Una vita sedentaria non nuocerebbe solo alla salute fisica ma anche a quella mentale. Uno studio australiano ha trovato un’associazione tra attività a basso dispendio energetico e un maggior rischio di soffrire di ansia, disturbo che si stima colpire circa 27 milioni di persone nel mondo. Oltre a influenzare il comportamento delle persone, spingendole a preoccuparsi troppo, interferendo nel normale svolgimento delle attività quotidiane, l’ansia provoca sintomi fisici: dal mal di testa, all’aumento del battito cardiaco alla tensione muscolare.
«L’idea di indagare sul possibile legame tra ansia e sedentarietà - spiega Megan Teychenne del Deakin University’s Centre for Physical Activity and Nutrition Research (C-PAN, Australia), a capo dello studio - nasce dall’osservazione che negli ultimi tempi, parallelamente a un aumento degli stili di vita moderni e sedentari si è osservato anche un aumento dei sintomi ansiosi».
Per capire se effettivamente un legame esistesse Teychenne e colleghi hanno passato al setaccio nove studi sul tema, relativi al tempo totale passato seduti e ai comportamenti ritenuti sedentari, come lavorare al PC, guardare la tv, usare l’auto o mezzi pubblici invece di andare a piedi. I risultati emersi dall’analisi hanno mostrato che i comportamenti sedentari erano associati a un maggior rischio di ansia. Degli studi presi in esame alcuni riguardavano anche i ragazzi e in un caso sembra che gli adolescenti che passano più di due ore davanti agli schermi (tv o PC) abbiano più probabilità di soffrire d’ansia rispetto ai coetanei meno video-dipendenti. Va detto però, come precisano gli autori, che le evidenze relative al legame tra ansia e comportamenti sedentari (o tempo passato seduti) sono moderate.
Si tratta infatti di indagini preliminari, ha spiegato Teychenne, aggiungendo come ci sia ancora bisogno di indagare meglio, ed eventualmente confermare, l’associazione suggerita dall’analisi. Ma farlo è di vitale importanza, ha precisato la ricercatrice, così da avere strumenti in grado di combattere gli stati ansiosi oltre ai farmaci, per altro nel nostro paese disponibili come equivalenti di sicura efficacia e convenienza.
Mal di testa? Colpisce una donna su cinque. E siccome ci sono anche componenti genetiche, nella stessa famiglia possono soffrirne mamma e figlia. Gli stili di vita sani aiutano a ridurre la frequenza e l’intensità degli attacchi, ma possono non essere sufficienti a eliminarli. Quando la cefalea interferisca con le attività quotidiane della donna, sarà il medico a scegliere gli interventi farmacologici più specifici, cominciando da quelli meno valutati.
Per esempio, quante donne che soffrono di cefalea hanno mai visto dosare i loro livelli di vitamina D, in particolare d’inverno? Il fatto che gli attacchi cefalalgici siano più frequenti e gravi in autunno/inverno e minori in estate non dipende solo dalle vacanze. Ricerche cliniche e studi di correlazione suggeriscono che la vitamina D possa avere un ruolo importante nel ridurre l’infiammazione associata alla cefalea. È quindi opportuno valutare i livelli di vitamina D, specie in autunno, e integrarla se inadeguati (25.000 Ui al mese sono ideali).
Il secondo fattore di protezione poco considerato è il ferro: molte adolescenti e donne cefalalgiche sono anemiche (anemia sideropenica), specie se hanno cicli abbondanti, e questo peggiora depressione e dolore. È necessario integrare bene il ferro, meglio se è associato a vitamina C, vitamina B12 e lattoferrina, per ridurre emicrania, anemia, astenia e sintomi associati. E se la donna dice “sono sempre stata anemica”? Ci potrebbe essere un ridotto assorbimento intestinale di ferro a causa di celiachia, ipersensibilità al glutine e/o al lattosio. La modifica della dieta è in tal caso indispensabile per ridurre l’infiammazione della parete intestinale, che peggiora la cefalea perché inonda il cervello di molecole infiammatorie, e per ottimizzare l’assunzione del ferro, componente principe nella sintesi di dopamina e serotonina, neurotrasmettitori amici del buonumore e della salute. Terzo, merita integrare il magnesio, in chiave preventiva, perché riduce l’ipereccitabilità delle cellule nervose: ne è carente il 20 per cento delle donne italiane, e non è poco; 1200-1500 mg al giorno sono la dose raccomandata.
Quando tuttavia il cerchio alla testa non ne vuole sapere di passare è il caso di ricorrere ai farmaci sempre dietro suggerimento medico. La buona notizia è che le principali specialità contro la cefalea sono disponibili come farmaci equivalenti di grande efficacia, sicurezza e accessibilità.
Oltre un quinto (per l’esattezza il 22,9%) della popolazione in Sardegna è affetta da almeno due malattie croniche, il 42,1% ne ha almeno una e la quota di over 65 è passata dal 16,1% del 2002 al 21,6 del 2015. La spesa sanitaria della regione è salita da 2,2 miliardi di euro nel 2002 a quasi 3,2 mld nel 2013 (Ragioneria dello Stato) e 26,5 mln di euro è il costo sostenuto nel 2014 dai sardi per coprire la differenza tra il farmaco equivalente e quello di marca. Sono i dati emersi nel corso del convegno "I farmaci equivalenti tra tutela della salute pubblica e razionalizzazione della spesa sanitaria in Sardegna", sostenuto da Mylan, azienda di farmaci equivalenti, e promosso dal magazine AboutPharma, con il patrocinio di AssoGenerici.
