumento a carico delle famiglie. Questi dati sono in linea con il rapporto sul consumo dei medicinali in Italia nel 2014. Secondo questo rapporto farmaci a brevetto scaduto rappresentano oramai oltre la metà (51,1%) della spesa farmaceutica convenzionata, in crescita rispetto al 2013 del +6,6%, e il 70,4% delle dosi giornaliere di farmaco totali, in crescita rispetto al 2013 del +11,9%. La percentuale di spesa per i farmaci equivalenti è stata pari al 28,8% del totale dei farmaci a brevetto scaduto e si è registrato un significativo aumento della spesa per compartecipazioni (ticket) nell’acquisto di medicinali (+4,4%) che è stata pari a 1 miliardo e 120 milioni di euro. I dati di questi due rapporti mettono in evidenza una specie di contraddizione che caratterizza il nostro paese. Se da una parte, infatti, ci si lamenta di una insufficiente copertura pubblica per i farmaci dall’altro non si mettono in atto comportamenti come il preferire i farmaci generici, che permetterebbero di curarsi efficacemente senza spendere di tasca propria. Basterebbe andare sulla sezione “famiglia equivalente” di questo sito per rendersi conto in tempo reale quanto ogni singolo cittadino e ogni nucleo familiare potrebbero risparmiare se solo scegliessero di curarsi con i generici al posto dei farmaci originatori.
Quanto alla ricerca per lo sviluppo di nuovi medicinali, il rapporto del Censis evidenzia come l'Italia appaia indietro rispetto ad altri Paesi europei come Francia, Regno Unito e Germania: gli investimenti in ricerca e sviluppo promossi dall'industria farmaceutica in Italia ammontano infatti a 1,2 miliardi di euro, pari al 4,2% degli investimenti totali effettuati in Europa, mentre il numero degli addetti impiegati in tali attività è pari a 5.950 (il 5,5% del totale): nei principali Paesi europei si investono più risorse (in Germania il 19,1% degli investimenti in ricerca e sviluppo europei, il 18,1% nel Regno Unito, il 15,3% Francia) e si impiega un numero di addetti superiore (il 21,2% nel Regno Unito, il 18,8% in Germania, il 18,7% in Francia). La burocrazia nostrana, poi, allunga i tempi di accesso ai nuovi farmaci dopo che sono stati approvati a livello comunitario: 427 giorni in media, contro i 364 della Francia, i 330 della Spagna, i 109 del Regno Unito.
Aglio, porro, vino e bile bovina. Sono questi gli ingredienti principali di un'antica ricetta medievale, risalente a oltre mille anni fa, che promette di contrastare uno dei problemi più grandi della sanità mondiale: quello dei "super batteri" resistenti agli antibiotici. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Nottingham ha infatti testato con successo le sorprendenti qualità di una mistura descritta in un manoscritto di medicina del X secolo, conservato presso la British Library.
I risultati della ricerca sono stati esposti in occasione della conferenza annuale della Society for General Microbiology. L'unguento descritto nel Bald's Leechbook è stato spalmato sulla pelle di cavie infettate dallo Staphylococcus aureus, resistente alla meticilina (Mrsa), riducendone la presenza del 90%. Un risultato sorprendente, analogo a quello che si ottiene con la vancomicina, l'antibiotico più usato. Ma col vantaggio di essere al 100% naturale.
La pozione "miracolosa" si ottiene mescolando insieme aglio, cipolla, porro, vino e bile di mucca, e il mix necessita di riposare in un recipiente di ottone per nove giorni alla temperatura di 4 gradi. Harrison e colleghi hanno cercato di seguire le istruzioni alla lettera, sebbene non fosse facile scovare ingredienti qualitativamente simili agli originali. Per l'alcol, ad esempio, hanno usato un vino biologico di vecchia annata, mentre le difficoltà nello sterilizzare il contenitore di ottone sono state aggirate immergendo dei sottili fogli metallici nella miscela. Gli ingredienti, spiegano gli autori, funzionano solo se mescolati tra loro seguendo la ricetta alla lettera. Una notizia quindi particolarmente interessante in un momento in cui il problema della resistenza dei batteri agli antibiotici sta allarmando il mondo.
Il fenomeno della resistenza agli antibiotici delinea in Italia un ''quadro preoccupante'', con un consumo di tali farmaci ''record e in aumento'' mentre ''sono stimati 5000-7000 decessi annui riconducibili ad infezioni ospedaliere'' da germi multiresistenti, con un costo annuo superiore a 100 milioni di euro''. A sottolinearlo, dopo l'allarme lanciato dal governo inglese sulla pericolosità del fenomeno che potrebbe provocare secondo le stime britanniche 80 mila morti, è la Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali (Simit). Il fenomeno dell'antibioticoresistenza, avverte la Simit, ''ha carattere universale, ma in Italia il quadro è decisamente più preoccupante. Il consumo di antibiotici in ambito umano è uno dei più alti in Europa ed anche il consumo di antibiotici in ambito veterinario è fra i più elevati; il consumo di soluzioni idroalcoliche per l'igienizzazione delle mani, aspetto centrale della prevenzione della diffusione dei batteri antibioticoresistenti, è invece fra i più bassi in Europa; la diffusione di numerosi germi multiresistenti è un problema rilevante in molti ospedali, ma le multiresistenze si stanno rapidamente diffondendo anche al di fuori delle strutture sanitarie''. Nei Paesi Ue, circa 25.000 pazienti muoiono annualmente come conseguenza di infezioni da germi multiresistenti, con un costo associato di 1,5 mld di euro. Le cause che sono alla base dell'antibioticoresistenza sono molteplici, ma un ruolo particolare gioca l'uso inappropriato degli antibiotici che, afferma la Simit, ''rischia di disperdere una risorsa preziosa non immediatamente rinnovabile: negli ultimi anni l'industria farmaceutica ha infatti registrato un numero sempre più limitato di nuove molecole antibiotiche, per cui già oggi è difficile trattare efficacemente alcuni microrganismi multiresistenti agli antibiotici disponibili''.
