Tre milioni e mezzo di donne e un milione di uomini. Sono i numeri dell’osteoporosi in Italia secondo le stime emerse dal Congresso mondiale su osteoporosi, osteoartrite e disturbi dei muscoli e delle ossa tenutosi a Milano. L’evento, organizzato da Iof (International osteoporosis foundation) ed Esceo (European society for clinical and economic aspects of osteoporosis and osteoarthritis) ha riunito nel capoluogo lombardo 3 mila specialisti da tutto il mondo.
L’osteoporosi è una delle patologie muscolo-scheletriche che, secondo il Global Burden of Diseases Study, sono responsabili sempre più spesso di disabilità per i pazienti, con un tasso di crescita di conseguenze invalidanti del 45% negli ultimi vent’anni. In particolare, l’osteoporosi severa (complicata da fratture), se non trattata in modo efficace, è tra le cause più invalidanti e in grado di pregiudicare la qualità della vita. Inoltre, comporta enormi costi per le comunità e per i sistemi sanitari nazionali, con una crescita di spesa prevista di circa il 25% entro il 2025 solo in Europa.
“L’incidenza dell’osteoporosi è in aumento – spiega Giancarlo Isaia, presidente Siommms e direttore del Dipartimento di Geriatria e Malattie metaboliche dell’osso all’ospedale Molinette di Torino – e si stima che oggi ne siano affetti in Italia circa 3.5 milioni di donne e un milione di uomini, facendo emergere l’allarme per una grave pandemia silenziosa che va quindi trattata come una patologia di priorità sanitaria e sociale”. La terapia di questa malattia del metabolismo osseo può oggi contare anche su farmaci equivalenti di provata efficacia, di elevata qualità e costo vantaggioso.
Un farmaco molto usato per il diabete potrebbe rivelarsi utile anche nella lotta a molti tumori. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Genova ha infatti scoperto che la metformina è in grado di impedire alle cellule tumorali di assorbire zuccheri dal sangue, rallentandone la crescita. Si tratta di una scoperta importante che rafforza le speranze dell'utilizzo del farmaco in "cocktail" di terapie anti-cancro per potenziarne l'efficacia.
I risultati della ricerca italiana sono stati pubblicati sulla rivista Cell Cycle. Lo studio è partito da una considerazione fondamentale: i tumori sono avidi "consumatori" di zucchero. L'alterazione del metabolismo del glucosio è infatti uno dei "marchi di fabbrica" del comportamento delle cellule tumorali, che utilizzano il glucosio come "carburante" per crescere.
Per assorbire quanto più zucchero possibile dal sangue i tumori sfruttano l'azione di una sostanza: il fattore di crescita insulino-simile IGF1, che attiva l'enzima tumorale PKM2. Questo a sua volta attiva meccanismi che favoriscono il "risucchio" degli zuccheri dal sangue da parte delle cellule malate. Gli esperti hanno studiato nel dettaglio il meccanismo con cui la metformina disturba la crescita dei tumori, osservando che il farmaco blocca l'azione di IGF1 e quindi ostacola l'ingresso preferenziale degli zuccheri nelle cellule tumorali. Secondo una nota diramata dalla Società Italiana di Diabetologia (SID), quella dell'Università di Genova rappresenta si tratta di una scoperta importante che permetterebbe di utilizzare il farmaco anti-diabete per potenziare l'azione di altre sostanze anti-tumorali oggi in uso.
Curarsi risparmiando si può. Come? Grazie ai farmaci equivalenti. Lo evidenziano chiaramente i dati che ogni giorno il Centro Studi Assogenerici elabora sul potenziale contenimento della spesa farmaceutica in ogni regione e globalmente in Italia qualora i cittadini preferissero ai medicinali di marca quelli generici, cioè quei farmaci per i quali è scaduta la copertura brevettuale e possono essere prodotti da diverse aziende oltre quella che ha inventato la molecola.
Per capire esattamente quanto sia elevato il risparmio potenziale vediamo alcuni esempi. Ogni giorno gli italiani potrebbero risparmiare 2,6 milioni di euro se scegliessero in farmacia i medicinali generici. Prendendo in esame il periodo dal primo di aprile ad oggi, se i cittadini avessero preferito il farmaco equivalente, nella sola regione Lazio avrebbero risparmiato 2.9 milioni di euro, in Lombardia 2.88.milioni, in Puglia 1.9, in Sicilia 2.