L'isola per l'utilizzo dei farmaci equivalenti è al 12° posto in Italia sia in termini di confezioni dispensate (22,9%), sia in termini di spesa (15,1%), al di sotto però della media italiana (25,4% in termini di confezioni, 16,5% la spesa). Nel 2014 il consumo di farmaci equivalenti è cresciuto dell'8%, con un conseguente calo della spesa dell'1,8% (Centro Studi Assogenerici su dati Ims Health). Nei primi nove mesi 2014 in Italia la spesa farmaceutica nazionale totale (pubblica e privata) è stata pari a 19,9 mld di cui il 75,6% è stato rimborsato dal Ssn (Rapporto Osmed Gen-Set 2014).
"La disponibilità di medicinali equivalenti è stata fondamentale per la sostenibilità del sistema sanitario regionale consentendo, a parità di efficacia e sicurezza per il paziente, importanti risparmi nell'assistenza farmaceutica. Alla scadenza della copertura brevettuale e al conseguente inserimento del principio attivo nelle liste di trasparenza, lo stesso principio viene rimborsato in regime di assistenza farmaceutica convenzionata secondo il prezzo di riferimento, inferiore a almeno il 20% rispetto al farmaco marchiato - ha affermato l'assessore della Sanità, Luigi Arru -. Nel caso di acquisti da parte di strutture pubbliche l'inserimento nelle procedure di gara del principio attivo instaura un confronto concorrenziale importante, consentendo la fornitura dei medicinali necessari a prezzi ridotti. I risparmi ottenuti con l'utilizzo di farmaci equivalenti o a brevetto scaduto consentono di liberare risorse economiche, a parità di qualità di assistenza ai pazienti, che possono essere impegnate per l'acquisto di farmaci innovativi per la prevenzione e cura di patologie croniche di grande rilevanza sociale".
“Ho mal di testa, hai qualcosa da darmi..", una frase tanto diffusa quanto sbagliata. A lanciare l'allarme è l'Istituto Nazionale per la Salute e l'Eccellenza Clinica (Nice) del Regno Unito che ha preparato l’ultima versione delle "linee guida per il trattamento del mal di testa".
Il problema, dicono i ricercatori, è rappresentato dal tipo di mal di testa. Gli esperti ne hanno individuati ben 150, raggruppati però in 12 classi. In sintesi, gli studiosi - guidati da Martin Underwood, medico e docente della Warwick Medical School – dicono che gli antidolorifici perdono di efficacia se utilizzati per ridurre il mal di testa persistente o emicranie prolungate nel tempo.
I comuni prodotti da banco come l'aspirina, il paracetamolo e l'ibuprofene possono andare bene per mal di testa occasionali, ma il loro utilizzo per "più di 10 o 15 giorni al mese può causare cefalea da uso eccessivo di farmaci, malattia invalidante e prevenibile". Il rischio è che si instauri un circolo vizioso, per cui all'aumentare del dolore o del numero degli attacchi corrisponde un aumento del dosaggio.
Tra i soggetti che soffrono di mal di testa ricorrenti, uno su 50 potrebbe soffrirne proprio a causa di un uso esagerato di antidolorifici. E' quindi importante capire di che tipo di mal di testa si soffre, l'uso occasionale di un antidolorifico per attacchi occasionali non porta problemi, ma se il mal di testa è ricorrente, spiegano i ricercatori, è consigliabile rivolgersi ad un medico esperto con il quale individuare le alternative possibili.
"Speriamo che questo aiuterà medici e altri operatori sanitari – ha spiegato Underwood nel commentare le sue linee guida - a diagnosticare correttamente il tipo di disturbo del mal di testa e a riconoscere meglio i pazienti in cui il mal di testa può essere causato da una loro eccessiva dipendenza da farmaci".
L'accesso alla Sanità pubblica diventa per i cittadini sempre più difficile, tanto da configurare una vera ''emergenza'': cresce infatti la paura degli italiani per la copertura sanitaria nel futuro, si allungano le attese nel pubblico e si amplia il ricorso al privato, che ormai coinvolge anche i redditi bassi. Complessivamente, ammonta infatti a 33 miliardi di euro la spesa sanitaria a carico delle tasche degli italiani nel 2014, un miliardo in più in un anno. È quanto emerge da una ricerca Censis-Rbm Salute, in base alla quale la richiesta per un intervento rapido sulle liste di attesa è la priorità numero uno secondo le famiglie.
Secondo la ricerca Censis, il 63,4% degli italiani si dichiara insicuro rispetto alla copertura sanitaria futura (il 77,1% al Sud, il 74,3% delle famiglie monogenitoriali, il 67% delle coppie con figli). E il 54% degli italiani indica come priorità del welfare la riduzione delle liste di attesa (il 62,6% dei 29-44enni, il 59,1% dei residenti al Sud). Mentre cresce la paura, il Servizio sanitario pubblico è sempre più intasato. Nell'ultimo anno si sono allungate le liste di attesa: 20 giorni in più per una risonanza magnetica al ginocchio (da 45 a 65 giorni), 12 giorni in più per una ecografia dell'addome (da 58 a 71 giorni), 10 giorni in più per una colonscopia (da 69 a 79 giorni).