Tuttavia, conclude il presidente Simit Massimo Andreoni, ''le infezioni ospedaliere sono, almeno in parte, prevenibili e l'adozione di pratiche assistenziali sicure comporta la riduzione del 35% almeno della frequenza di queste complicanze''.
Solo due donne su dieci sanno che le malattie cardiovascolari sono la loro prima causa di morte, e la maggioranza non sa che i segnali d'allarme possono essere differenti rispetto all'uomo. Lo afferma una ricerca su un campione di donne tra 40 e 60 anni presentata al convegno di lancio della campagna 'Vivi con il cuore'.
Per lo studio di Eikon Consulting il 68% delle donne ritiene che l'infarto sia un problema tipicamente maschile. Il sintomo cruciale dell'infarto, il dolore toracico, è correttamente indicato dal 71% delle intervistate ma la maggioranza delle donne non sa che i segnali di allarme possono essere diversi dall'uomo e meno della metà è in grado di riconoscere gli altri sintomi non specifici. Il risultato è che mediamente solo quattro donne su dieci si sono rivolte a un medico pur avendo accusato una serie di sintomi che potrebbero essere classificati come possibili segnali di allarme dell'infarto. ''La donna è un pianeta complesso anche per la sintomatologia - ha spiegato Sabina Gallina, cardiologa dell'università di Chieti - esiste il dolore ma nell'andare con gli anni la donna può non avere la tipica sintomatologia del dolore che si associa all'uomo. Le prime manifestazioni sono spesso soltanto un senso di affaticamento improvviso, esiste anche il dolore della donna ma è diverso da quello dell'uomo, spesso viene associato a nausea vomito, fiato corto ma anche dolore alle spalle e alla cosiddetta schiena. Questo è importante perché la donna aspetta sempre più dell'uomo per parlare con il medico o per andare in ospedale, pensa 'mi passa' mentre invece può essere un campanello d'allarme''.
Le donne dovrebbero in sostanza prestare più attenzione al loro cuore.
"I fattori di rischio sono in continuo aumento e l'incidenza dell'infarto miocardico acuto cresce con l'età - sottolinea Sergio Berti, presidente della Società Italiana di cardiologia invasiva - Per molto tempo si è pensato che l'infarto fosse una malattia di quasi esclusiva pertinenza degli uomini. Negli ultimi 15 anni, con l'aumentare dei fattori di rischio, obesità, ipertensione, stress, inattività fisica, si è assistito ad un progressivo aumento del numero di donne relativamente giovani, sotto i 60 anni, colpite da infarto miocardico”. In sostanza, gli uomini arrivano all'infarto in età più giovane, mentre le donne ne sono interessate circa 10 anni più tardi, ma l'incidenza al di sotto dei 60 anni sta rapidamente aumentando nel sesso femminile (dal 1995 al 2010, è passata dall’ 11.8% al 25.5%) “Con la menopausa le donne vanno incontro a cambiamenti importanti dei meccanismi di protezione contro la malattia coronarica" spiega Berti.
Per combattere, dunque, le malattie cardiovascolari anche nel gentil sesso grande attenzione bisogna riporre nel controllare i fattori di rischio che aumentano la probabilità di problemi al sistema cardiocircolatorio, molti dei quali, basti pensare a ipertensione, ipercolesterolemia o diabete per fare degli esempi, sono controllabili con efficaci terapie farmacologiche, disponibili come medicinali equivalenti, che uniscono una comprovata attività terapeutica a un costo accessibile a tutti.
“E' un dato assodato che i soggetti allergici sono in aumento a livello mondiale e l’Italia non fa eccezione”. Lo sostiene il dottor Antonio Meriggi Responsabile Sezione di Allergologia e Immunologia Clinica, IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, di Pavia. “I dati epidemiologici variano secondo la tipologia di allergia, le modalità di rilevazione e le nazioni studiate: si ritiene comunque che globalmente il 20-30% della popolazione mondiale possa essere affetta da allergie - dice Meriggi -. In Italia i dati epidemiologici riportano la prevalenza del 25 % di rinite e del 5% di asma in una popolazione di età compresa tra 18 e 45 anni”. Ma perché questo aumento?
“Le cause possibili sono diverse”, spiega lo specialista. “Il minor contatto con agenti infettivi induce il sistema immunitario, meno coinvolto nella difesa verso batteri e virus, a comportarsi in modo “anomalo”, inducendo allergie (la cosiddetta teoria “igienica”). Ma bisogna anche ricordare lo stile di vita occidentale con case ben coibentate e quindi più favorevoli alla proliferazione degli acari, e un’alimentazione con più additivi o coloranti non naturali, entrambi potenti allergeni. Dulcis in fundo, non vanno tralasciati l’inquinamento atmosferico e l'aumento della temperatura planetaria che inducono da un lato l’incremento della quantità e del potere allergizzante degli allergeni ambientali, e dall'altro l'irritazione delle vie aeree che favorisce la penetrazione degli allergeni nell'albero bronchiale”. Quali sono le più frequenti allergie? “La patologia da pollini costituisce la più frequente allergia da inalanti ed è responsabile di sintomi oculorinitici ed asmatici stagionali, mentre la sensibilizzazione nei confronti degli acari rappresenta la più rilevante forma di allergia non stagionale”, chiarisce Meriggi. “ Accanto alle classiche allergie a graminacee (erba dei prati) e parietaria (erba muraiola, più rilevante nel Sud Italia), negli ultimi decenni si è assistito alla comparsa di allergia verso alberi (Betulla e Nocciolo più frequentemente), caratterizzata da sintomi respiratori molto precoci (febbraio-marzo, spesso confusi con forme infettive), e verso Ambrosia, responsabile di sintomi tardo estivi (agosto-settembre)”. E’ da rimarcare la caratteristica comparsa di queste allergie in età adulta, mentre le sensibilizzazioni a graminacee, parietaria ed acari della polveri di casa insorgono usualmente in età giovanile.
