Nel verde si sta bene, è abbastanza chiaro a tutti. Viverci migliora però non solo genericamente la “qualità della vita”, ma anche – dimostra ora una corposa ricerca americana - la sua “quantità”. Il sogno di un “ritorno alla natura” è in verità perlopiù un decantato fioretto senza seguito concreto, tant'è che, se il processo di urbanizzazione coinvolge al momento circa la metà della popolazione mondiale, entro cinque anni la proporzione supererà nettamente i due terzi, secondo ogni stima internazionale. Tuttavia, a incalzare in modo consistente sui benefici di quel “salto all'indietro” realizzato da pochissimi interviene una ricerca dell'Harvard Chan School of Public Health.
Gli esiti sono pubblicati sulla rivista Environmantal Health Perspectives. E' stato osservato un campione di oltre 108mila donne, per un periodo di otto anni, ricostruendone il vissuto “geografico” e “clinico” tra il 2000 e 2008. Il dato complessivo è quello di una riduzione del 12% del tasso di mortalità tra chi vive in aree a più fitta vegetazione.
In cima ai benefici c'è naturalmente la qualità del respiro con un tasso di decesso per tali patologie ridotto del 34%, ma significative differenze sono state rilevate anche sulle malattie tumorali. “S appiamo che piantare della vegetazione può aiutare l'ambiente in molti modi, ma ora abbiamo dimostrato un co-beneficio, quello di migliorare la salute ”, rivendica il coordinatore dello studio Peter James.
Non ultimi, tra i vantaggi rilevati, quelli sulla salute mentale, con il riscontro di una riduzione addirittura del 30% nell'incidenza della depressione. In questo peserebbero, secondo i ricercatori, non solo la qualità migliore dell'aria, ma anche spazi e temi incrementati di relazione sociale e attività fisica.
Salvifico il verde, dunque, e, se proprio non è possibile il trasloco in campagna, l'urgenza è quella di migliorare l’ambiente urbano. Il tema era stato approfondito l'anno scorso da una ricerca di biologi californiani, che ne hanno rilevato il positivo impatto sull'attività cerebrale, con particolare riferimento all’attività della corteccia prefrontale subgenuale. Determinanti le politiche urbanistiche per rinvendire le città, favorirne l'attività sportiva e la mobilità in bicicletta. Ma è decisivo anche il comportamento individuale: “ 90 minuti al giorno di passeggiata nei parchi” è la ricetta accertata dai ricercatori.
Arriva una conferma, che per la verità è l'ennesima. I farmaci generici sono pienamente equivalenti, per efficacia e sicurezza terapeutica, ai medicinali di marca anche per la cura dell'epatite C, e il loro costo molto più basso consentirebbe virtualmente la cura dell'intera popolazione mondiale. La novità è nell'ampiezza dell'ultima ricerca che l'ha documentato, l'autorevolezza della platea a cui è stata sottoposta, e la coda di nette prese di posizione conseguenti da parte dei vertici scientifici mondiali.
Il riscontro arriva dal Congresso Internazionale sul Fegato, l'assise annuale (tenutasi stavolta a Barcellona) dell'European Association for the Study of the Liver (EASL). La corposa indagine è stata condotta dall’accademia australiana, ma ha coinvolto pazienti anche di Stati Uniti, Canada, Europa, Sudest asiatico e Africa. L'equivalenza tra generici e “griffati” è stata riscontrata sugli antivirali diretti (“DAAs”) per il trattamento dell'HCV, il virus dell'epatite C, identificato nel 1989. Solo che i primi arrivano a costare in alcuni paesi addirittura meno dell’1% dei secondi.
Nel dettaglio, i pazienti sono stati monitorati prima, durante e dopo il trattamento, a 4 e 12 settimane dalla fine della terapia. Ebbene, sono stati rilevati tassi virologici vicini al 100%, con punte massime nell’uso congiunto di sofosbuvir e daclatasvir.
Riscontri del tutto convincenti, che hanno innescato qualche discussione anche nel nostro paese, tanto da indurre il Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Luca Pani, a ricordare che il generico per l’epatite C non può esserci al momento in Italia, in quanto “ facciamo parte del Patent Cooperation Treaty”. Bisogna aspettare la scadenza delle licenze. Il che, a margine, spazza via anche i residui spauracchi lanciati qua e là sui social media circa la possibile presenza di prodotti “made in India” o in altri paesi emergenti tra gli equivalenti in farmacia.
Nondimeno il sasso è lanciato, rimbalzando ai massimi livelli. “Terapie equivalenti come quella per l'epatite C potrebbero avere implicazioni enormi in tutto il mondo”, commenta il leader dell’EASL Laurent Castera. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che stima fino a 150 milioni le persone con HCV e a 700mila i decessi l’anno, ribadisce che “ gli equivalenti hanno il potenziale di ridurre in modo drammatico le morti causate da epatite C ”.
“Il tarocco è servito”, è uno degli ultimi slogan di Coldiretti. “In due pizze su tre c'è mozzarella lituana e salsa cinese”, denuncia, tra i mille dati allarmanti snocciolati nei giorni scorsi a margine di una mobilitazione “in difesa del made in Italy” - e in realtà di molto di più. Migliaia gli agricoltori accorsi, anche a bordo di trattori. Sede dell'iniziativa Napoli, in ossequio allo studioso statunitense Ancel Benjamin Key, che visse per quarant'anni nel capoluogo campano e fu il primo a documentare con chiarezza scientifica gli effetti benefici della dieta mediterranea, elevata poi dall'Unesco a “Patrimonio dell'umanità”.
Il tema della tutela delle produzioni locali è naturalmente “sindacale” (Coldiretti, col suo milione e mezzo di associati, è la più grande organizzazione di agricoltori in Europa), oltre che culturale, sociale e ambientale. Ma c'è dell'altro ancora. In ballo è la nostra salute. Nei prodotti importati a basso costo, emergono dati allarmanti (tratti dall'Agenzia Europea sulla Sicurezza Alimentare e dall'ultimo Rapporto ministeriale sui Residui dei Fitosanitari) circa la presenza di residui chimici, quali micotossine, additivi e coloranti, ben al di là dei limiti di legge stabiliti in sede europea.