In quest’ottica un aiuto concreto per le famiglie italiane potrebbe essere quello di scegliere i farmaci equivalenti per curare le malattie. Per avere un’idea del risparmio possibile consultate la sezione famiglia Equivalente di questo sito. Vi sorprenderete di quanto sia possibile risparmiare curandosi con prodotti di elevata efficacia e qualità come sono i farmaci generici.
Il bambino con la febbre rappresenta sempre una preoccupazione per un genitore, ma è necessario tenere in considerazione che gli stati febbrili non sempre devono essere trattati con i farmaci antipiretici. È quanto suggeriscono le nuove linee guida pubblicate dal National Institute for Clinica Excellence (NICE) britannico, equivalente oltremanica del nostro Istituto Superiore di Sanità.
Per gli esperti britannici il termometro può essere un segnale di allarme che può condurre dal pediatra. Il NICE afferma infatti che "fino a tre mesi di età il segnale si accende per una temperatura di 38°C, in quelli fino a sei mesi per una temperatura di 39°C".
Gli esperti del NICE chiariscono che: "Oltre questa età, invece, il valore della temperatura, anche se è molto alto, da solo non basta a distinguere le situazioni da non sottovalutare: contano di più altri elementi, per esempio alterazioni dello stato di coscienza o delle interazioni del bambino con gli altri, anomalie gravi della respirazione o del colorito di pelle e mucose, rigidità del collo".
Alberto Tozzi, pediatra dell'Ospedale Bambino Gesù di Roma e Marina Picca, presidente della Società Italiana delle Cure Primarie Pediatriche, sostanzialmente concordano. "Se il piccolo ha 39°C di febbre ma è tranquillo e gioca senza lamentarsi, non occorre nessuna terapia", spiega Tozzi. Picca aggiunge che la "febbre va trattata solo quando rende il piccolo sofferente e irritabile, non lo lascia dormire o mangiare normalmente".
Secondo le nuove linee guida del NICE, un nuovo elemento che va tenuto presente è la frequenza cardiaca. Secondo gli esperti il rischio che il bambino abbia qualcosa di più serio di un banale raffreddore va considerato quando: la frequenza cardiaca è superiore ai 160 battiti al minuto per bambini con età inferiore ad un anno; 150 battiti al minuto tra uno e due anni; 140 battiti oltre i due anni.
Nei casi in cui non si riscontrino altri segnali di allarme, anche se la febbre è alta, è possibile che il bambino abbia contratto patologie benigne, come ad esempio la sesta malattia che in genere passa dopo tre giorni.
In merito ai farmaci antipiretici, quelli autorizzati per i bambini sotto i sei anni di età sono paracetamolo e ibuprofene, disponibili come farmaci equivalenti. Gli esperti del NICE sottolineano che "vanno usati per contrastare il malessere del bambino, e soltanto finché il malessere dura".
E' necessario comunque fare attenzione, avvisa Antonio Clavenna dell'Istituto Mario Negri di Milano, perché "anche attenendosi alle dosi consigliate è possibile superare nel corso della giornata la soglia di tossicità".
Il fai da te, in sostanza, è una pratica da sconsigliare. Sempre meglio contattare il pediatra per un consiglio.
Da alcune sostanze nel cioccolato amaro un aiuto contro l'ipertensione. La nutraceutica è in continua crescita e molte delle sostanze di origine naturale testate in recenti studi hanno ottenuto ottimi risultati sia in Italia che all'estero. "Cresce il numero di molecole che si rivelano efficaci in diverse patologie: prevediamo sviluppi sempre più interessanti di un settore in grande espansione" spiega il presidente Sinut (Societa' italiana di nutraceutica) Cesare Sirtori e la società scientifica per fare il punto sui traguardi raggiunti dalla nutraceutica negli ultimi anni, ha organizzato un workshop nell'ambito del suo V Congresso Nazionale, ospitato al Padiglione Italia dell'EXPO di Milano.
L'attenzione dei ricercatori si focalizza su alcuni prodotti, tra cui il cioccolato amaro. Da oltre 10 anni (vanno ricordati studi in particolare italiani) il cioccolato amaro è noto come un potente prodotto per la pressione alta. Il motivo è la presenza di molecole note come polifenoli. I polifenoli dilatano le arterie e riducono la pressione, come dimostrato dal prof. Howard Sesso di Harvard, coordinatore di un grande studio americano che per 4 anni ha seguito 18.000 persone ad altro rischio vascolare di entrambi i sessi. Lo studio ha mostrato che chi consumava cioccolato amaro aveva un minor rischio di incappare in malattie cardiovascolari.
E presto potrebbe arrivare sulle nostre tavole un 'super cioccolato', più salutare e gustoso di quello che siamo abituati a mangiare. Il segreto è in alcune modifiche del processo di lavorazione del cacao, tese a conservare molte delle sostanze antiossidanti che vengono perdute con la lavorazione tradizionale: lo ha scoperto l'Università del Ghana, che è riuscita ad ottenere semi di cacao 'potenziati', presentati al convegno della Società Americana di Chimica.
Oltre ai farmaci cardiovascolari, che nella stragrande maggioranza sono disponibili come preparati equivalenti e quindi efficaci e accessibili, la salute del cuore a rischio potrebbe passare anche da piacevoli abitudini alimentari.
Quando si compra un vestito nuovo, di solito si mette subito in lavatrice prima di indossarlo per la prima volta. Una buona abitudine, ma non per il motivo cui si pensa comunemente, ovvero che qualcuno prima di noi lo abbia indossato per provarlo.