“Per quanto concerne la terapia, non dobbiamo dimenticare che l'unico trattamento rivolto a normalizzare il “comportamento anomalo” del sistema immunitario, è costituito dall'immunoterapia (cosiddetto impropriamente vaccino)”, sottolinea lo specialista pavese. L'impostazione dell'immunoterapia segue però delle indicazioni ben precise che devono essere attentamente valutate in ambito specialistico. “La terapia antistaminica e steroidea inalatoria – attuabile anche ricorrendo a farmaci generici - costituisce un trattamento sintomatico, seppure usualmente efficace”, conclude Meriggi.
Paura degli effetti collaterali, scarsa fiducia nei farmaci, troppo poco tempo passato con il medico a discutere le cure. Sono solo alcuni dei tanti motivi che allontanano dalle terapie gli oltre 7.5 milioni di italiani con malattie respiratorie croniche come asma o broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) curabili con farmaci equivalenti: oltre 3.5 milioni non si curano per più di sei mesi in un anno, rinunciando del tutto ai farmaci per inalazione che consentono di tenere sotto controllo i sintomi nel lungo periodo o assumendoli poco e male. La scarsa adesione alle terapie diventa una ”epidemia” fra i bambini, gli adolescenti e gli anziani: sette under 14 su dieci dopo un anno hanno abbandonato i farmaci, il 60% degli adolescenti snobba le cure, oltre il 60% degli over 65 le segue per appena due mesi in tutto l'anno. Le conseguenze non si fanno attendere: una ricaduta grave su quattro e sei ricoveri su dieci sono imputabili proprio alla mancata o inadeguata aderenza alla terapia, con costi evitabili che arrivano quasi a 10 miliardi di euro l'anno.
“La mancata o inadeguata aderenza alle terapie ha molti motivi –osserva Walter G. Canonica, Direttore della Clinica di Malattie dell’Apparato Respiratorio dell'Università di Genova e Presidente della Società Italiana di Allergologia Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC) – I più comuni sono la dimenticanza, le variazioni nello schema terapeutico, uno stile di vita troppo attivo: tanti seguono la terapia dal lunedì al venerdì, poi nel fine settimana o in vacanza non riescono a farlo adeguatamente. Altri pazienti modificano deliberatamente la terapia, perché pensano di non averne bisogno nei periodi in cui hanno meno sintomi, perché temono gli effetti collaterali o perché lo schema terapeutico interferisce molto con la loro vita quotidiana. Altri ancora non comprendono bene le istruzioni del medico”.
Consapevolezza della malattia, correttezza e costanza nell’assunzione del farmaco sono i pilastri per migliorare l’aderenza alla cura.
“Sono più a rischio di terapie inadeguate e “intermittenti” i bambini, nei quali l'adesione alle cure dipende molto dai genitori: in alcune famiglie ad esempio si fa l'errore di aspettarsi che il bambino impari molto presto a gestire in maniera autonoma la malattia, ma non sempre è possibile" interviene Francesco Blasi, Ordinario di Malattie Respiratorie dell'Università Statale di Milano e presidente eletto della Società Italiana di Medicina Respiratoria (SIMER). Altra categoria a rischio, gli adolescenti: spesso per ribellione evitano deliberatamente i farmaci, negando la malattia e rendendo la terapia un mezzo per vincere la propria personale guerra verso l'indipendenza. Infine hanno una scarsa aderenza alle cure gli anziani, che dimenticano più spesso i medicinali e non di rado devono essere curati per più di una patologia, ritrovandosi a dover affrontare regimi terapeutici complessi e gravosi nei quali inevitabilmente finiscono per tralasciare qualcosa.
Migliorare l’aderenza alle cure però si può. “E’ indispensabile che medici e farmacisti forniscano ai pazienti più informazioni - osserva Canonica -. Semplicemente consigliare di tenere i farmaci sempre in uno stesso posto accresce del 44% l'aderenza, favorire una routine specifica per l'assunzione della dose quotidiana associandola a un'altra attività consueta la aumenta del 33%. Serve inoltre semplificare per quanto possibile il regime terapeutico: oltre il 60% dei pazienti preferisce un regime che preveda una sola somministrazione giornaliera”.
La nutrizione può rappresentare un fattore di protezione contro l’insorgere precoce dei disturbi cognitivi e delle demenze. Se infatti fino a non molto tempo fa si riteneva che il funzionamento della mente dipendesse unicamente dalla dotazione genetica, oggi si può affermare che non solo non è così, ma che al contrario fattori ambientali di tipo alimentare, fisico e cognitivo rivestono un ruolo fondamentale. Grazie alla Società Italiana di Neurologia scopriamo in che modo gli alimenti possono fare la differenza per il nostro cervello, anche quando è già malato, ricordando come una dieta possa risultare un valido aiuto alle terapie per le malattie neurodegenerative che possono giovarsi anche di efficaci farmaci equivalenti.