Campioni in tal senso sono i broccoli della Cina (che l'anno scorso ha raddoppiato le esportazioni alimentari in Italia), risultati irregolari nel 92% dei test, ma preoccupa perfino il prezzemolo del Vietnam (78%) e il basilico dell'India (60%), e non si salvano neppure prodotti mediterranei, quali la melagrana egiziana, contaminata in un caso su tre, né quelli sudamericani, quali i meloni e cocomeri dominicani, per il 14% fuori norma.
La “black-list” è drammaticamente lunghissima, e fa particolarmente male dinanzi a un paese che è il più “green” d'Europa, con 281 prodotti a denominazione di origine (Dop/Igp), record di aziende biologiche, divieto di Ogm, leadership sulla sicurezza alimentare con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari (0,4%, ossia un terzo della media continentale).
“Liberare le imprese italiane dalla concorrenza sleale delle produzioni straniere realizzate in condizioni di dumping sociale, ambientale con rischi concreti per la sicurezza alimentare dei cittadini”, l'appello del presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo, che merita un seguito concreto.
L’equivoco può scaturire dal nome stesso. Le cosiddette “malattie rare” non sono “poche” né colpiscono “pochi”. Sono definite tali in sede europea quando il numero di pazienti non supera la soglia dello 0,05% della popolazione. Il problema è, tra l’altro, che spesso la patologia non è neppure diagnosticata, talora è perfino non conosciuta, e rimane “senza nome”. Quelle che ce l’hanno ammontano del resto a più di settemila, ed è una cifra per giunta destinata a crescere con l’avanzare della ricerca, specie in ambito genetico. Solo rimanendo ai casi accertati, coinvolgono complessivamente circa due milioni di italiani, e decine di milioni di europei, per il 70% in età pediatrica.
Di quelle migliaia di patologie – alcune gravissime - meno di 600 sono incluse dall’Istituto Superiore della Sanità tra le esenti da ticket, anche se l’elenco è stato lievemente allungato su iniziativa di alcune Regioni. Il quadro è dunque ancora quello dell’emergenza, sul fronte della ricerca, delle difficoltà di accesso alla diagnosi e alla cura, dei costi per i pazienti, nonché delle esigenze di informazione e sostegno psicologico. Di qui l’importanza di “fare rete”, anche “dal basso”, ossia tra i produttori e le associazioni che si occupano di assistere le famiglie colpite.
Un passo di rilievo in proposito scaturisce dall’abbraccio tra Assogenerici e la Fondazione Hopen, che riunisce medici, docenti universitari, imprenditori e altri cittadini accomunati da esperienze a contatto con “l’incubo dell’isolamento, dell’abbandono, del non sapere che cosa c’è che non va”, e quindi in prima linea nel sostegno alle famiglie, oltre che alla sensibilizzazione e alla formazione degli operatori pubblici.
Hopen sarà dunque ospitata presso la sede di Assogenerici. “È un piccolo contributo pratico al quale attribuiamo un forte valore simbolico – spiega il presidente di quest’ultima Enrique Häusermann - : il circolo virtuoso che va dalla ricerca fino alla genericazione, dove l’una alimenta l’altra, non è solo teorico ma diventa reale attraverso azioni e progetti concreti ”. Il nuovo spazio a disposizione della Fondazione, spiega infatti il suo presidente Federico Maspes, sarà “ il perno operativo fondamentale per le nostre attività giornaliere, il riferimento dei pazienti al programma malattie non diagnosticate di Telethon, i progetti per l’aggregazione delle famiglie e il monitoraggio del sito e dei social per sostenitori e famiglie coinvolte ”.
L’orizzonte per giunta valica i confini nazionali. “Abbiamo gettato le basi per la costituzione di un network europeo delle associazioni”, esulta Maspes. E in effetti, all’incontro che ha sancito nei giorni scorsi il sodalizio, hanno partecipato altre realtà continentali, quali Uniamo, Eurordis, Genetic Alliance e Swan Uk, Association Sans Diagnostic et Unique. “Costruire un ponte tra ricerca e clinica”, la priorità dichiarata, a fianco dell’impegno quotidiano a sostegno delle famiglie.
“Basta un poco di zucchero è la pillola va giù”, cantava l’immaginifica tata Mary Poppins per indurre i suoi protetti ad assumere qualcosa di utile alla loro salute. Quel “qualcosa” può tuttavia essere non una “pillola”, ma anzitutto una prevenzione fondata su un minimo di attività fisica. E quel “minimo” è davvero poco, una ventina di minuti al giorno secondo le ultime linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Il problema è che gli italiani non seguono neppure quel diktat facile ed elementare.
L’amara realtà che allarma le agenzie internazionali è stata diffusa nei giorni scorsi in una conferenza dell’Unione Italiana Sport Popolari a Roma (Uisp). Siamo tra i popoli più sedentari al mondo. 6 connazionali adulti su 10 non pratica alcuno sport né altra attività fisica. Niente. Proporzione che si abbassa al 42% nella media europea e sotto il 10% in paesi come la Svezia.
Eppure basterebbe pochissimo per garantire il necessario che, secondo l’Oms, costituirebbe la condizione necessaria (e non sufficiente, s’intende) a tenerci in forma e soprattutto alla larga dalle malattie. Si tratta di soli 150 minuti a settimana di attività di tipo aerobico a intensità moderata. Questo vale per gli adulti. Per i minorenni il suggerimento sale all’ora al giorno, moderata o intensa.
I costi dell’inattività fisica sono impressionanti. Si stima che ad essa siano imputabili il 5% delle affezioni coronariche, il 7% del diabete di tipo 2, il 9% dei tumori al seno e il 10% dei tumori del colon. Per non parlare del sovrappeso, che coinvolge la metà degli europei, bambini inclusi. E per non parlare delle conseguenze economiche, tra perdita di produttività e aumento di congedi per malattia, con costi stimati a quasi un miliardo di euro l’anno.