Gli abiti nuovi vanno lavati perché è alto il rischio che siano presenti ancora le sostanze chimiche utilizzate in fase di produzione, che possono dar luogo a eruzioni cutanee, pruriti e reazioni allergiche. Per quanto controllabili con farmaci antistaminici e cortisonici, oggi ampiamente disponibili come farmaci equivalenti, queste reazioni possono essere eviate con semplici accorgimenti.
A dare il consiglio è il prof. Donald Belsito, dermatologo del Columbia University Medical Center di New York, in un articolo apparso sul Wall Street Journal.
Anche se il medico tiene in considerazione il pericolo di diffusione di batteri e microrganismi vari dovuto alle prove di altri clienti, il pericolo maggiore verrebbe però dalla formaldeide, sostanza applicata sui vestiti per ridurre la possibilità di muffa e per impedire le pieghe dei tessuti.
La formaldeide, tuttavia, può anche irritare la pelle e alcuni scienziati paventano una possibile associazione con l'insorgenza del cancro. Il rischio viene anche dai coloranti utilizzati, che possono rilasciare delle scorie in mancanza di un lavaggio adeguato. Alcuni coloranti come l'anilina possono causare reazioni cutanee gravi in chi è allergico.
In questo caso, il prof. Belsito suggerisce addirittura un doppio lavaggio, dal momento che un singolo passaggio in lavatrice potrebbe non essere sufficiente per eliminare ogni residuo chimico.
La “pillola dell'amore” potrebbe contrastare la malaria. A scoprirlo è un team di ricerca francese guidato da Catherine Lavazec dell'Institut Cochin di Parigi.
Il sildenafil, farmaco disponibile anche in versione generica, che migliora l'afflusso di sangue nei corpi cavernosi del pene rendendo possibile l’erezione, blocca la capacità del Plasmodiun falciparum, parassita responsabile della malaria, di deformarsi per nascondersi al sistema immunitario dell'ospite. In questo modo questo microrganismo può essere eliminato dal sistema di difesa.
Il parassita si nasconde nei globuli rossi dell'uomo quando si trovano ancora nell'organo che li produce, il midollo osseo. In questa fase il plasmodio acquisisce la capacità di deformarsi e di diffondersi a partire dal midollo osseo attraverso la circolazione sanguigna. Questa “malleabilità” gli consente anche di superare il sistema di controllo dell'organismo, che trattiene i globuli rossi vecchi o anormali allo scopo di purificare il sangue.
Una volta libero nel sangue, il parassita diventa accessibile alle zanzare che rappresentano i vettori della malattia. I ricercatori francesi hanno dimostrato in laboratorio che il sildenafil bloccando una molecola specifica (la fosfodiesterasi 5) “irrigidisce” la struttura esterna del parassita della malaria non consentendogli più di deformarsi e di sfuggire così alle cellule del sistema immunitario. Il team di ricerca transalpino ha fatto sapere di avere intenzione di condurre adesso uno studio su volontari. Se si confermeranno i risultati osservati in laboratorio si potrebbe aprire un nuovo capitolo nella lotta alla malaria, malattia che continua a mietere migliaia di vittime ogni anno nel mondo.
In Europa nei prossimi anni ci sarà una vera invasione di ambrosia, una pianta fortemente allergenica originaria degli Usa già presente anche da noi soprattutto al Nord. Lo afferma uno studio pubblicato da Nature Climate Change, secondo cui la concentrazione nell’aria dei pollini potrebbe quadruplicare da qui al 2050 per effetto dei cambiamenti climatici, con forti aumenti anche in Italia.
I ricercatori del Laboratoire des Sciences du Climat et de l'Environnement del Cnrs francese hanno utilizzato dei modelli matematici che tengono conto della dispersione dei pollini e della variazione nella quantità prodotta da una singola pianta, mettendo in relazione queste caratteristiche con le proiezioni sui cambiamenti climatici. Il risultato è stato una estensione dell'area interessata dal'ambrosia verso il nord e il centro Europa fino ad arrivare alla Gran Bretagna, dove ora è trascurabile. Le zone già interessate dalla crescita di questa pianta, pianura padana compresa, vedranno un aumento delle concentrazioni dei pollini nell’atmosfera che potrà arrivare a quattro volte quelli presenti oggi. "Circa un terzo di quest'aumento è dovuto alla dispersione naturale dei semi, ed è indipendente dai cambiamenti climatici - scrivono gli autori -. Il resto, però, è imputabile ai cambiamenti del clima e all'utilizzo dei terreni che estenderanno l'habitat della pianta verso nord ed est Europa, e aumenteranno la produzione di pollini nelle aree dove è già presente a causa dell'aumento della CO2".
Dato che è improbabile poter mutare i cambiamenti climatici, le persone allergiche faranno bene a premunirsi di farmaci, fortunatamente disponibili anche come generici, per controllare la sintomatologia legata a questa allergia.
Musica immortale contro le malattie del cuore. Le famose note di 'Va Pensiero' di Giuseppe Verdi, del 'Nessun Dorma' di Giacomo Puccini e della 'Nona Sinfonia' di Beethoven possono ridurre la frequenza cardiaca e migliorare la pressione sanguigna di chi le ascolta, tutelando la salute del cuore. Grazie ai ritmi più delicati e simili a quelli che regolano la pressione, queste note hanno in genere un effetto rilassante, la frequenza del battito cardiaco rallenta e la pressione arteriosa si abbassa, anche se di poco. Lo ha riscontrato uno studio dell'Università di Oxford presentato al congresso della British Cardiovascular Society di Manchester.