Il dato riferito all’Italia nel complesso indica un risparmio potenziale per i cittadini di 23,4 milioni di euro. Se consideriamo il periodo che va da gennaio a oggi il risparmio per gli italiani sarebbe stato di oltre 240 milioni di euro. A causa di questa diffidenza nei confronti dei farmaci equivalenti, l’anno scorso i cittadini Italiani hanno speso di tasca propria 924 milioni di euro per avere preferito i farmaci di marca ai generici. In tempi di ristrettezza economica come quelli che stiamo attraversando questi numeri dovrebbero fare riflettere. I farmaci equivalenti hanno la stessa efficacia terapeutica degli originali, sono prodotti di qualità, ma costano significativamente meno.
Sono medicinali capaci di fare risparmiare fino al 25% della spesa farmaceutica, soprattutto per alcune malattie importanti come il cancro, ma stentano ancora ad essere accettati pienamente dai medici e dagli stessi pazienti.
Si tratta dei biosimilari, medicinali "similari" al prodotto originale biotecnologico il cui brevetto è scaduto consentendo così alle aziende del settore di produrre una replica fedele al principio attivo e ai dosaggi. Perché questa diffidenza? Il problema sta principalmente in una mancanza di informazioni corrette. Se ne è discusso approfonditamente a Palermo in un convegno promosso dall’associazione Donne in Rete onlus, impegnata nella tutela della salute della donna, insieme all'associazione Amici, che riunisce pazienti affetti dalla malattia infiammatorie croniche intestinali (morbo di Crohn e colite ulcerosa).
Per una diffusione responsabile e attenta dei biosimilari le due associazioni hanno realizzato un "manifesto" con delle proposte concrete. Nel dettaglio viene suggerito che la politica Nazionale riguardo i farmaci: Informi in modo imparziale tutti i soggetti interessati - medici, pazienti, professionisti sanitari ed autorità governative che sovraintendono alla politica sanitaria - ; promuova e mantenga la concorrenza nel mercato farmaceutico incentivando un adeguato uso precoce dei farmaci biosimilari in combinazione con politiche di prezzi sostenibili; raccolga e pubblichi dati clinici basati sull’evidenza dimostrata nelle reali condizioni d’impiego per rafforzare la fiducia verso la sicurezza e l'efficacia; realizzi procedure di acquisto trasparenti e condivise tra Asl, medici, pazienti e persegua processi decisionali chiari ed efficienti che non ritardino la disponibilità dei farmaci biosimilari sul mercato. Inoltre, il manifesto propone l'istituzione di un "Fondo di premialità" per quei dipartimenti clinici autorizzati all'uso del biologico, generato dalla riduzione dei costi favorita dalla commercializzazione di farmaci biologici.
"In una fase in cui si tende a informarsi sempre di più tramite il web il pragmatismo suggerisce l'introduzione di un sistema che certifichi la qualità delle informazioni. E' proprio in quest'ottica che abbiamo ideato il portale 'Biosimilari Life', un luogo di confronto per mettere in rete i soggetti coinvolti nell'utilizzo dei biosimilari" ha spiegato Rosaria Iardino , Presidente di Associazione Donne in Rete onlus.
Un antidepressivo comune, la paroxetina, disponibile da tempo come farmaco equivalente, ha avuto successo nel curare l'insufficienza cardiaca in topi da laboratorio: il risultato di una sperimentazione condotta alla Temple University School of Medicine di Philadelphia, viene considerato molto importante nell’ottica della cura di una malattia sinora considerata irreversibile.
Il team di scienziati guidato da Walter J. Koch, direttore del Centro di Medicina Traslazionale ha scoperto che dosi di paroxetina analoghe a quelle usate normalmente da pazienti che prendono l'antidepressivo, iniettate nei ratti, hanno curato lo scompenso cardiaco di cui soffrivano degli animali. I topi utilizzati per l'esperimento avevano sviluppato un’insufficienza cardiaca a causa di infarto e sono stati divisi in tre gruppi: il primo sottoposto a paroxetina, il secondo a un altro antidepressivo, fluoxetina e il terzo a terapie beta-bloccanti.
Secondo lo studio pubblicato sulla rivista 'Science Translational Medicine', solo i ratti trattati con paroxetina hanno avuto gli effetti benefici sulla funzionalità cardiaca. Niente miglioramenti invece per gli animali che hanno ricevuto Prozac o i beta-bloccanti. Questo dimostra - per gli studiosi - che l'efficacia del farmaco per l'insufficienza cardiaca non è dovuto alla sua attività antidepressiva legata all’aumento della serotonina, ma all'inibizione di un particolare proteina, il recettore per la Kinasi 2 accopptiato alla proteina G (GRK2), attività posseduta solo da paroxetina.
"Questo studio apre la strada alla messa a punto di nuove terapie per una malattia sinora considerata irreversibile", ha osservato Koch.