Gli imputati principali sono i decisori pubblici, dallo scarso spazio all’educazione fisica nelle scuole a un’urbanistica che favorisce poco le piste ciclabili e le strutture sportive. Detto questo, conta anche la responsabilità di ciascuno, dinanzi all’istinto alla pigrizia. Lo sport fa bene, e tanto, anche in età avanzata, come ribadiscono le ultime ricerche scientifiche. Non è mai troppo presto, o troppo tardi, per cominciare.
Tra i banchi si impara anche a mangiare. Lo sanno bene molte famiglie, pur tra un lamento e l’altro sulle condizioni della scuola italiana. Le mense scolastiche generalmente offrono agli alunni pasti calibrati su regole ferree, per varietà, equilibrio nutrizionale e attenzione alla stagionalità (chiedere, per comparazione, a chi frequentava le mense qualche decennio fa). La buona notizia è che l’Unione Europea ha deciso di proseguire su quel percorso, che ha ricadute salvifiche anche di tipo sanitario, culturale e ambientale.
Il Consiglio dei Ministri dell’Unione ha dato il via libera definitivo al nuovo programma di distribuzione alimentare nelle scuole elementari, con priorità sui prodotti locali e freschi (rispetto a quelli trasformati, dai succhi di frutta ai composti fino agli yogurt) e, naturalmente, di stagione. Lo stanziamento (che scatta dal 2017) è di 250 milioni di euro, quasi un decimo dei quali all’Italia. Privilegiata l’ortofrutta, a seguire latte e latticini, esclusi i prodotti con zuccheri e dolcificanti aggiunti. Quelli contenenti “ basse quantità di sale, zucchero e grasso riceveranno finanziamenti comunitari solo in casi eccezionali e dopo il vaglio delle autorità sanitarie nazionali ”.
La “contropartita” chiesta agli Stati è quella di fare di più per l’educazione alimentare (incluse le visite scolastiche ai produttori), la promozione dell’agricoltura biologica locale, la lotta agli sprechi.
L’incentivo è importante, come il senso complessivo della campagna. In gioco è anzitutto la salute, messa a repentaglio dallo stile di vita urbano e sedentario. L’impatto più vistoso è quello dell’obesità. Come ricorda l’European Food Information Council, essa è “ uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di molte patologie croniche quali: malattie cardiache e respiratorie, diabete mellito non-insulino dipendente o diabete di Tipo 2, ipertensione e alcune forme di cancro ”. Rischi, si precisa, “associati anche a un aumento di peso relativamente ridotto”.
Quel che si mangia ha un impatto globale, dunque, incluso l’ecosistema. I chilometri percorsi per accaparrare il cibo, ma anche i danni diretti di alcune produzioni industriali. “ Il settore è responsabile di un terzo delle emissioni di gas serra e del 30% del 'consumo energetico finale' in tutto il mondo”, ha ricordato nei giorni scorsi un noto scienziato a Montecitorio.
L’industria farmaceutica sta tutto sommato bene, anzi meglio degli altri, contribuendo più di ogni altro settore alla tenuta (in questo caso alla crescita) dell’economia italiana, oltre che alla salute. Vi sono norme e vincoli, non sempre benefici e utili ai cittadini, ma la necessità di un’assoluta trasparenza nel rapporto prezioso quanto delicato tra produttori e medici è fuori discussione, anzi risulta cruciale che sia il mondo farmaceutico stesso a darne impulso e garanzia. Anche per fugare i sospetti, deleteri per un rapporto di piena fiducia tra medico e paziente, che è base fondante di ogni terapia.
Bene dunque l’annuncio di Farmindustria di un nuovo “Codice della Trasparenza” (in linea coi capisaldi della Federazione delle Industrie Europee), definito una “svolta storica” dal presidente Massimo Scaccabarozzi, con l’assenso della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo). Da giugno le imprese pubblicheranno sui loro siti i nominativi dei professionisti con cui hanno collaborazioni retribuite, inclusi contributi a convegni, consulenze e altro (mentre le sovvenzioni per la ricerca sono normate dalla legge). Le norme sulla privacy impongono, tuttavia, che il singolo debba fornire il suo consenso alla diffusione, ma la stima dell’organizzazione è che aderiranno almeno 8 medici su 10.
Per il mondo degli equivalenti tutto questo rappresenta un’ottima notizia, che ricalca antecedenti battaglie e “codici deontologici” progressivamente allargati, anche nei giorni scorsi. L'obiettivo della trasparenza, nelle parole del presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, deve coinvolgere “tutti gli aspetti dell'attivitù del comparto”, e richiede una “ continua opera di verifica e, se necessario, di aggiornamento in base alle esigenze della società”.In base ad esse vanno scritti i codici, in base ad esse vanno aggiornati.
Di qui l’impegno per tutte le associate, già sancito da tempo, a (tra le altre cose) “ rendere pubblico un elenco delle associazioni di pazienti a cui fornisce supporto economico e/o significativo sostegno indiretto/non economico, unitamente alle finalità alla base di tale supporto ”, in linea con le direttive della Medicines for Europe. E di qui, l’ulteriore specifica, sancita in assemblea a marzo, dell’ “obbligo di pubblicare ogni anno la lista degli operatori sanitari e delle società scientifiche cui sono stati riconosciuti contributi economici”.
La pillola anticoncezionale è utilizzata quotidianamente da circa 100 milioni di donne nel mondo, ma con gravi disparità tra Continenti in funzione del reddito. Le differenze penetrano anche all’interno dell’Europa e del nostro stesso Paese. A fare il punto e a ricondurre, di nuovo, al problema dei costi è un’articolata indagine della Società Italiana della Contraccezione (Sic), associazione di medici e ricercatori fondata nel 2004 con obiettivi di ricerca ed educazione in materia.