I cardiologi - riporta il 'Telegraph' - hanno esaminato i lavori scientifici che negli ultimi decenni hanno esplorato l'impatto dei diversi tipi di musica sulla pressione arteriosa e la frequenza cardiaca. Hanno quindi verificato varie ipotesi, che coinvolgono sei diversi tipi di musica, su un piccolo gruppo di studenti. Ebbene, quella classica che segue un particolare ritmo (10 secondi) ha avuto il maggiore impatto riducendo la pressione sanguigna. Mentre brani di musica classica con un ritmo più veloce, tra cui un estratto dalle 'Quattro Stagioni' di Vivaldi, non hanno avuto un effetto su cuore e sangue.
Secondo Peter Sleight, autore dello studio e cardiologo dell'Università di Oxford, "la musica si usa già come terapia rilassante, ma questo lavoro ha revisionato gli studi sull'argomento e controllato la loro efficacia. Abbiamo - aggiunge - fornito una migliore comprensione di come le note di brani classici molto famosi e soprattutto determinati ritmi possono avere precisi effetti sul cuore e sui vasi sanguigni. Ma sono necessari ulteriori studi - conclude - che potrebbero ridurre lo scetticismo, ancora imperante, sul ruolo terapeutico della musica". Ascoltare le sinfonie più note potrebbe quindi rappresentare un nuovo modo per controllare fattori di rischio per le malattie cardiovascolari. Nei casi in cui ciò non bastasse per fortuna sono a disposizioni armi terapeutiche efficaci, la maggior parte delle quali anche come farmaci equivalenti, alla portata di tutti.
L’Unione europea deve dotarsi di migliori strumenti per proteggere la proprietà intellettuale dell’UE nei Paesi terzi, ma nel contempo garantire l’accesso a prodotti di importanza cruciale per la collettività, come i farmaci generici.
E’ la mozione presentata alla Commissione Europea da una serie di deputati volta a proteggere dalle contraffazioni i prodotti, “made in UE”. Nella relazione di Maria Alessia Mosca (S&D, IT) approvata martedì con 521 voti favorevoli, 164 contrari e 17 astensioni, deputati rilevano che la “natura commerciale di numerose violazioni dei diritti alla proprietà intellettuale (DPI)” e il “crescente coinvolgimento della criminalità organizzata” rappresentano una minaccia seria alla creatività e all’innovazione, risorse comunitarie fondamentali nel mercato globale.
Per combattere le violazioni dei DPI, il documento chiede il coinvolgimento di tutti i soggetti coinvolti e di aiutare le piccole imprese affinché i loro DPI siano rispettati. Infine, si sottolinea la necessità di organizzare campagne di sensibilizzazione sulle conseguenze della violazione dei DPI sulla società nel suo complesso e sui singoli consumatori e cittadini. Nella relazione sulla protezione dei DPI comunitari all’estero, i deputati evidenziano inoltre l’importanza di bilanciare la protezione dei DPI con la necessità di garantire l’accesso ai farmaci generici a livello mondiale e la rilevanza di un approccio ai DPI nel settore farmaceutico che sia incentrato sul paziente.
Inoltre, i controlli alle frontiere per evitare l’ingresso dei medicinali contraffatti nel mercato UE non dovrebbero impedire quelli sui medicinali generici. La Commissione dovrebbe valutare l’opportunità di sostenere meccanismi innovativi quali i pool di brevetti per “incentivare la ricerca in parallelo alla produzione di generici”. Nel 2013, le autorità doganali dell’UE hanno confiscato quasi 36 milioni di articoli sospettati di essere contraffatti o in violazione dei diritti di proprietà intellettuale, per un valore di oltre 760 milioni di euro. Il 10% di questi articoli era rappresentato da farmaci.
Contrariamente a ciò che spesso si teme, i farmaci antipertensivi - ormai disponibili in tutte le diverse classi come equivalenti - non aumentano il rischio di cadute in anziani sani e residenti in comunità. E’ il risultato di uno studio, pubblicato online su Hypertension, che contraddice un articolo dello scorso anno (pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Internal Medicine) secondo cui esisteva un elevato rischio di gravi lesioni dovute a cadute negli anziani in terapia con farmaci per abbassare la pressione, soprattutto fra coloro che erano già caduti precedentemente.
Il nuovo studio, guidato da Lewis Lipsitz, direttore dell’Institute for Aging Research all’Hebrew Senior Life e professore di Medicina alla Harvard Medical School di Boston (USA), ha seguito per un anno 598 uomini e donne anziani che soffrivano di ipertensione. I partecipanti avevano un età compresa tra i 70 e i 97 anni.
Alla partenza dello studio, l’89,5% dei soggetti coinvolti assumeva antipertensivi, tra cui gli inibitori del recettore dell’angiotensina (o sartani) (12,8%), gli inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE-inibitori) (34,7%), gli alfa-bloccanti (7,1%), i beta-bloccanti (51,9%), i calcio-antagonisti (29,3%) e i diuretici (47,0%). Durante il follow-up, 267 partecipanti (44,7%) sono caduti 541 volte. Il numero di cadute a persona andava da 0 a 17. Non è stata tuttavia mostrata alcuna relazione rilevante tra l’uso generale di antipertensivi e il rischio di cadute. Anzi: i pazienti che assumevano calcio-antagonisti avevano il 38% in meno di rischio di cadere e il 43% in meno di farlo in uno spazio chiuso. I soggetti sotto l’effetto di ACE inibitori avevano il 38% in meno di possibilità di cadute dannose.