Un’alimentazione povera di colesterolo e ricca di fibre, vitamine ed antiossidanti presenti in frutta e verdura e di grassi insaturi contenuti nell’olio di oliva (la cosiddetta dieta mediterranea) riduce l’incidenza anche della malattia di Alzheimer come dimostrato in studi di popolazione su ampie casistiche. Alcune carenze vitaminiche, in particolare di acido folico e vitamina B12, possono facilitare l’insorgenza di demenza, e questo appare mediato da un aumento di omocisteina, una sostanza che risulta tossica per i vasi e le cellule nervose (neuroni). Gli antiossidanti presenti nella dieta ricca di frutta e verdura (come le vitamine C ed E, il licopene e le antocianine) contrastano l’accumulo di “radicali liberi” che producono danni a livello cerebrale. Anche un moderato consumo di caffè e di vino rosso, con le numerose sostanze antiossidanti contenute in queste bevande, sembrerebbero avere un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo della demenza. Oltre ad una dieta sana, un ulteriore meccanismo naturale di protezione è il sonno, che, come recentemente scoperto, faciliterebbe la rimozione di proteine tossiche dal cervello riducendo l’accumulo di beta-amiloide, la proteina alterata che provoca i danni tipici della malattia. .
Benché il beneficio di una dieta a basso contenuto di calorie (ipocalorica) nella prevenzione della Sclerosi Multipla, ipotizzato in passato senza solide basi scientifiche, sia stato smentito, sembra ormai dimostrato come una dieta ricca di grassi insaturi sia in grado di modulare e diminuire l’attività infiammatoria legata a questa patologia, svolgendo una funzione protettiva. Inoltre, se si considera che uno dei meccanismi implicati nella SM è il danno ossidativo, appare fondamentale prediligere una dieta ricca di alimenti con proprietà anti-ossidanti, contenenti vitamina A, E, C, e acido lipoico. Un ruolo di particolare importanza nella SM è svolto dalla vitamina D, con le sue importanti funzioni che modulano l’attività del sistema immunitario: la patologia sembra infatti più frequente in aree geografiche a minore esposizione ai raggi solari. A questo proposito, sono in corso studi per rispondere al quesito sul possibile effetto benefico della integrazione di vitamina D nella dieta. Va comunque sottolineato che in genere le persone con SM soffrono di osteoporosi, per la immobilità, la frequente terapia con steroidi e la scarsa esposizione ai raggi solari, per cui una terapia con vitamina D e calcio può trovare, in alcuni casi, una sua giustificazione come terapia preventiva del rischio di fratture.
Un’alimentazione ispirata alla dieta mediterranea e con un basso contenuto di sodio è un elemento cardine della prevenzione primaria dell’ictus, dato sottolineato da tutte le più recenti linee guida. Se da un lato vi sono nutrienti da consumare moderatamente, quali sodio, alcol e grassi saturi, che si associano a un maggiore rischio vascolare, per altri cibi è stato riscontrato un effetto protettivo: Omega -3, fibre, Vitamina B6 e B12, così come l’assunzione di calcio e potassio sembrano contribuire a ridurre il rischio di ictus cerebrale.
La carenza di determinati macronutrienti e micronutrienti, tra cui soprattutto vitamine del gruppo B e proteine, può provocare danni a carico delle strutture nervose. Basti pensare al caso dell’epidemia di neurite ottica che colpì la popolazione cubana agli inizi degli anni Novanta, quando, dopo le restrizioni alimentari legate all’embargo statunitense, fu impossibile assumere livelli adeguati di proteine, vitamine e minerali. Ma è quanto si può verificare anche nel caso di un regime alimentare vegetariano seguito da quasi 4 milioni di italiani, che se da un lato si è dimostrato in grado di prevenire patologie cardiovascolari o diabete, dall’altro rischia, soprattutto nella sua declinazione vegana (400.000 persone in tutta Italia), di determinare serie carenze di alcuni nutrienti essenziali. In particolare, la carenza di vitamina B12 determina sia un aumento dei livelli plasmatici di omocisteina, sostanza associata all’incremento del rischio di demenza e di malattie cerebro-vascolari, sia un aumento dei livelli di un’altra sostanza, la S-adenosil-metionina, che favorisce l’insorgenza di disturbi a carico delle strutture nervose.
La settimana mondiale del cervello quest’anno è stata dedicata alla nutrizione come fattore di protezione contro l’insorgere precoce dei disturbi cognitivi e delle demenze. Se infatti fino a non molto tempo fa si riteneva che il funzionamento della mente dipendesse unicamente dalla dotazione genetica, oggi si può affermare che non solo non è così, ma che al contrario fattori ambientali di tipo alimentare, fisico e cognitivo rivestono un ruolo fondamentale. Gli esperti della Società Italiana di Neurologia (SIN) hanno spiegato in che modo gli alimenti possono fare la differenza per il nostro cervello, anche quando è già malato.
In particolari i neurologi della SIN hanno analizzato il ruolo dell’alimentazione nel facilitare la terapie del morbo di Parkinson, incentrata su un farmaco come la levodopa, disponibile da tempo come generico. I pasti, specie se ricchi di proteine, possono interferire sia con l’assorbimento della levodopa, sia con il suo ingresso nel cervello contribuendo alla diminuita efficacia del farmaco. Vi sono numerose ragioni per ritenere importante l’uso di una dieta prevalentemente vegetariana a basso contenuto proteico nella Malattia di Parkinson.
La ragione più importante è quella di facilitare l’assorbimento della levodopa contrastando così la diminuita efficacia post-prandiale che si osserva specie nelle fasi avanzate della malattia, causa di disabilità e rischio di cadute. I prodotti vegetali, inoltre, garantiscono un ricco apporto di fibre e l’elevato contenuto di carboidrati tipico di questo regime alimentare contrasta la perdita di peso corporeo che spesso affligge i pazienti con MP a causa dell’effetto combinato dei movimenti involontari e della difficoltà nella deglutizione. I cibi vegetali sono inoltre più facili da masticare, caratteristica fondamentale per pazienti nello stadio medio-avanzato del parkinsonismo, che presentano problemi di deglutizione. Infine, i minerali e le vitamine di cui i cibi vegetali sono ricchi, sono fondamentali per soddisfare il maggior fabbisogno di tali micronutrienti (soprattutto Vitamina C, D, E, ferro, calcio e magnesio) dei pazienti con MP. Da queste considerazioni nascono alcune indicazioni dietetiche per migliorare la motilità dei malati parkinsoniani in terapia con levodopa seguendo una dieta bilanciata e caloricamente adeguata al mantenimento del “peso salute”.