Ebbene, l’Italia è in fondo all’elenco europeo. Il contraccettivo orale è assunto solo dal 16,2% delle donne tra 15 e 44 anni, mentre la media continentale è al 21%. La utilizzano di meno solo in Spagna, Polonia, Slovacchia e Grecia. Nette le discrepanze anche nella penisola: al Nord Italia si supera la media europea, in Sardegna si arriva addirittura al 30,3%, mentre è netto il calo al Centro-Sud, fino al 7,2% della Campania.
A leggere tale geografia si potrebbe pensare a determinanti culturali o religiose. Qualche incidenza è plausibile, ma c’è dell’altro. C’è ad esempio un nodo legato all’informazione sulle controindicazioni. Secondo la Sic, la pillola è ancora “ vittima di falsi miti: riduce il desiderio sessuale, promuove l'aumento di peso, non è adatto alle giovanissime”.
Il tema serio è, semmai, quello della possibilità di esporre la donna ad aumentati rischi di tromboembolia venosa, ma anche l’Aifa li valuta “bassi”, e legati alla dose e al tipo di estrogeno e progestinico presenti nel prodotto. Cruciale, spiega la Sic, una valutazione sul fatto che la donna “non sia predisposta, abbia una storia familiare di trombosi o soffra di malattie di coagulazione; in questi casi la pillola e anche gli a contraccettivi ormonali non sono indicati”. Negli altri casi, si tratta solo di scegliere il prodotto giusto.
D’altronde, i suoi benefici anche “come efficace soluzione per controllare irregolarità e dolori mestruali” sono ampiamente riconosciuti, secondo una precedente indagine dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna. Essa viene richiamata dalla stessa Sic proprio per sottolineare il nodo dei costi. Per una donna su cinque il suo acquisto rappresenta un problema economico, tanto da dichiararsi favorevole per il 94% (in particolare tra le giovani) al passaggio al generico, che costa circa il 20% in meno. La rinuncia alla contraccezione può avere fondate motivazioni, ma quella del prezzo costituisce un’ingiustizia.
Tra disamine e dibattiti si propaga ancora l'eco suscitata il mese scorso dall'ottimo lavoro di Cittadinanzattiva, che ha messo le mani tra gli sprechi nella Sanità, con un corposo rapporto accompagnato – altro dato meritorio – da una sottolineatura (e premiazione) delle “buone pratiche”.
Ricapitolando: il dossier ha identificato addirittura 104 capitoli di spreco, identificandone poi le cause, in base alla percezione dei cittadini. A “trionfare” (raggiungendo quasi la metà dei casi segnalati) è il mancato o scarso utilizzo di dotazioni strumentali e strutture sanitarie, seguito dai difetti di efficienza nell'erogazione di servizi e prestazioni e, in subordine, dalla cattiva gestione delle risorse umane. Il tutto a scapito anzitutto della qualità della cura, ma anche del tempo perso dai pazienti e della loro insicurezza circa il diritto fondamentale all'assistenza.
“Non si tratta di sparare nel mucchio ma di agire sulle cause”, incalza dunque Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva. L'associazione identifica ben 34 di tali azioni, per una sanità “ ammodernata con il paziente al centro”, capace di dare rapida attuazione alle decisioni assunte da Stato e Regioni, dotata di una strategia per l'assistenza territoriale e per il dimensionamento delle strumentazioni sanitarie sulla base anche di un'adeguata banca dati, e naturalmente ispirata alla “trasparenza, alla promozione del merito e al contrasto a fenomeni di illegalità e corruttivi”.
È quindi lungo l'elenco delle cose da fare, e coinvolge anche l'ambito farmaceutico. “ Non si risparmia con tetti prefissati di spesa, ma con gare ben fatte”, ha spiegato il vicepresidente di Assogenerici Stefano Collatina a un convegno ad hoc a Cremona. Il dato di fondo è che la prescrizione di farmaci equivalenti da parte delle strutture ospedaliere italiane è ancora ai minimi europei. Gli italiani spendono ogni giorno 2 milioni e mezzo di euro in più nello scegliere “la marca”, nonostante le rassicurazioni dell'Aifa sulla piena equivalenza nell'efficacia e sicurezza terapeutica. È questo uno dei più onerosi “sprechi”, monitorati mensilmente dal “Salvadanaio” dell'associazione.
“Donne! E’ arrivato l’arrotino e l’ombrellaio!”. Capita ancora di sentirlo dai megafoni piazzati sulle automobili di qualche città italiana, Roma inclusa, dopo quasi un secolo. Suscitando qualche fastidio, curiosità, folklore, e anche legittime obiezioni femminili. Donne che stanno a casa, portatrici esclusive degli oneri domestici, da consolare con la festa dell’8 marzo. Lo strillone resiste, ma c’è una novità. Da quest’anno, in questo mese - il 22 aprile, in espressa corrispondenza con la data di nascita di Rita Levi Montalcini - c’è in Italia una nuova ricorrenza, e avrà risvolti più concreti di una pur bella e significativa mimosa: visite mediche gratuite.
La prima Giornata Nazionale Nazionale della Salute della Donna, istituita con una direttiva ministeriale il giugno scorso, avrà come epicentro un evento capitolino che “circonderà” la ministra Beatrice Lorenzin con una decina di tavoli di lavori che includeranno decine di associazioni e società scientifiche inclusa la fondazione promotrice, Atena Onlus.
Il clou però è stavolta nel territorio. Centinaia di ospedali apriranno le porte, non per un giorno ma per una settimana (fino al 28 aprile) con visite, servizi clinici e informativi gratuiti alle donne, con riferimento, specifica l’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (Onda), a dodici aree specialistiche: diabetologia, dietologia e nutrizione, endocrinologia, ginecologia e ostetricia, malattie e disturbi dell’apparato cardio-vascolare, malattie metaboliche dell’osso, medicina della riproduzione, neurologia, oncologia, reumatologia, senologia, violenza sulla donna.