"Oggi si apre una nuova fase della terapia farmacologica in Italia, la fase in cui la punta di diamante della ricerca farmacologica e biotecnologica, i cosiddetti farmaci intelligenti, smettono di essere una risorsa da razionare e diventano un’opzione terapeutica praticabile per tutti i pazienti che possono trarne beneficio”. Questo il commento di Francesco Colantuoni, coordinatore di IBG, Italian Biosimilar Group (gruppo appartenente ad AssoGenerici), all’entrata in commercio in Italia del primo anticorpo monoclonale biosimilare.
Da oggi sono infatti disponibili Inflectra e Remsima biosimilari di Remicade (infliximab), un anticorpo anti-TNF alfa impiegato nel trattamento di malattie autoimmuni gravemente invalidanti quali l’artrite reumatoide, il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, ed è il capostipite del trattamento biotecnologico di queste malattie.“In Italia sono già in commercio alcuni altri farmaci biosimilari impiegati in nefrologia, oncologia ed ematologia, e di recente ha ottenuto la autorizzazione alla commercializzazione da parte di EMA il biosimilare dell’insulina glargine” spiega il dottor Colantuoni. “Con l’arrivo dell’infliximab biosimilare, si apre la possibilità di ampliare l’accesso a terapie di costo elevato, evitando il rischio che pazienti possano essere esclusi da questa importante opzione terapeutica per scarsità di risorse”.
“Nella malattie autoimmuni esiste sempre una quota non trascurabile di pazienti che non rispondono al trattamento di prima linea, ma che potrebbero giovarsi di farmaci introdotti successivamente” prosegue il coordinatore dell’IBG. “Farmaci innovativi che, però, scontano costi ancora più elevati ed è evidente che, se non riusciamo a ridurre l’onere delle terapie consolidate, ben difficilmente si potranno rendere disponibili medicinali più adeguati al trattamento dei non responders. Oggi l’arrivo dell’infliximab biosimilare pone le condizioni per liberare risorse e remunerare adeguatamente l’innovazione”.“Nei prossimi 10 anni la progressiva introduzione nel nostro paese di farmaci biotecnologici biosimilari, a seguito della scadenza dei brevetti di riferimento, consentirà di mantenere elevati livelli di welfare e la qualità del nostro Servizio Sanitario Nazionale”, conclude Colantuoni.
La European Generic and Biosimilar medicines Association (EGA), riafferma il suo impegno a favore dell’eticità e della trasparenza introducendo oggi il suo Codice di Condotta. Il documento nasce a seguito dell’adozione dei Guiding Principles Promoting Good Governance in the Pharmaceutical Sector (Principi guida per la promozione della buona governance del settore farmaceutico), promossi dall’allora vicepresidente della Commissione, Antonio Tajani.
Il Codice, formalmente adottato dall’Assemblea Generale di EGA, stabilisce standard etici molto severi per garantire relazioni affidabili e trasparenti tra l’industria e tutti gli attori della tutela della salute. “L’industria del generico e del biosimilare” ha dichiarato il direttore generale dell’EGA, Adrian van den Hoven “ha mantenuto il suo impegno nei confronti dei Principi adottati dalla Commissione Europea sviluppando e implementando un codice etico dell’industria realmente capace di regolare al meglio i rapporti con tutta la comunità dell’healthcare”.
AssoGenerici e l’Italian Biosimilar Group, dal canto loro, sono lieti di annunciare che il Codice di Condotta sarà adottato ufficialmente entro breve al fine di garantire a tutte le aziende associate un unico ed autorevole punto di riferimento anche a livello nazionale e coglie l’occasione per ringraziare l’EGA per l’ottimo lavoro svolto su questo fronte così importante per l’industria e la collettività.
Un nuovo studio realizzato dai ricercatori dell’Istituto di neuroscienze (In-Cnr) di Milano, coordinati da Maria Passafaro, in collaborazione con i colleghi dell’Istituto auxologico italiano di Milano, diretti da Jenny Sassone potrebbe aprire la strada a nuove strade di cura per rallentare il decorso della malattia di Parkinson giovanile.
La novità scoperta dai ricercatori riguarda il meccanismo molecolare di una proteina chiamata parkina. Secondo gli studi effettuati, l’assenza di questa proteina porta alla morte dei neuroni che hanno un ruolo chiave nel controllo dei movimenti, una delle caratteristiche principali del morbo di Parkinson. Questa malattia neurodegenerativa, che normalmente si sviluppa nelle persone sopra i 60 anni di età, può a volte manifestarsi anche prima dei 40 anni, con sintomi quali tremori, rigidità muscolare e difficoltà a controllare il proprio corpo.