Chi soffre di asma o rinite allergica potrebbe trarre beneficio dal non rifare il letto la mattina. Lasciare scoperto il letto, magari in una stanza arieggiata, secondo una ricerca condotta dalla Kingston University di Londra, eviterebbe, infatti, la formazione di umidità e l’aumento di temperatura, creando un ambiente ostile per gli acari.
La formazione di questi animaletti, che sono stati tra i primi colonizzatori del pianeta terra circa 290 milioni di fa, è accentuata soprattutto in ambienti umidi, qui riescono a nutrirsi di acqua favorendo la loro riproduzione. Stephen Pretlove ed il suo team, hanno creato un modello al computer per monitorare le zone in casa che sono maggiormente esposte alla prolificazione degli acari. Il letto è l’ambiente più favorevole alla crescita di questi parassiti. I risultati di questi esperimenti potrebbero aiutare i progettisti edili nella creazione di case sempre più sane per prevenire allergie domestiche.
Gli acari riescono a sopravvivere ricavando l’acqua necessaria direttamente dall’atmosfera.
Dopo la simulazione al computer gli studiosi inglesi effettueranno degli esperimenti sottoponendo a campione decine di famiglie, se l’esperimento sarà confermato dalla teoria, ci saranno sicuramente risvolti in ambito tecnologico.
Per chi non volesse tenere in disordine la propria camera da letto per troppo tempo, può scegliere una soluzione alternativa, lasciare accesso un condizionatore, per seccare l’aria e diminuire l’umidità nella stanza. Inutile dire che si consiglia sempre di cambiare il letto con lenzuola pulite facendo attenzione a farle asciugare completamente. Va poi da sé che accanto a queste misure di “contenimento” delle possibili manifestazioni allergiche sia necessaria una terapia che può giovarsi efficacemente di preparati contro le allergie ampiamente disponibili in farmacia come farmaci equivalenti, capaci di unire efficacia terapeutica a convenienza economica nella massima sicurezza.
La depressione cronica può raddoppiare il rischio di ictus negli anziani. E il rischio rimane alto anche quando migliora la salute mentale. È quanto emerge da uno studio condotto dalla Harvard School of Public Health di Boston, che ha passato in rassegna i dati provenienti da interviste somministrate – nell’arco di 12 anni – a oltre sedicimila ultracinquantenni statunitensi.
Il team di ricerca, coordinato da Paola Gilsanz, ha somministrato le interviste ogni due anni, allo scopo di monitorare la relazione tra ictus e cambiamenti della salute mentale. L’età media dei partecipanti era di 66 anni e la maggior parte di essi, alla partenza dello studio, mostrava pochi sintomi di depressione o addirittura nessuno. Subito dopo aver sviluppato la depressione, i partecipanti mostravano un rischio di ictus leggermente più alto.
Nel corso del periodo di osservazione si sono verificati 1.192 casi di ictus. Ma se la depressione persisteva oltre quattro anni, il rischio di ictus per i due anni successivi era più che doppio, se comparato a quello delle persone che non avevano manifestato sintomi di depressione. Inoltre, nel campione che mostrava un miglioramento dell’umore, il rischio di ictus rimaneva simile per due anni a quello di chi è depresso cronicamente. “Lo studio non dimostra che la depressione causa l’ictus – afferma Paola Gilsanz – ma è possibile che la depressione spinga chi ne è affetto a fumare, bere eccessivamente, a mangiare poco , a non fare attività fisica; comportamenti che potenzialmente possono contribuire ad aumentare il rischio di ictus”.
“È possibile che la depressione produca cambiamenti nel sistema nervoso che conducano attraverso il rilascio di ormoni dello stress a un restringimento dei vasi sanguigni e a un aumento della pressione del sangue”, aggiunge Olajide Williams, direttore dell’Acute stroke service al Columbia University Medical Center di New York. Le conclusioni dello studio sono che è dunque estremamente importante controllare il disturbo psichiatrico. E oggi questo è possibile farlo in modo sicuro anche grazie a farmaci generici, di provata efficacia e convenienza.
Basta agli sprechi ambientali, sanitari e alimentari. Parte da Spoleto l’esortazione a dire no allo sperpero di risorse che ogni anno si perpetua nel nostro paese in ambiti cruciali della vita di tutti i giorni. La città umbra sarà infatti sede, dal 5 al 7 giugno, di “SpreK.O. 2015”, seconda edizione della festa nazionale per la lotta agli sprechi, iniziativa promossa da Cittadinanzattiva.
Lo scopo dell’evento è quello di dare un nuovo valore alle nostre risorse, in modo da preservarle e poterle tramandare ai nostri figli. I temi di discussione spazieranno dalla necessità di riqualificare il territorio, evitando anche gli scempi commessi concausa di disastri ambientali, all’importanza di promuovere una migliore aderenza alle terapie per migliorare lo stato di salute ed evitare inutili dissipazioni economiche, fino a una gestione intelligente delle risorse alimentari. Il parterre degli invitati è di primo livello, dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, on. Stefania Giannini, al Viceministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, on. Andrea Olivero, al Sottosegretario al Ministero della Salute, on. Vito De Filippo, al Presidente dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Vincenzo Spadafora, al direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Luca Pani, al direttore generale di Assogenerici Michele Uda, al Presidente Federazione Ordini Farmacisti Italiani, Fofi, Andrea Mandelli, al Presidente Federfarma, Annarosa Racca, a quello della Società italiana di medicina generale Claudio Cricelli, al presidente della Società italiana di farmacologia, Francesco Rossi, oltre ai presidenti di associazioni di pazienti, associazioni di categoria e rappresentanti di onlus e aziende.