“Più accesso alle cure, più informazione, progresso della medicina di genere”, gli obiettivi annunciati da Francesca Merzagora, presidente di Onda, citando ben 248 ospedali identificati (e rintracciabili sull’apposito sito) previa l’assegnazione del “Bollino Rosa”, riconosciuto anche dal governo, in ragione della loro comprovata attenzione alle specifiche esigenze dell’utenza femminile.
La “medicina di genere” non è un’ideologia femminista. E’ una necessità riconosciuta dalla ricerca medica italiana, ma reclama un seguito concreto. La “Giornata” stavolta lo è.
“ Nemo propheta acceptus est in patria sua ”, dicevano gli evangelisti. Questo sembra valere ancora. Nella selva delle notizie e degli annunci scientifici sulla salute a volte spariscono quelli importanti, perfino se si tratta del più deleterio dei mali, la metastasi tumorale, e perfino se il protagonista è un connazionale. C’è una notizia in proposito che sta girando in tutto il mondo mentre perlopiù si ferma sulla soglia delle Alpi.
“Non farei mai promesse eccessive alle migliaia di malati di cancro”, premette il professor Mauro Ferrari. Friulano, 56 anni, è uno dei più importanti esperti mondiali di nanotecnologia applicata alla medicina. Di formazione matematica e ingegneristica, si è addentrato nella medicina in seconda battuta, sulla scia di una tragedia familiare. Il cancro, appunto. Studiando e scoprendo potenzialità delle “nanoparticelle”, strutture composte da pochi atomi utilizzabili per produrre farmaci di rilevante impatto e scarso effetto collaterale. Sulla scia dei suoi successi scientifici, dirige negli Stati Uniti l'Institute of Academic Medicine del Methodist Hospital System e presiede The Alliance for NanoHealth.
La notizia ora è nel risultato, definito “sbalorditivo”, di un farmaco composto da nanoparticelle in grado di penetrare direttamente nelle cellule metastatiche causate dal cancro al seno (superando i meccanismi di resistenza ai farmaci messi in atto dalle stesse cellule cancerogene) in organi come polmoni e fegato, distruggendole. Ebbene, la sperimentazione del nuovo nano-farmaco, chiamato iNPG-pDox, su cavie animali (topi) ha conseguito la completa guarigione nel 50% dei casi, il che rappresenta un equivalente umano di vent’anni di vita senza traccia di tumore residuo. “ Un risultato importantissimo alla luce del fatto che non ci sono terapie attualmente disponibili per i tumori metastatici”, commenta lo scienziato.
“Uccidere le cellule tumorali è tutto sommato facile, la cosa difficile è trasportare il farmaco giusto nel posto giusto”, scriveva Ferrari in un libro alcuni anni fa. L’obiettivo sarebbe stato raggiunto. A questo punto è una corsa contro il tempo. Le sperimentazioni umane sono attese l’anno prossimo, i ricercatori invocano dalle autorità sanitarie una corsia privilegiata.
Ci sono i grandi temi nella Sanità, i nodi organizzativi, gli oneri lavorativi, gli errori, i costi, le carenze strutturali, una territorializzazione incompiuta e altro, ma quando a mancare è lo strumento di base, ossia il farmaco, lo scandalo è imperdonabile, e fa evaporare tutto il resto. Sempre più si mobilitano su questo le associazioni dei pazienti e dei consumatori, perché la salute è un diritto, non un’opzione commerciale.
Denunce sacrosante, apprezzate anche dal mondo degli equivalenti. “E’ ormai una costante della sanità italiana e non dovrebbe sorprendere più nessuno”, incalza il presidentedi AssoGenerici Enrique Häusermann, sulla scia di un nuovo articolo in proposito – su Repubblica - che prende spunto dagli ultimi dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), risalenti ad alcune settimane fa: i prodotti introvabili sono circa 1200, formando un elenco di 97 pagine.
Non è un problema soltanto nazionale, intendiamoci. Perfino negli Stati Uniti, sede e mercato primario di imponenti multinazionali farmaceutiche, la carenza di medicinali al Pronto Soccorso è aumentata del 373% dal 2008 al 2014. La lacuna è gravissima e dilagante, mobilitando infiniti rimpalli di responsabilità circa le carenze e colpe sul lato produttivo, distributivo, normativo e finanziario.
La specificità italiana sta nel fatto che la diagnosi non richiede invece tutte quelle disquisizioni. Il dato è semplice. I farmaci ci sono, ma non si usano ancora abbastanza. E sono proprio i generici. Per 7 dei 13 principi attivi citati come mancanti nell’articolo di Repubblica il medicinale equivalente esiste, prodotto da almeno due case differenti. Il problema è che viene prescritto relativamente poco, specie dalle strutture ospedaliere, ancora largamente ancorate, a differenza degli altri paesi avanzati, al medicinale di marca.
Perché? “Resistenze culturali”, spiega Häusermann, citando anche il professor Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri (e già presidente della Commissione Ricerca e Sviluppo dell’Aifa), che in proposito lamenta “l’assenza di una politica culturale coerente e adeguata”. E ci sono naturalmente anche gli interessi avversi al cambio di rotta. In ogni caso la vittima è infine il paziente, come documenta anche una ricerca statunitense, per le pesanti conseguenze sull’aderenza terapeutica. Si arriva “ alla non terapia, accompagnata da peregrinazioni da una farmacia all’altra ”, nota ancora il leader di AssoGenerici, fatto “non plausibile per un paese al vertice delle classifiche per l’assistenza sanitaria”.
422 milioni di adulti soffrono di qualche forma di diabete, oltre l'8% degli esseri umani, secondo le ultime stime relative al 2014. Nel 1980 erano quattro volte di meno, e percentualmente la metà rispetto alla più esigua popolazione dell'epoca. I dati sono stati forniti nei giorni scorsi dall'Organizzazione Mondiale della Sanità consacrando perciò alla malattia la sua ultima “Giornata Mondiale” in concomitanza col proprio “compleanno” (l'Oms fu fondata il 7 aprile 1948).