“La causa più frequente della forma giovanile del Parkinson è stata individuata nelle mutazioni in un gene nominato Park2, che contiene le istruzioni su come ‘costruire’ la parkina – spiega Passafaro -. Le mutazioni alterano la trasmissione del glutammato, il neurotrasmettitore amminoacido più diffuso nel sistema centrale nervoso, e possono indurre la morte nei neuroni che producono la dopamina, sostanza fondamentale per controllare i movimenti volontari e che manca nella malattia di Parkinson”. Se quindi la ricerca sta cercando nuove possibilità di terapia, bisogna ricordare che la cura di questa malattia neurodegenerativa si fonda su un vecchio ma ancora insostituibile farmaco, la levodopa, disponibile come farmaco equivalente ormai da molti anni.
Il 22% delle italiane d’età compresa tra i 20 e i 30 anni usa internet come prima fonte di informazioni sulla contraccezione e la prevenzione delle gravidanze indesiderate. Solo il 16% si rivolge al ginecologo, che in graduatoria delle preferenze viene dopo alla madre (29%), ai compagni di scuola (24%) e al migliore amico (20%). Tutto questo mentre nel mondo il 20% delle donne sottovaluta il rischio di rimanere incinta durante rapporti non protetti. E ogni anno, il 90% dei 15 milioni di gravidanze non volute sarebbe evitabile, se solo si riuscisse a sfatare miti e idee errate sui rischi dei metodi contraccettivi.
Sono questi i dati che emergono da un’indagine promossa da GfK, su un gruppo di donne del nostro Paese, e da uno studio internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). “Percentuali che ci hanno spinto a muoverci per intercettare le under 30 che rischiano di affidarsi a fonti su internet spesso non certificate - spiega il prof. Paolo Scollo presidente nazionale della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) - In rete si legge di tutto, per esempio che il coito interrotto rappresenta un metodo sicuro, oppure che la coca cola è spermicida, vere e proprie “bufale. Per questo abbiamo deciso di rafforzare la nostra presenza on line realizzando il minisito “contraccezionesmart.sceglitu.it” dove i ragazzi possono trovare informazioni utili su tutti i metodi a loro disposizione”.
“Argomenti delicati come la scelta contraccettiva o il desiderio di maternità andrebbero comunque sempre discussi non solo sul web ma con il ginecologo, lo specialista del benessere femminile” sottolinea il prof. Mauro Busacca, Direttore dell’Ostetricia Ginecologia del Fatebenefratelli-Macedonio Melloni di Milano e Vice-Presidente SIGO. Va detto che oggi la contraccezione più efficace è facilitata dalla disponibilità di preparati ormonali equivalenti, efficaci e accessibili per tutte le tasche, per vivere in maniera serena una sessualità consapevole.
Continua la contrazione della spesa farmaceutica in Italia. Secondo l’ultimo rapporto Osmed (osservatorio sull’uso dei medicinali in Italia) nel periodo gennaio-settembre 2014 la spesa farmaceutica territoriale pubblica è stata infatti pari a circa 8.769 milioni di euro (circa 144 euro pro capite), con una riduzione del -1,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
La spesa convenzionata netta è stata pari a 6.517 milioni con una riduzione rispetto al 2013 del 3,6%. Al contenimento della spesa hanno contribuito in maniera importante i farmaci equivalenti che a livello nazionale rappresentano il 16,3% della spesa netta, il 25,3% delle unità vendute, il 21,8% delle dosi definite giornaliere (DDD) totali, con una quota di mercato pari al 18,7%, in crescita del 5,9% rispetto allo scorso anno (dati AssoGenerici). I farmaci a brevetto scaduto rappresentano il 73% della spesa farmaceutica netta.
E’ interessante notare che la percentuale di spesa per i farmaci equivalenti (farmaci a base di principi attivi con brevetto scaduto) è stata pari al 28,8% del totale dei farmaci a brevetto scaduto, considerando il dato a livello nazionale, ma con una chiara forbice geografica in cui le regioni del Nord fanno registrare percentuali superiori alla media italiana, mentre quelle del Sud segnano ancora il passo. Il mercato dei farmaci a brevetto scaduto resta quindi ancora saldamente dominato dai preparati “di marca”, che a livello nazionale rappresentano il 47,7% in valore delle unità vendute. E’ pure per questo che anche nel 2014 è stata riscontrata una crescente incidenza del 13,6% - sulla spesa convenzionata - della compartecipazione a carico del cittadino (comprensiva del ticket per confezione e della quota a carico del cittadino eccedente il prezzo di riferimento sui medicinali a brevetto scaduto) rispetto al 12,7% registrato nel 2013 (dati Osmed 2014).