Al primo posto ci sono i disturbi d'ansia (14%), seguiti da insonnia (7%) e depressione maggiore (6,9%), poi i disturbi cosiddetti "somatoformi" (ovvero caratterizzati da sintomi fisici che indurrebbero a pensare a una malattia somatica (6,3%), quindi il disturbo da iperattività e deficit dell'attenzione-Adhd (5% dei giovani), la dipendenza da alcol e droghe (4%) e infine la demenza (dall'1% nella fascia compresa tra i 60 e i 65 anni al 30% fra gli 80enni). E’ la classifica dei disturbi mentali più diffusi nella popolazione europea, stilata in occasione del 23° Congresso dell'Associazione europea di psichiatria (Epa) che ha visto riuniti a Vienna (Austria) i principali esperti a livello mondiale su queste patologie.
Attualmente, secondo i dati snocciolati dagli esperti, in Europa le persone colpite da disturbi mentali di vario tipo sono quasi 165 milioni (su una popolazione di 514 milioni di abitanti, con una percentuale pari quindi al 38%) con un impatto economico stimato in 798 miliardi di euro, ma solo un malato su tre si cura e arriva a rivolgersi a uno specialista.
Le statistiche europee parlano quindi di oltre 61 milioni di malati d'ansia (8 milioni solo in Italia), 29 milioni di insonni e quasi altrettanti depressi (3,9 milioni nel nostro Paese), oltre a 6 milioni di persone affette da demenza, e mettono in evidenza che tutti questi numeri sembrano destinati a crescere nel prossimo futuro. Quanto al nostro Paese, i soggetti con queste patologie si stima siano, in tutto, circa 17 milioni.
I disturbi mentali contribuiscono al 26,6% della disabilità totale (anni persi per mortalità precoce o vissuti in malattia): quelle con un impatto maggiore sono la depressione (7,2%) e l'Alzheimer (7,3%), e i problemi legati all'abuso di alcol (3,4%).
Un problema, quello legato alla salute mentale, che sta assumendo sempre di più i contorni di una questione di sanità pubblica: entro il 2030, avvertono gli esperti, le patologie psichiatriche saranno infatti le malattie più frequenti a livello mondiale. Tra le cause dell'aumento è stata indicata anche la crisi economica.
Sul versante delle cure bisogna ricordare che questi disturbi possono giovarsi di terapie farmacologiche efficaci, attuabili anche con farmaci generici di grande sicurezza, qualità ed economicità.
Un paziente con colon irritabile su dieci soffre di depressione a e quattro su dieci sono colpiti da ansia. Lo mostrano i primi dati di uno studio dell'Associazione Italiana dei Gastroenterologi ed endoscopisti digestivi Ospedalieri (Aigo) su oltre 500 pazienti affetti da questa sindrome e in cura presso 26 centri Aigo. Si conferma, quindi, quanto questa malattia abbia gravi ripercussioni sulla qualità di vita delle persone affette.
Inoltre, emerge come ad ammalarsi di sindrome di colon irritabile siano in prevalenza donne, il 73 per cento, con un'età media di circa 40 anni. "Lo studio Aigo - ha spiegato Marco Soncini, coordinatore dello studio e consigliere nazionale dell'associazione - analizza la situazione sia dei pazienti appena diagnosticati (49,9 per cento dei casi osservati) sia di quelli in cura già da tempo (51,1 per cento). Si dovrebbe presumere che chi è già in terapia dovrebbe avere una qualità di vita migliore ma purtroppo non è così: infatti non emergono tra queste due categorie differenze di rilievo circa il modo in cui ogni paziente valuta la sua situazione. Ciò indica che le terapie oggi disponibili non sono soddisfacenti perché non riescono a ridurre le loro difficoltà, controllando i sintomi della malattia".
Nello studio oltre la metà dei pazienti segnala che la sindrome li condiziona obbligandoli a cambiamenti di abitudini sia nella vita privata sia in quella lavorativa e relazionale. Per cercare di misurare l'intensità dei sintomi, i ricercatori hanno chiesto ai pazienti di indicare le difficoltà che provano utilizzando una scala visuale, cioè di indicare graficamente il livello del loro disagio riempiendo una porzione più o meno ampia di una barra lunga 10 centimetri. L'estremo a sinistra della retta rappresenta l'assenza del sintomo mentre l'altra estremità indica il massimo livello percepito. Dai risultati è emerso quanto la patologia sia grave poiché in media i pazienti hanno valutato il livello del loro dolore con una intensità pari a circa 5/10 ed una percezione del gonfiore intestinale di poco superiore (5.5/10). Risulta quindi tutt’altro che infrequente la necessità nella cura dell’intestino irritabile di ricorrere a farmaci che contrastino i disturbi dell’umore come ansia e depressione, disponibili da tempo come medicinali equivalenti.
Gufi più a rischio di alterazioni del metabolismo rispetto alle allodole. Non si tratta di malattie riguardanti il mondo ornitologico. I "gufi", ovvero chi tende a fare le ore piccole e a svegliarsi tardi la mattina, sarebbero più a rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, la sindrome metabolica e la sarcopenia, rispetto alle "allodole", cioè le persone mattiniere, nonostante dormano per lo stesso numero di ore.
Lo ha scoperto uno studio della Korea University College of Medicine di Ansan, Korea, pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Secondo i ricercatori, il maggior rischio dei "gufi" di sviluppare il diabete di tipo 2 (cioè non insulino dipendente) sarebbe dovuto alla carenza di sonno, alla scarsa qualità del sonno e all'alimentazione inadeguata, fattori che potrebbero portare alla fine a problematici cambiamenti metabolici. Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato le abitudini riguardanti il sonno e il metabolismo di 1.620 persone di età compresa tra i 47 e i 59 anni, che hanno preso parte al Korean Genome Epidemiology Study (KoGES).