L'allarme si alimenta inoltre nella previsione del raddoppio di tali cifre nell'arco di vent'anni. In molti casi la patologia è gestibile, ma spesso conduce a complicanze fatali, dall'infarto all'ictus, dalla cecità ai problemi al fegato. Nel 2012 sono morte di diabete un milione e mezzo si persone, quasi la metà prematuramente, sotto i 70 anni. Preoccupante anche l'evoluzione dell'età dei pazienti: un tempo erano quasi esclusivamente gli adulti, ora colpisce sempre di più anche i bambini.
Per arginare la piaga servirebbero alcune misure fondamentali. L'Oms indica anzitutto “l'uso di un piccolo campionario di farmaci generici”, e nota che solo un paese al mondo su tre dispone di medicinali adeguati. Cruciale poi una tempestiva diagnosi e l'educazione del paziente alla cura. Soprattutto, è essenziale la prevenzione, con due indicazioni prioritarie: praticare l'attività fisica ed evitare il sovrappeso.
Su questo spunta il caso delle Isole Samoa. Come documenta la rivista Lancet, laggiù, nel cuore del Pacifico, la percentuale dei malati di diabete ha raggiunto il record del 30% della popolazione. La spiegazione salta agli occhi: in tali isole l'indice medio di massa corporea è ai vertici mondiali.
Il dato però segnala anche qualcos'altro, ossia che non si tratta più della “malattia dei ricchi”, è anzi nei paesi in via di sviluppo che si rivolgono ora le maggiori preoccupazioni. Gli imputati principali sono la sedentarizzazione dell'esistenza e soprattutto la cosiddetta “transizione nutritiva”, in un pianeta in cui gli obesi hanno oramai superato i denutriti: nel mirino dei ricercatori di Samoa, in particolare, il dilagare dei fritti, con l'ausilio di oli scadenti importati a basso costo. La miglior ricetta per la lotta al diabete rimane quella, il ritorno a una sana alimentazione.
Nel tritacarne dell’informazione la Sanità, come altri settori, “fa notizia” perlopiù quando ci sono gli “scandali”. I casi di “malasanità” (a volte solo presunta), oppure di “corruzione”, finiti nei giorni scorsi sulle prime pagine per il meritevole quanto allarmante rapporto in materia presentato da Transparency Italia, Censis e Ispe-Sanità. Poco, invece, lo spazio alle “buone notizie”, e ai tanti che lavorano tanto, in silenzio e bene per la salute. E su questo spunta un dossier internazionale che, pur tra le difficoltà economiche degli ultimi anni, svela qualche dato incoraggiante per il nostro Paese.
Il rapporto si chiama proprio “Crisi economica, sistemi sanitari e salute in Europa”. Redatto in collaborazione con l’Osservatorio Europeo sui Sistemi e le Politiche Sanitarie (Eohsp – che include governi, centri di ricerca, Università, anche fuori dall’Ue), ha fatto riunire intorno a un tavolo a Roma alcuni dei principali operatori, studiosi e decisori del settore, inclusa la stessa ministra della Salute, Beatrice Lorenzin.
Non mancano le criticità e le ricadute sulla stessa salute. Questo “non sorprende – spiega il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi – in quanto una fase prolungata di crisi, con le conseguenti misure di austerità, porta a peggioramento dello stato di salute, specie nei gruppi più vulnerabili, inasprendo le diseguaglianze sia tra Paesi diversi sia all’interno di uno stesso Paese ”. Ed è grave, perché il peggioramento della cura compromette, assieme alla salute, anche la “produttività” su cui si gioca l’economia.
I dati sono eloquenti, per larga parte dei 53 paesi esaminati. Dal 2009 al 2012 il calo della spesa pubblica sanitaria pro capite è stato addirittura del 9% in Grecia, principale bersaglio della recessione. Malino anche l’Italia, con una diminuzione dell’1,1%. Tuttavia, sul nostro paese emerge a sorpresa qualche cifra di segno opposto, in particolare sull’incidenza della spesa sanitaria su quella pubblica che, anziché decrescere, è aumentata: dal 13,85% nel 2007 al 14,2% nel 2011. Non male, anche perché tale variabile è ritenuta un indicatore della “propensione all’investimento” nella salute.
Naturalmente si può fare molto di più. Meno corruzione, ovviamente, così come maggior ricorso ai farmaci generici per liberare risorse con la medesima qualità terapeutica. Ma anche a parità di risorse si può far meglio. Qualcosa è in cantiere. “ Dalla contrattazione collettiva nazionale alle forme di welfare aziendale, sta prendendo piede un modello innovativo di partnership pubblico-privato che noi sosteniamo e che, in questi anni di crisi economica, ha rappresentato un aiuto concreto per la salute di molte famiglie ”, nota il presidente di Federmanager Stefano Cuzzilla. Si chiama “sanità territoriale”, se ne parla da tempo, ma il margine resta amplissimo.
Nel 2005 il paternalistico governo giapponese elaborò una vera e propria “guida” alimentare, suggerendo ai concittadini il dettaglio di una dieta salutare. Vent'anni dopo, non pago, il National Centre for Global Health and Medicine di Tokyo ha completato una corposa verifica di tali indicazioni. Confermandone l'efficacia attraverso il riscontro di dati piuttosto vistosi sul loro impatto per la salute.
La minuziosa disamina ha coinvolto quasi ottantamila nipponici tra i 45 e i 75 anni, senza pregressi per cancro, malattie cardiovascolari o del fegato. In sintesi, coloro che seguivano meglio il vademecum su quantità e varietà dei cibi suggeriti hanno fatto registrare un tasso di mortalità più basso degli altri, addirittura del 15%. Il dato è impressionante anzitutto per quel che ribadisce sull'estrema importanza di una buona alimentazione.
I dettagli della ricerca forniscono poi delle sostanziose conferme sui capisaldi della “miglior dieta”. E a ben vedere, per la verità, il segreto perorato da Tokyo non si confina nel sushi o nel sashimi. Il nodo cruciale identificato dai ricercatori sta nell'equilibrio tra le varietà. Il nostro corpo richiederebbe prioritariamente un buon bilanciamento tra cereali, ortaggi, frutta, pesce e perfino carne, senza esagerare in alcuna di esse. Chi mangia così terrebbe alla larga le patologie più insidiose, con percentuali notevoli soprattutto per le malattie cerebrovascolari, terza causa di morte nei paesi avanzati.