L’ammontare complessivo della spesa per compartecipazioni a carico del cittadino sui medicinali di classe A è risultata pari a 1.121 milioni di euro, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente del +4,4%. Un ricorso più diffuso all’equivalente consentirebbe quindi una significativa contrazione dell’esborso diretto a carico delle tasche degli italiani.
AssoGenerici comprende le preoccupazioni rappresentate da Federanziani a proposito del cosiddetto zapping farmaceutico, vale a dire la possibilità data al farmacista di sostituire un farmaco prescritto dal medico con uno equivalente se disponibile, ma non condivide la proposta di modificare le norme sulla sostituibilità. “Le diverse norme oggi in vigore disegnano un quadro molto chiaro” dice Enrique Häusermann, presidente di AssoGenerici.
“Se il medico appone la dicitura “non sostituibile” il farmacista non può dispensare un farmaco differente da quello prescritto, mentre se non c’è questa indicazione può sostituire il farmaco solo se ne esiste in commercio un altro equivalente a un prezzo più basso. Se il medico indica un preciso farmaco equivalente – indicando molecola e produttore – il farmacista non ha alcun motivo o possibilità di consegnare un altro medicinale, in quanto i generici hanno di norma il medesimo prezzo. Infine, se si indica soltanto la molecola, il farmacista può consegnare il generico di cui dispone.
Mantenere la possibilità di indicare il solo principio attivo” prosegue il presidente di AssoGenerici “appare come una misura razionale, nel momento per esempio in cui si prescrive un farmaco per condizioni acute o quando si instaura una nuova terapia, nel qual caso la cosa più importante è avviare subito l’assunzione del medicinale. Siamo certi che il farmacista non abbia difficoltà a consegnare il medesimo medicinale anche alle successive prescrizioni, soprattutto considerando che in Italia, in particolare tra la popolazione anziana, è fortunatamente diffusa la figura del “farmacista di fiducia”.
In merito alla decisione del comitato per i medicinali per uso umano dell’EMA (CHMP) di raccomandare la sospensione dal commercio di alcuni medicinali, AssoGenerici ritiene doveroso fare presente che tale decisione non comporta alcun disagio o rischio per i cittadini italiani. La decisione, che rimanda agli enti regolatori nazionali la scelta di sospendere o meno la commercializzazione, è stata presa a seguito del riscontro di irregolarità nella condotta degli studi da parte di una CRO, la GVK Bio, cui si erano affidati svariati produttori europei ed extraeuropei non solo di farmaci equivalenti ma anche di farmaci brand.
Di molti di questi medicinali erano disponibili presso l’EMA anche documentazioni basate su studi condotti da altre organizzazioni, ragion per cui non è stato necessario suggerire alcun provvedimento, mentre per altri 300 si è scelto di procedere nel modo indicato. “La misura suggerita dal Comitato dell’EMA è improntata doverosamente alla massima cautela, ma non vi sono elementi che suggeriscano la presenza di pericoli per i pazienti, come ha già avuto modo di comunicare l’Agenzia Italiana del Farmaco. Nel caso dell’Italia, i prodotti interessati riguardano 9 principi attivi per un totale di una ventina di medicinali, alcuni dei quali, peraltro, non sono attualmente neanche in commercio. Inoltre si tratta di medicinali che rappresentano percentuali irrisorie delle vendite complessive di tutti medicinali a base di quel determinato principio attivo e quel dosaggio” dice il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann.
“Per tutti questi medicinali sono disponibili in Italia svariate alternative e, quindi, è impossibile che la sospensione cautelare possa generare difficoltà alle persone in trattamento. Voglio peraltro sottolineare che gli accertamenti sulla CRO GVK Bio sono anche il risultato della politica di assoluta severità nel controllo del rispetto delle buone regole di laboratorio e di produzione che ha da sempre il massimo supporto delle associazioni dei produttori di farmaci, a cominciare dalla European Generic Medicines Association. A seguito del parere del CHMP, i membri dell’EGA e le rispettive aziende che appartengono alle associazioni nazionali agiranno sulle raccomandazioni provenienti dall’EMA in collaborazione con le autorità nazionali”.
Un avocado al giorno per combattere il colesterolo in eccesso.