Gli scienziati hanno inoltre misurato il grasso corporeo totale, la massa magra e il grasso viscerale addominale. Sulla base dei risultati dei questionari a cui sono stati sottoposti, 480 partecipanti sono stati classificati come "allodole" e 95 come "gufi". I restanti sono stati invece classificati a metà tra gufi e allodole. Ebbene, i nottambuli tendevano a essere più giovani, avevano livelli più elevati di grasso corporeo e di trigliceridi rispetto ai mattinieri. I gufi sono risultati anche più a rischio di sarcopenia, una condizione in cui il corpo perde gradualmente massa muscolare. Gli uomini "gufi" hanno anche avuto più probabilità di sviluppare diabete e sarcopenia. Tra le donne, invece le nottambule tendevano ad avere più grasso localizzato a livello addominale e un rischio significativamente più elevato di sindrome metabolica, un insieme di fattori di rischio che aumentano le probabilità di sviluppare malattie cardiache, ictus e diabete. Lo studio aggiunge così un nuovo fattore di rischio per il diabete dell’adulto o di tipo 2, malattia del metabolismo del glucosio per il cui trattamento si ricorre in prima battuta a farmaci generici di provata efficacia e di costo contenuto.
In un futuro molto vicino basterà scrivere sulla tastiera del pc per avere una diagnosi precoce di Parkinson. Un gruppo di ricercatori americani e spagnoli del Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha messo a punto un algoritmo capace di rilevare micro cambiamenti nelle modalità di battere le dita sulla tastiera. Un primo passo importante, si legge sulla rivista 'Nature', verso la possibilità di individuare la malattia dal semplice modo di scrivere.
Infatti il modo in cui si preme sui tasti può fornire molte informazioni sullo stato fisico e sull'affaticamento, secondo le osservazioni dei ricercatori che, sulla base degli schemi di battitura, hanno realizzato l'algoritmo. In una prima fase dello studio, infatti, sono state analizzate una ventina di persone che lavoravano al pc in un contesto normale e durante il giorno. Un altro gruppo è stato osservato di notte e con deprivazione di sonno. La stanchezza altera leggermente il modo di battere sui tasti. E i tempi di reazione, come noto, si allungano.
Le conclusioni dello studio suggeriscono la possibilità di usare l'algoritmo, basato sulla durata di pressione del tasto, per individuare precocemente la malattia di Parkinson, patologia neurodegenerativa che comincia da 5 a 10 anni prima dell'apparizione dei primi sintomi. E le prime manifestazioni sono proprio legate al rallentamento dei movimenti.
Una diagnosi precoce consente di avviare tempestivamente terapie basate su farmaci disponibili anche come equivalenti, che si sono dimostrate capaci di rallentare l’evoluzione della malattia.
Uomini e donne, adulti e bambini. La trombosi colpisce ogni anno 600.000 italiani, causando morte o grave invalidità. Tra loro, 8 mila sono giovani, adolescenti, e bambini ma anche neonati. Come spiega in occasione della 4a Giornata Nazionale per la Lotta alla Trombosi, Lidia Rota Vender presidente di ALT – Associazione per la Lotta alla Trombosi e alle malattie cardiovascolari - Onlus: “La prevenzione della trombosi non si delega agli esami, si fa concretamente guardandosi allo specchio, diventando consapevoli del rischio che potremmo correre e del pericolo che possiamo evitare”.
La trombosi, cioè la formazione di trombo in un’arteria o in una vena è facilitata da vari fattori di rischio come difetti della coagulazione, alterazioni della quantità di grassi nel sangue, pressione troppo alta del sangue, diabete e fumo di sigaretta. Le manifestazioni della trombosi comprendono l’infarto del miocardio, l’ictus e le arteriopatie delle gambe quando è colpito il sistema arterioso e trombosi venosa profonda, tromboflebite o embolia polmonare quando il trombo si localizza nelle vene.
Tenere sotto controllo i fattori di rischio con uno stile di vita corretto e quando necessario con farmaci, oggi disponibili come equivalenti quindi alla portata di tutti, riduce enormemente i casi di trombosi. "Sono troppi coloro che ancora oggi ignorano quanta differenza fa lo scegliere consapevolmente, giorno dopo giorno, uno stile di vita intelligente, che non richiede denaro, né fatica, solo volontà, per proteggere il nostro cuore, il nostro cervello, il nostro corpo dalle malattie cardiovascolari da trombosi. Ictus,embolia, infarto”, afferma la dottoressa Rota Vender.
Insomma, con un po’ di attenzione si può scongiurare un nemico pericoloso per la vita.
E' diffusa tra i bambini ma perché si arrivi a una diagnosi corretta trascorre spesso molto tempo, perché si passa da specialisti sbagliati o si fanno analisi che non portano a un risultato conclusivo. L'emicrania colpisce il 9% dei bambini al di sotto di 12 anni secondo alcuni studi scientifici, ma prima che venga diagnosticata passano in media due anni e qualche volta tre.
Il ruolo di prime "vedette" è affidato ai genitori, che devono osservare il bambino, ma poi tocca al pediatra con adeguata formazione dare risposte efficaci e sicure. Se ne è discusso alla scuola di pediatria organizzata a Capri da Paidòss, l'Osservatorio Nazionale sulla salute dell'infanzia e dell'adolescenza.