Un aspetto per noi interessante sta nel fatto che tali indicazioni ricalcano da vicino gli ingredienti essenziali della dieta mediterranea. Eletta cinque anni fa a “Patrimonio Culturale dell'Umanità” dall'Unesco, è stata poi etichettata dall'Università di Harvard come “medicina” migliore contro l'invecchiamento.
Tra i mille riconoscimenti (e qualche tentata controindicazione), uno è arrivato nei giorni scorsi anche dalla Germania. Nonostante tale dieta non sia molto ricca di vitamina D – nota l'Università di Wurzburg - risulta un antidoto perfino alla frattura dell'anca.
Siamo tutti “stressati”, chi più e chi meno. Ma il “più” e il “meno” fanno la differenza tra la patologia e la salute. Quella differenza è peraltro spesso determinata non dall’entità degli stimoli esterni ma dalla nostra capacità di sostenerli. Ebbene, tale capacità, secondo quanto dimostrato da una ricerca anglo-americana, dimora tutta nel cervello.
La ricerca, pubblicata sull’elvetica “Frontiers in Neural Circuits”, è stata condotta su modelli animali (topi), messi appunto sotto eguale pressione, monitorandone le attività cerebrali. Sono emersi due aspetti, entrambi in misura piuttosto eclatante.
Il primo è che gli animali che “si arrendono” sono quelli che riducono in modo consistente l’attività cerebrale allo stimolo dello stress. Sotto pressione “ si pensa di meno”. Si azzera il cervello, incluse le facoltà di apprendimento e memoria, anziché attivarlo, e lo si fa ad apparente scopo difensivo. Il secondo è che tali topini “perdenti” tendono a palesare un comportamento uniforme, stereotipato benché “anormale”, simile a quello degli altri. Ci si chiude a riccio, con modalità del tutto analoghe. I “vincenti” sono invece quelli che riescono a elaborare risposte più “originali”, alla ricerca di risposte creative allo stress.
Tali esiti possono suonarci quasi scontati, ma la realtà è che le sindromi depressive abbisognano di tali approfondimenti per migliorare le possibilità di cura, psicologiche e farmacologiche, sia nella comprensione delle nostre reazioni nei diversi settori cerebrali che nei possibili rimedi.
Non è un tema da poco, in ambito medico e non solo. Il trattamento della depressione costa agli americani circa 300 miliardi di dollari l’anno. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon l’ha definita l’anno scorso una “crisi globale”. In Italia il consumo di antidepressivi è aumentato di quasi il 5% negli ultimi dieci anni, coinvolgendo oltre 7 milioni di persone. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la principale causa globale di disabilità. Per l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha un costo stimato al 4% del Pil. E’ tempo di occuparcene, seriamente, partendo dalla nostra testa.
I macro-dati sono essenziali, ma i “piccoli” casi specifici a volte spiegano meglio. Lo ha fatto una ricerca pubblicata il mese scorso sullo statunitense Journal of the National Cancer Institute (edito da Oxford University Press) con la supervisione di scienziati europei, fornendo dati salvifici per le nostre tasche. Su una patologia grave e costosa.
La sostanza è questa: esiste un farmaco antitumorale il cui brevetto è scaduto in gennaio. Ebbene, il suo equivalente, ora autorizzato dalla scadenza della licenza, consentirà a ciascun paziente un risparmio da centomila dollari nell’arco di cinque anni. Questo per i cittadini. Per gli assicuratori sanitari americani andrà ancor meglio, con una cifra stimata sui nove milioni di dollari.
La malattia focalizzata è la leucemia mieloide cronica. Ha origine nelle cellule del midollo osseo, precursori di quelle del sangue, che in questo caso non riescono a completare la trasformazione adeguata entrando in circolo nell’organismo. In quanto “cronica” ha una progressione lenta e spesso asintomatica, ma può innescare nel tempo una crescita incontrollata delle cellule tumorali.
Va da sé che l’indagine condotta nell’Illinois neppure contemplava l’ipotesi che il passaggio dal farmaco di marca al generico potesse accompagnarsi a un sacrificio di qualità della cura. Il dibattito su questo è semplicemente estinto negli Stati Uniti, il paese a più alto consumo di equivalenti: per legge, oltreoceano, e in modo ancor più rigoroso in Europa, le norme e i controlli blindano i “generici” alla completa equivalenza sotto il profilo dei principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica.
Il tema dunque non c’è. E’ solo commerciale, una questione di brevetti e relativi costi: la loro scadenza comporta un risparmio per il consumatore, qui stimata dagli analisti fino al 90% del prezzo del medicinale di marca. Una proporzione che per tantissimi fa la differenza tra il potersi curare o meno.
Imprenditori e sindacalisti lo sanno bene. Firmare un contratto collettivo in tempi di crescita a volte può esser perfino più complicato che in tempi di crisi, in quanto l’asticella delle richieste naturalmente tende a elevarsi. Nonostante ciò, la scorsa settimana è stata apposta la firma definitiva al nuovo contratto di lavoro del settore chimico-farmaceutico, con reciproca soddisfazione delle parti. E l’annuncio è avvenuto a poche ore di distanza dalla presentazione degli ultimi dati sulla produzione farmaceutica italiana, che sono molto incoraggianti.
Nel 2015 il suo valore ha superato la soglia dei 30 miliardi di euro, quasi quanto la produzione in Germania, e ben di più rispetto a tutti gli altri paesi europei, incluse Francia (23 miliardi) e Regno Unito (18), segnando un balzo del 5% rispetto all’anno precedente, nonché un incremento delle esportazioni del 4%. I benefici rimbalzano sul lavoro, con un aumento dell’1% dell’occupazione, che coinvolge più di 65mila addetti. E la ricaduta è anche sulla ricerca, con l’incremento delle domande di brevetto e degli studi clinici, pari oramai al 18% di quelli che si svolgono nell’intera Unione Europea.