Uno studio della Pennsylvania State University, pubblicato sul Journal of the American Heart Association, ha infatti scoperto che questo frutto tropicale riduce i livelli nel sangue del colesterolo “cattivo” o LDL, abbassando così il rischio di avere un attacco cardiaco. Nello studio sono stati coinvolti 45 pazienti sani, in sovrappeso o obesi di età compresa tra i 21 e i 70 anni. I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di seguire per un periodo di due settimane la tipica dieta di un americano medio, cioè con il 34 per cento di calorie provenienti da grassi, il 51 per cento da carboidrati e il 16 per cento da proteine
In seguito, i partecipanti sono stati suddivisi in modo da far seguire loro tre diete diverse per abbassare il colesterolo. In particolare, un gruppo ha seguito una dieta a basso contenuto di grassi che non prevedeva il consumo di avocado; un secondo gruppo ha seguito una dieta a moderato contenuto di grassi senza avocado; e un terzo gruppo una dieta a moderato contenuto di grassi con il consumo di un avocado al giorno.
Le diete sono state seguite per 5 settimane. Durante tutto il periodo di studio i ricercatori hanno effettuato esami del sangue a campione sui soggetti. Dai risultati è emerso che, nonostante la dieta a basso contenuto di grassi avesse un minor apporto calorico rispetto agli altri due a medio contenuto (24 per cento di calorie da grassi contro il 34 per cento), le analisi del sangue hanno rivelato che alla fine della dieta che comprendeva gli avocado il livello di colesterolo LDL era calato di 13 punti e mezzo in confronto al valore medio (13,5 milligrammi per decilitro in meno).
Addirittura il doppio se comparato con il valore riscontrato dopo la dieta a basso contenuto di grassi (7,4 mg/dl in meno).
“Questo dimostra che l’apporto di acidi grassi monoinsaturi fornito dagli avocado riesce a far calare drasticamente il colesterolo cattivo“, ha detto Penny M. Kris-Etherton, presidente dell’American Heart Association’s Nutrition Committee e coordinatore dello studio.
Quando i livelli di colesterolo più pericoloso o LDL sono particolarmente elevati e non controllabili con misure non farmacologiche restano tuttavia un pilastro alcuni medicinali come le statine disponibili come farmaci equivalenti, di provata efficacia e basso costo.
Non solo cura dell’osteoporosi: i bisfosfonati, farmaci che riducono il riassorbimento dell’osso e oggi disponibili anche come equivalenti, potrebbero contribuire alla prevenzione del tumore del polmone, del seno, del colon e dell’endometrio. Lo sostengono due studi da poco comparsi sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), i cui esiti appaiono molto promettenti, sebbene preliminari perché per ora condotti soltanto in laboratorio e non ancora su uomini. I bisfosfonati erano già stati associati, in studi precedenti, ad un rallentamento della crescita di alcune forme di cancro in determinati pazienti e non in altri, ma il meccanismo e le ragioni per cui questo avvenisse non erano chiari. In queste due nuove ricerche, un team di ricercatori internazionale guidato da studiosi della Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York ha dimostrato che questi farmaci bloccano la crescita anormale di cellule dovuta a un malfunzionamento di alcuni recettori, ben noti per essere associati allo sviluppo di alcuni tumori (e alla loro resistenza ad alcune terapie), quelli della famiglia del fattore di crescita epidermico noto come EGFR o HER.
«I bisfosfonati potrebbero avere un ruolo importante nella prevenzione e nel trattamento di forme di cancro molto diffuse - spiega Mone Zaidi, autore principale delle ricerche -. Si tratta di farmaci già approvati, disponibili, sicuri e in uso da anni, il che è un chiaro vantaggio sia per i pazienti che per la sostenibilità economica a carico del sistema. Ora dobbiamo soltanto verificare su persone sane e pazienti ciò che abbiamo scoperto e confermato su cavie di laboratorio».
Molte allergie alla penicillina sono più una convinzione che non un dato reale.
Secondo una serie di dati presentati ad Atlanta (Usa) al convegno annuale dell'American College of Allergy, Asthma an Immunology (Acaai) molti dei presunti allergici a questo antibiotico in realtà non hanno mai ricevuto una conferma della diagnosi da parte di test allergologici specifici. Uno studio coordinato da Thanai Pongdee, allergologo della Mayo Clinic, di Cleveland (Ohio) ha rilevato che ben il 94% delle persone convinte di essere allergiche alla penicillina può risultare negativo ai test allergologici.