AssoGenerici, in particolare, sarà presente con un info-point a cui i cittadini potranno rivolgersi per informazioni sul mondo del farmaco equivalente e dei biosimilari, preziose risorse per una sanità che unisca efficacia delle cure al risparmio economico.
SpreK.O. 2015 costituisce, quindi, un’occasione per portare all'attenzione di tutti, istituzioni, cittadini, associazioni, quanto è necessario fare per una lotta agli sprechi veramente attuabile ed efficace che non resti solo un inutile elenco di buoni propositi.
Quasi tutti gli Italiani (97%) hanno sperimentato lo stress almeno una volta nella propria vita e per ben 8 italiani su 10 lo stress è presente frequentemente al punto da causare disturbi di salute. I più diffusi sono il mal di testa (44%), l'insonnia (37%) e il mal di stomaco (35%), ma non manca chi manifesta dolori muscolari (20%), herpes labiale (14%) e acne (9%). I dati arrivano da una ricerca di ASSOSALUTE, l'Associazione nazionale farmaci di automedicazione.
Tra le principali cause all'origine dello stress ci sono secondo gli italiani i problemi economici (30%), le preoccupazioni di lavoro (23%) e la sensazione di non avere abbastanza tempo per fare tutto e bene (22%): “Nel mondo occidentale lo stress deriva non tanto da reali situazioni di pericolo, quanto dalla distanza che esiste tra il nostro ritmo di vita e quello che la nostra fisiologia richiederebbe, che rappresenta un vero e proprio social jet lag - afferma Piero Barbanti, Primario Neurologo dell’Istituto Scientifico San Raffaele Pisana di Roma -. In realtà il nostro cervello è una macchina più lenta di quello che pensiamo, come è lento il ragionamento che ci permette di comprendere e metabolizzare gli eventi, consentendoci di neutralizzarli e proteggendoci dallo stress”.
Ma sappiamo cos’è realmente lo stress e come riconoscerlo? “Lo stress è una risposta che l’organismo attiva di fronte a situazioni nuove e improvvise per ripristinare un nuovo equilibrio - continua Barbanti -. Quando lo stress è breve, come accade fisiologicamente nelle piccole vicende quotidiane, è ’sano‘, ma quando diventa cronico può essere nocivo per la salute ed essere causa di una miriade di disturbi”. Problemi che richiedono spesso il ricorso a terapie, acquistabili anche come principi attivi generici, efficaci e poco costosi.
Una persona su sette di età compresa tra 18 e 35 anni soffre di pressione alta del sangue o ipertesione. Non sono rassicuranti questi primi dati dello studio I-GAME che sta portando avanti il gruppo dei Giovani Ricercatori della Società Italiana Ipertensione Arteriosa.
Nell’indagine, 2000 giovani, tra i 18 ed i 35 anni, scelti a caso dalle liste dei medici di famiglia, sono stati esaminati approfonditamente con test sofisticati per verificare lo stato della loro pressione. Risultato: Il 14% soffre di ipertensione arteriosa sistolica isolata, cioè un valore della pressione massima superiore a 140 mmHg. Il professor Francesco Prati, Presidente della Fondazione “Centro Lotta contro l’Infarto”, ha lanciato un allarme, rivolto alle mamme che gestiscono la salute dei propri figli. “Attenzione all’alimentazione e al movimento - avverte Prati - L’ipertensione cresce nei giovani di tutto il mondo così come in Italia”.
E nei giovani è un problema ancora maggiore rispetto agli adulti, perché l’ipertensione ha più tempo per danneggiare arterie e cuore, predisponendo a importanti eventi, dall’infarto all’ictus. Senza contare l’impatto sul fisico degli “alleati” dell’ipertensione, dal fumo di sigaretta ai superalcolici, dalla sedentarietà al sovrappeso corporeo. “Sul fronte dello stile di vita e dell’attività fisica continuativa i nuovi dati dello studio NAVIGATOR – spiega il professor Luigi Temporelli, Divisione di Cardiologia Riabilitativa della Fondazione Salvatore Maugeri, IRCCS, Istituto Scientifico – hanno dimostrato per la prima volta in modo scientifico che attività fisica, continuativa, oggettivamente misurata, e stile di vita hanno un effetto più potente dei farmaci nella riduzione significativa di diabete ed eventi cardiovascolari quali infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, rivascolarizzazione arteriosa, o ospedalizzazione per angina instabile, in pazienti con intolleranza glucidica e documentata patologia cardiovascolare, o almeno 1 fattore di rischio cardiovascolare”.