“L’eccellenza italiana”, sintetizza Il Sole 24 Ore: da tempo l’Istat mette l’ambito farmaceutico al primo posto sulla competitività e, di recente, Bankitalia lo ha promosso quale l’unico ad aver aumentato la capacità produttiva. I dati sono, infatti, in palese controtendenza rispetto al resto del settore manifatturiero: nell’insieme, la produzione nazionale è scesa del 7% nell’ultimo quinquennio, mentre la farmaceutica è aumentata del 10%.
I margini sono potenzialmente ancor più rosei, notano gli osservatori internazionali, in vista di un aumento della quota di farmaci generici, ancora inferiore rispetto ad altri paesi europei. Con ovvi benefici, in questo caso, anche per le tasche dei consumatori e quindi per le possibilità e qualità delle terapie, oltre che, come dimostrano anzitutto gli Stati Uniti (al vertice mondiale nell’uso degli equivalenti), per liberare ulteriori risorse per la ricerca.
“ Scricchiolii sinistri di un pezzo del nostro welfare che continuiamo a chiamare universalistico ma che è già diventato selettivo. A discapito dei più deboli ”. Così sentenzia La Stampa, rilanciando (con pochi altri) l’allarme suonato nei giorni scorsi dalla Corte dei Conti sui bilanci sanitari. Quelli pubblici come quelli delle famiglie. Quei conti non tornano, perché il rosso tinge ambedue le sfere, e al contempo le strutture si rivelano sempre meno capaci di aggiornare le proprie dotazioni tecniche.
Secondo l’ultimo rapporto in proposito di Assobiomedica, in Italia sono addirittura 6400 le apparecchiature diagnostiche obsolete e il 76% dei sistemi radiografici risultano datati più di dieci anni. Le ragioni sono molteplici, altrettante le ricette dibattute per porne rimedio, ma il dato di base è che, allo stato, mancano i denari, oggi più che mai, con l’aggravante di una popolazione che invecchia e incrementa la domanda sanitaria.
La Corte documenta infatti per il 2015 un rosso nei conti sanitari da un miliardo di euro, dopo anni di tenuta. Ancor più severo il monito dell’Agenzia Italiana del Farmaco, che stima a un miliardo e 700 milioni lo sforamento della spesa farmaceutica ospedaliera.
E’ dunque il farmaco la variabile che emerge a principale determinante. I ticket sono costati globalmente 2857 milioni alle famiglie. La cifra è considerevole, ma non rappresenta un incremento rispetto al 2014 per quel che riguarda le prestazioni specialistiche e di pronto soccorso, che hanno anzi segnato un calo del 3,1%. Ad aumentare, dell’1,3%, sono stati proprio i ticket per l’acquisto di medicinali.
Il dato può rivelare alcuni aspetti positivi, quali una sanità più “territorializzata” e gradualmente meno vincolata alle strutture, ma segnala comunque l’urgenza di una maggior efficienza nella spesa farmaceutica: “Risparmiare ricorrendo ai farmaci generici”, suggerisce La Stampa, sulla scia del resto delle sempre più assidue raccomandazioni dell’Aifa – anzitutto agli ospedali. Se non si agisce in fretta si compromette la Sanità, avverte la magistratura contabile, favorendo “ lo spostamento dal Servizio Sanitario Nazionale verso strutture sanitarie private, minando la stessa possibilità di garantire livelli di assistenza adeguati ”.
“Mi ricordo di quanto non vorrei: non posso dimenticare quello che vorrei”, diceva Cicerone, e tanti altri dopo di lui. Tuttavia qualche antropologo ha poi notato che saper dimenticare è una capacità intrinseca alle nostre stesse doti mnemoniche. Tale nesso in apparenza paradossale trova ora conferma nella ricerca scientifica, con potenziali risvolti terapeutici.
L’indagine, pubblicata sulla rivista Nature Communications, è stata condotta a Siviglia, all’Università Pablo Olavide, in collaborazione col Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (Embl) di Heidelberg. E’ stata condotta su topolini, con riferimento all’attività del loro ippocampo, sede cerebrale cruciale nei processi di apprendimento. Esso includerebbe tre “canali”: uno, il principale, è consacrato alla costruzione del ricordo, il secondo al suo richiamo, il terzo all’oblio.
L’apprendimento è anzitutto un processo associativo. Impariamo una cosa se la leghiamo a qualcos’altro. La memoria si cementa così, stabilendo connessioni tra neuroni. Ebbene, i ricercatori hanno notato che se si blocca il canale principale i topi non sono più capaci di elaborare una risposta “pavloviana”, quel riflesso condizionato che associa ad esempio un rumore a un comportamento capace di anticiparne le conseguenze. Se però tale connessione era stata in precedenza interiorizzata (coinvolgendo il secondo canale, quello capace di rinnovare il ricordo), il blocco si rivela insufficiente, e la memoria tende a ripristinarsi.
L’aspetto più interessante è speculare a tutto questo: l’utilizzo del primo canale provoca viceversa un indebolimento del secondo. In altre parole, la spinta all’oblio avviene essenzialmente nelle situazioni di apprendimento. “Abbiamo uno spazio non infinito nel cervello, quando si impara bisogna allentare alcune connessioni per lasciare spazio ad altre”, spiegano i ricercatori. In altre parole, “quando si imparano cose nuove bisogna dimenticarne altre apprese in precedenza”.
Gli esperimenti sono stati condotti tramite modifiche genetiche sui topi. Gli scienziati dell’Embl declamano però la possibilità di generare la pozione dell’oblio per semplice via farmacologica. Preziosa per superare eventi traumatici del passato, dicono. Più di Cicerone è allora cruciare il contemporaneo Milan Kundera: “ L’oblio ci riconduce al presente, pur coniugandosi in tutti i tempi […] Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli ”, scrive in “La lentezza”.