“Una gran parte degli individui coinvolti nel nostro studio che aveva una storia di allergia alla penicillina in realtà non era allergica – ha raccontato l'allergologo – Queste persone potrebbero aver avuto una risposta sfavorevole alla penicillina in qualche momento nel passato, come un'orticaria, ma ora non hanno mostrato nessun segno di allergia alla penicillina”. In un altro studio i test cutanei hanno smentito la presenza delle presunte allergie alla penicillina in 29 dei 38 pazienti coinvolti, permettendo di modificare la terapia farmacologica e, essendo la penicillina in varie formulazioni disponibile come farmaco equivalente, di ridurne così i costi, perché si può evitare il ricorso a farmaci più impegnativi economicamente, sempre che il quadro microbiologico delle resistenze batteriche lo consenta. “Quando ci viene detto che siamo allergici a qualcosa è importante essere visitati e testati da un allergologo, che ha la preparazione specializzata necessaria per una diagnosi e un trattamento accurati – ha sottolineato James Sublett, presidente eletto dell'Acaai – Se si è davvero allergici a un farmaco l'allergologo saprà fornire consigli su un'alternativa appropriata”.
Non solo difficoltà esistenziali e perdita di interesse verso la vita: la depressione comporta anche un altro problema, quello dell'invecchiamento biologico precoce. A sostenerlo è una ricerca olandese condotta dalla Vu University Medical Centre di Amsterdam e pubblicata sulla rivista specialistica Molecular Psychiatry.
Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato 2.400 volontari (sia sani sia depressi) studiandone in modo specifico i telomeri, vale a dire la regione terminale dei cromosomi.
I telomeri svolgono un ruolo fondamentale per far sì che ad ogni duplicazione dei cromosomi non vi sia perdita di informazioni. In altre parole, se il telomero non esistesse ad ogni replicazione del DNA una parte delle istruzioni genetiche verrebbe perso.
Diverse ricerche hanno riscontrato che ad ogni ciclo replicativo della cellula si verifica un progressivo accorciamento dei telomeri, e questo fenomeno è stato messo in relazione con l'invecchiamento cellulare.
Nella loro ricerca gli studiosi olandesi hanno verificato che nelle persone colpite da depressione i telomeri risultavano più corti del normale, se confrontati con quelli dei volontari che non ne avevano mai sofferto.
Secondo i dati dello studio, un soggetto sano perde normalmente tra le 14 e le 29 coppie di basi del Dna (il parametro che ne misura la lunghezza).
I soggetti affetti da depressione, invece, fanno registrare una perdita di 83-84 coppie di basi. Un dato che, secondo i ricercatori, corrisponderebbe a una maggiore anzianità delle cellule di 6-8 anni.
La coordinatrice dello studio, Josine Verhoeven, ha spiegato che "La nostra ricerca fornisce prove convincenti che la depressione si associa a un invecchiamento biologico rilevante".
Tuttavia, secondo la scienziata, non è ancora stato accertato il tipo di danno prodotto da questo tipo di invecchiamento e, soprattutto, se questo processo può essere invertito.
Quello che è certo è che la depressione non deve essere trascurata e va trattata con diversi approcci, da quello psicoterapico a quello farmacologico, che può giovarsi di medicinali equivalenti di basso costo ma di grande efficacia.
L'assunzione di omega 3, disponibili oggi come farmaci equivalenti, facili da reperire e di basso costo, riduce il desiderio di nicotina e il numero di sigarette fumate al giorno. E' quanto emerge da uno studio dell'Università di Haifa, in Israele, pubblicato sulla rivista Journal of Psychopharmacology.
Gli studiosi hanno esaminato 48 fumatori di età compresa tra i 18 e i 45 anni che fumavano in media 14 sigarette al giorno, dividendoli in due gruppi: al primo è stato chiesto di assumere cinque capsule al giorno di integratori di omega 3 per trenta giorni, al secondo è stato invece somministrato un placebo. In nessun momento dello studio è stato chiesto ai partecipanti di smettere di fumare. A distanza di un mese dalla somministrazione, in chi aveva assunto gli i omega 3 il desiderio di nicotina, misurato all'inizio secondo una serie di parametri prestabiliti, risultava significativamente più basso. Così come il numero di sigarette giornaliere fumate, diminuito in media di due (pari all'11%).
"Le sostanze e farmaci utilizzati attualmente per aiutare le persone a ridurre e smettere di fumare non sono sempre efficaci e causano effetti avversi spesso non facili da affrontare - spiega Sharon Rabinovitz Shenkar, autore della ricerca - i risultati di questo studio hanno invece indicato che gli omega 3, poco costosi, facilmente disponibili e quasi senza effetti collaterali, riducono il fumo in modo significativo".
Un effetto positivo, dunque, che va ad aggiungersi alle diverse azioni benefiche degli omega-3, dalla riduzione del colesterolo “cattivo” o Ldl e dei trigliceridi, alla diminuzione della pressione arteriosa, alla riduzione della rigidità delle articolazioni in chi soffre di artriti a una migliore salute delle ossa e persino alla riduzione della tendenza a sviluppare depressione. Insomma, un toccasana per la salute dell’intero organismo, che però per esplicare al meglio le sue virtù deve essere assunto a dosaggi congrui come quelli presenti nei farmaci equivalenti disponibili oggi in farmacia.