"Il genitore dovrebbe iniziare a preoccuparsi innanzitutto se anche lui soffre di emicrania - sottolinea Bruno Colombo, responsabile del centro per la cura e la diagnosi delle cefalee dell'età pediatrica ed adulta dell'università Vita-salute, ospedale San Raffaele di Milano - la familiarità, infatti, aumenta del 40% il rischio, e del 70% se a soffrirne sono entrambi i genitori. Poi si deve osservare il comportamento del bambino. Un bimbo che soffre di emicrania, che ha spesso anche sintomi come vomito e nausea, si ritira dalle attività sociali, evita lo sforzo fisico e ha dei comportamenti che devono essere presi sul serio. Il pediatra, poi, con poche domande mirate può confermare il sospetto".
Una volta ottenuta una diagnosi certa il consiglio è di tenere un diario delle crisi. "Se si supera il limite di 4 attacchi al mese interveniamo con le terapie - aggiunge - stiamo ottenendo buoni risultati con la Ginkgolide B insieme a coenzima Q10, vitamina B12 e magnesio, tutte sostanze naturali, mentre in casi più gravi si possono usare antidolorifici a minore impatto”, disponibili come farmaci equivalenti. Anche l'eliminazione di alcuni cibi, del tutto soggettiva, può aiutare. L'importante è non affidarsi al 'fai da te', come fanno certe mamme che danno al figlio i loro stessi farmaci, ma rivolgersi sempre al medico specialista.
In Italia il 6% della popolazione soffre di asma. “Questo significa che nel nostro paese sono più di tre milioni e mezzo le persone, tra adulti e bambini, colpiti da questa malattia respiratoria”, ha affermato a Bologna in occasione del 28° Congresso Nazionale della SIAAIC, Società Italiana Allergologia, Asma ed Immunologia Clinica, il professor Walter G. Canonica, Neopresidente SIAAIC e Direttore Clinica Malattie Respiratorie e Allergologia dell'Università di Genova. “L’asma è una delle malattie respiratorie croniche più diffuse nel mondo, presente in tutti i paesi anche se con livelli molto variabili. Rappresenta quindi un consistente problema di sanità pubblica, anche perché la sua prevalenza è in aumento a causa della convergenza di diversi fattori”, sottolinea il professore.
Si tratta di una malattia complessa che si manifesta attraverso una infiammazione cronica delle vie aeree. L’infiammazione genera un aumento della responsività bronchiale che, a sua volta, causa episodi ricorrenti (i cosiddetti ‘attacchi d’asma’) di crisi respiratorie, respiro sibilante, senso di costrizione toracica e tosse. Durante gli attacchi, che possono essere improvvisi o graduali, peggiorano i sintomi e la funzionalità respiratoria. Se non trattati in modo adeguato, gli attacchi possono essere anche molto gravi e addirittura fatali. Aver individuato nell’infiammazione cronica il punto chiave della definizione della patologia, come avvenuto in anni recenti, ha avuto importanti ricadute sia a livello diagnostico che di trattamento dell’asma. E’ l’infiammazione che determina il livello di gravità dell’asma ed è anche il fattore che meglio risponde alla terapia con farmaci antinfiammatori somministrati per via inalatoria, anche in assenza di altri sintomi. La broncoostruzione causata da contrazione del muscolo cardiaco può essere trattata con inalazione di farmaci broncodilatatori. La terapia di questa malattia può giovarsi efficacemente di farmaci equivalenti, di basso costo e di elevata qualità.
Un milione e mezzo di bambini e ragazzi con allergie nasali e pollinosi, almeno 1.000.000 i giovani sotto i 18 anni affetti da asma. In Italia il fenomeno allergie, tra marzo e aprile - quando cipressi, mimose, ulivi, parietarie e graminacee rilasciano i loro pollini in grande quantità - subisce un'impennata e diventa un problema per milioni di persone, adulti e bambini.
"Le allergie - sottolinea Alessandro Fiocchi, responsabile di Allergologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma - si combattono efficacemente con la iposensibilizzazione specifica, disponibile sia nella tradizionale somministrazione sottocutanea che per via sublinguale”. I pollini sono minuscoli granellini che permettono alla pianta di riprodursi e vengono trasportati dal vento, dagli insetti e dall'acqua nel periodo dell'impollinazione. Da marzo a luglio la loro concentrazione cresce soprattutto nelle giornate calde, assolate e ventose (sono leggerissimi e facilmente trasportabili nell'aria). Maggiore è la prossimità alle piante e alle erbe che li producono, maggiore è la quantità di pollini che può causare un aumento dei disturbi alle persone allergiche. Quando i sintomi come raffreddore, prurito, bruciore e lacrimazione degli occhi, rinorrea (naso che cola) sono particolarmente fastidiosi si può ricorrere a farmaci antistaminici, disponibili come equivalenti, quindi di provata efficacia e basso costo per i cittadini.
Un farmaco, comunemente usato come anticolesterolo, avrebbe in realtà una duplice funzione: oltre ad abbassare la concentrazione nel sangue di trigliceridi e di colesterolo LDL (una forma di colesterolo dannosa), e aumentare la concentrazione del colesterolo HDL (una forma di colesterolo utile), il fenofibrato sembra in grado di stimolare gli stessi recettori che vengono interessati dal Tetraidrocannabinolo (Thc) il principio attivo della cannabis. A scoprirlo un gruppo di ricercatori della School of Life Sciences della University of Nottingham Medical School nel Regno Unito che hanno pubblicato i risultati delle loro ricerche nella rivista The Faseb Journal.
Secondo i ricercatori, proprio questa sua caratteristica lo può rendere come il padre di una nuova classe di farmaci utili a contrastare diverse patologie, come il dolore, l’anoressia, la nausea, e diverse condizioni psichiatriche e neurologiche.
''Il nostro studio - spiega uno dei principali autori della ricerca, Richard Priestley - mira a fornire le basi per la ricerca di nuovi farmaci adatti a questi recettori''. Il fenofibrato, disponibile come equivalente, è normalmente impiegato per ridurre la concentrazione di grassi nel sangue, quando la dieta a basso contenuto in grassi e colesterolo, proseguita per almeno 3 mesi, non sia risultata efficace, e prevenire così danni al cuore e ad altri organi.