Questo studio ha seguito gli oltre 9000 partecipanti in media per 6 anni e ha valutato la loro attività motoria con pedometro a 12 mesi di distanza. I risultati di questa analisi dimostrano che una relativamente modesta attività motoria (a partire da 2000 passi al giorno) e le sue variazioni in aumento nel corso di 1 anno sono in grado di ridurre del 10% la probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare (ovvero morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico non fatale e ictus non fatale). Resta comunque il fatto che in caso di pressione elevata nonostante un cambiamento dello stile di vita sia necessario ricorrere a terapie farmacologiche, fortunatamente disponibili anche come farmaci equivalenti per i quali non è necessario pagare ticket. Un risparmio non indifferente considerando che la terapia va assunta quotidianamente.
Vivono all’interno dell’impenetrabile giungla amazzonica. Fanno parte del gruppo etnico degli Yanomami, e sono una tribù di cacciatori e raccoglitori che fino al 2009 non aveva praticamente avuto alcun contatto con il resto della civiltà umana. Eppure hanno batteri resistenti agli antibiotici. Lo ha scoperto un gruppo di scienziati della New York University School of Medicine che ha avuto la possibilità di studiare gli individui di questa popolazione così particolare, mai esposti a medicine, stile di vita e dieta occidentali. L’analisi ha svelato, inaspettatamente, che i batteri del microbiota (i microrganismi che vivono nell’intestino umano) dei membri della tribù avevano già sviluppato diversi geni resistenti agli antibiotici. La scoperta è particolarmente preoccupante perché gli Yanomami non hanno mai assunto antibiotici né sono mai venuti in contatto con animali cui erano stati somministrati tali farmaci. I batteri, dunque, potrebbero avere capacità di combattimento e adattamento molto più forti di quanto non si ritenesse finora.
Come spiegano i ricercatori su Science Advances lo studio è iniziato cinque anni fa, subito dopo la scoperta della tribù. “Abbiamo subito cercato di analizzare il loro microbiota”, racconta Maria Dominguez-Bello, una degli autori del lavoro, “per raccogliere informazioni sui batteri che lo popolavano. Dovevamo farlo presto, prima di eventuali ‘contaminazioni’”. In particolare, sono state analizzate le feci di 34 individui (in tutto la tribù è composta da 54 persone). Gli scienziati hanno prescritto medicinali ad alcuni bambini in pericolo di vita, e non hanno divulgato il nome del villaggio per evitare ulteriori contatti con altri esseri umani. Studiando il genoma dei batteri del microbiota degli Yanomami, e comparando i risultati con quelli relativi a batteri “comuni”, i ricercatori hanno scoperto diverse differenze significative, legate alla presenza di microbi assenti (o presenti in quantità molto ridotte) nella flora intestinale degli occidentali.
Andando avanti nell’analisi, però, gli scienziati hanno scoperto che i batteri avevano circa 60 geni unici in grado di disattivare antibiotici sintetici e naturali. “È una scoperta piuttosto allarmante”, ha commentato Gautam Dantas, un microbiologo della Washington University che ha partecipato allo studio, “perché finora ritenevamo che ai batteri servisse più tempo per sviluppare resistenza agli antibiotici artificiali che non si trovano comunemente in natura”. Una ragione in più per ricordarci di assumere gli antibiotici, largamente disponibili come farmaci generici, sempre con la massima cautela.
“Col passare dei giorni il conto che si presenta alla farmaceutica sembra salire ulteriormente e dai 300 milioni paventati pochi giorni fa si è passati a oltre 500, perché accanto alla riduzione dei livelli di spesa programmati ora ci sono altri 285 milioni che dovrebbero venire da misure di varia natura: dall’istituzione di prezzi di rimborso per classi terapeutiche alla revisione dei prezzi dei medicinali sottoposti a rimborso condizionato. A questo punto, paradossalmente, c’è da augurarsi una rapida approvazione della Legge, prima che le cifre salgano ulteriormente” dice Enrique Häusermann, presidente di AssoGenerici.
Sembra invece mancare ancora una vera visione di riforma del settore, che incida realmente sui meccanismi di governance della spesa. “Ha poco senso occuparsi in prospettiva della determinazione del prezzo dei biosimilari se poi non ci sono misure a supporto del loro impiego, o anzi pensare di introdurre misure che annullerebbero ogni incentivo alla concorrenza come quelle relative alla riduzione di prezzo dei farmaci biologici originatori quando scade il brevetto, che ci sia o meno un concorrente sul mercato. Né ha senso continuare a spingere sui sistemi di acquisto centralizzati quando manca una reale previsione dei fabbisogni e, di conseguenza, la fissazione di tetti di spesa realistici. In questo modo si fa pagare alle aziende il costo dell’aumento della cronicità, oltretutto senza distinguere tra chi produce farmaci coperti da brevetto, più costosi, e chi invece contribuisce a generare risparmi come il nostro comparto. Temo che alla fine” prosegue Häusermann “saranno i cittadini a sopportare i risultati di tanta schizofrenia, visto che molte delle misure di cui si discute scaricano proprio su di loro una fetta importante di spesa. Questo paese soffre di un male, il “mal di concorrenza” e per curarlo le uniche ricette che per ora si propongono ricadono sempre sui soliti noti. Mi chiedo a questo punto quale senso abbia che la filiera del farmaco si sieda al tavolo del Ministero dello Sviluppo Economico che il Viceministro De Vincenti aveva annunciato essere il luogo deputato a riscrivere le regole del settore”.
Conclude Häusermann “Il presidente Chiamparino ha dichiarato che un taglio alla spesa regionale non potrebbe essere replicato l’anno prossimo. A nostro avviso è impraticabile già quello di quest’anno”.