E’ un esercito di circa 500.000 persone, di cui circa 125.000 con forme resistenti alla terapia farmacologica. Stiamo parlando di quanti soffrono di epilessia in Italia. Eppure, nonostante questi numeri, secondo la Federazione italiana epilessie (Fie), che riunisce 23 associazioni in diverse regioni italiane, l’epilessia resta “un problema sommerso a causa di irragionevoli pregiudizi”. Così, in occasione della Giornata internazionale, la Fie ha posto l’accento sul fenomeno della resistenza alle terapie e sulle difficoltà di accesso alle cure da parte di molti pazienti. Sebbene esistano numerosi farmaci – molti dei quali disponibili come equivalenti - che controllano le crisi, consentendo a chi ne fa uso di condurre una vita normale “il 30% delle persone con epilessia non risponde alle terapie attualmente disponibili, con gravi ricadute sulla loro qualità di vita”, si legge in una nota della Federazione. “Tutto ciò fa dell’epilessia una vera e propria emergenza sanitaria e sociale”.
Secondo la Fie è necessaria una programmazioni di interventi volti al:
a) potenziamento del numero dei centri/strutture specializzate per la diagnosi e cura dell’epilessia che rispondano a standard previsti dalle Linee guida internazionali e delle Società scientifiche nazionali, con competenze multidisciplinari: neurofisiologia clinica, farmacologia, genetica, neuroradiologia, neuropsicologia e servizi di counseling;
b) potenziamento dei centri per il trattamento neurochirurgico dell’epilessia;
c) predisposizione di Linee guida per il rilascio della patente di guida ai pazienti affetti da epilessia.
“La nostra organizzazione – spiega Rosa Cervellione, presidente della Fie – ha l’obiettivo di restituire alle persone con epilessia la speranza di poter vivere pienamente la propria vita. Gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di questa possibilità sono molteplici, ma siamo sicuri che la società civile saprà dare risposte adeguate ai bisogni espressi dalle molte migliaia di persone che in Italia soffrono di epilessia”.
Sono circa 250.000 le persone che in Italia soffrono di schizofrenia, malattia cronica grave che conduce a una drastica diminuzione dell’aspettativa di vita. Una condizione che in Europa riguarda circa 3,5 milioni di persone e che a livello mondiale colpisce, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, approssimativamente 24 milioni di persone.
Questi dati confermano l’importanza del confronto tra esperti sulla pratica clinica, alla luce di un nuovo approccio che pone al centro il benessere del paziente psichiatrico e le strategie opportune da mettere in atto per migliorare la loro qualità di vita. Del tema si è discusso all’interno del 19esimo congresso della Società italiana di psicopatologia (Sopsi).
“La schizofrenia è tra le prime 10 patologie a più alto impatto di disabilità sociale – sottolinea Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze all’ospedale Fatebenefratelli di Milano – Insorge frequentemente nell’adolescenza, tra i 16 e 18 anni, ed è caratterizzata da vulnerabilità genetica ai fattori ambientali quali abuso di stupefacenti e alcol, disagio sociale e immigrazione. Nelle aree urbane la prevalenza dei disturbi psicotici è aumentata. Nascere e vivere fino a 13 anni in ambienti metropolitani aumenta infatti il rischio di schizofrenia – avverte lo specialista – Intercorre ancora troppo tempo tra la comparsa dei sintomi e la possibilità di ricevere cure e si corre il rischio di arrivare troppo tardi. Fondamentali sono quindi il riconoscimento precoce e i trattamenti pedagogico, psicoterapico e farmacologico, in modo da monitorare sia l’evoluzione della persona sia l’evoluzione della malattia. Perché agendo subito si minimizzano le conseguenze”.
Il trattamento della schizofrenia può contare su farmaci equivalenti, di provata efficacia e convenienti per i cittadini.
Con l’entrata in commercio del primo biosimilare di un anticorpo monoclonale (infliximab) approvato dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema), il dibattito sull’impiego di questi farmaci nel nostro Paese è entrato nel vivo, sia per la complessità delle molecole sia perché rappresentano una nuova generazione di biosimilari, dal punto di vista dell’impiego clinico e del maggior potenziale di controllo dei bilanci in sanità. Al convegno di Bergamo “Biosimilari. Prospettive future e strategie di gestione tra razionalizzazione della spesa e tutela dei pazienti” è stata presentata una recente analisi di budget impact sui risparmi generabili in Italia con l’impiego di infliximab biosimilare: fino a 48 milioni di euro nel quinquennio 2015-2019.
Infliximab e il suo biosimilare sono anticorpi monoclonali il cui impiego è approvato nelle malattie infiammatorie croniche immuno-mediate (Imid) come artrite reumatoide, spondilite anchilosante, malattia di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi e artrite psoriasica. I farmaci biologici, tra cui infliximab, hanno rivoluzionato lo scenario terapeutico di queste patologie, migliorandone in modo significativo la prognosi. Il costo elevato, tuttavia, ne ha finora limitato l’impiego. Oggi la disponibilità del primo biosimilare indicato per la cura delle Imid permette di liberare importanti risorse, che potrebbero essere destinate ad ampliare l’accesso dei pazienti al biotech.
Permangono, tuttavia, resistenze sull’utilizzo dei biosimilari, dovute al loro essere “simili ma non identici” all’originator, eppure sono farmaci sottoposti a uno stringente iter approvativo da parte di Ema. “Il biosimilare è sviluppato in modo da risultare sovrapponibile in termini di qualità, sicurezza, efficacia e immunogenicità al prodotto biotecnologico già autorizzato, il medicinale di riferimento”, spiega Armando Genazzani, professore di Farmacologia all’Università del Piemonte Orientale.