“Nella vicenda di Foggia mi pare emergano diverse contraddizioni, probabilmente frutto di una scarsa conoscenza della materia”.
Francesco Colantuoni, vicepresidente di AssoGenerici e coordinatore del Biosimilar Italian Group si esprime così in merito al caso del gruppo di genitori che si sarebbero opposti alla scelta della Regione Puglia di promuovere l’impiego del biosimilare dell’ormone della crescita (GH) anziché del farmaco originatore per la cura dei loro figli affetti da bassa statura.
“E’ evidente che vada tutelato il diritto del paziente a essere curato con farmaci efficaci e sicuri, anzi con le migliori cure possibili, e che debba essere il medico a scegliere in scienza e coscienza quale medicinale usare – prosegue il vicepresidente di Assogenerici -. Ma è quello che pare essere effettivamente successo: un medico ha scelto uno dei biosimilari del GH che sono farmaci efficaci e sicuri, impiegati con successo da diversi anni in Europa”. Una vicenda che fa emergere l’importanza di una maggiore diffusione di conoscenze su opportunità terapeutiche di grande impatto per la tutela della salute dei cittadini e per le possibilità di risparmi per le casse dello stato. “Al di là del modo un po’ confuso con cui è stata divulgata la notizia, sarebbe più utile parlare di biosimilare non solo come di un medicinale a minor costo ma come di un farmaco frutto di una tecnologia più recente – commenta Colantuoni-. Perché di questo si tratta: il biosimilare è prodotto che facendo tesoro dei progressi registrati nelle biotecnologie, presenta alcune caratteristiche migliorative e ha dimostrato sui pazienti di essere altrettanto efficace del farmaco originatore e in più costa meno. E questo avviene per diverse ragioni, perché i costi di ricerca sono inferiori, perché le stesse tecnologie, nel tempo, migliorano pur costando meno. Si pensi a un esempio chiaro a tutti: un PC degli anni novanta costava l’equivalente dello stipendio di un impiegato, oggi un prodotto analogo costa un decimo e ha prestazioni anche 1000 volte superiori. E nessuno, credo, vorrebbe comprare oggi un personal computer degli anni novanta…” conclude Francesco Colantuoni.
“I farmaci biosimilari consentiranno ai pazienti europei un migliore accesso ai prodotti biologici ritenuti essenziali per molte terapie ormai divenute gold standard, offrendo nel contempo risparmi a lungo termine indispensabili per rendere sostenibili i Servizi Sanitari Europei, compreso quello italiano”. Lo sostiene il Presidente di AssoGenerici Enrique Hausermann a commento del rapporto Factors Supporting a Sustainable European Biosimilar Medicines Market”, commissionato all’istituto di ricerche tedesco GfK dal Gruppo Biosimilari (EBG) della European Generic Medicines Association (EGA). L’indagine è stata condotta su un campione di responsabili delle politiche sanitarie, medici, associazioni di pazienti, rappresentanti dell’industria di sette paesi europei (Francia, Germania, Ungheria, Italia, Polonia, Spagna e Regno Unito).”Lo studio, come illustrato da Chris Teale, Vicepresidente GfK, “ha raccolto i punti di vista di tutti i soggetti potenzialmente interessati all’uso dei farmaci biosimilari identificando ciò che deve accadere perché il settore dei farmaci biosimilari possa portare benefici significativi a tutta la comunità ".
I punti principali identificati nel rapporto come condizioni necessarie per lo sviluppo del biosimilari sono i seguenti:
•Informare in modo imparziale tutti i soggetti interessati - medici, pazienti, professionisti sanitari ed autorità governative che sovraintendono alla politica sanitaria;
•Promuovere e mantenere la concorrenza nel mercato farmaceutico incentivando un adeguato uso precoce dei farmaci biosimilari in combinazione con politiche di prezzi sostenibili;
•Promuovere l'innovazione e garantire un'equa remunerazione del capitale investito;
•Raccogliere e pubblicare dati clinici basati sull’evidenza dimostrata nelle reali condizioni d’impiego (Real World Evidence - RWE) per rafforzare la fiducia verso la sicurezza e l'efficacia dei farmaci biosimilari;
•Realizzare procedure di acquisto trasparenti e condivise tra Payers , Medici, Pazienti;
•Perseguire processi decisionali chiari ed efficienti che non ritardino la disponibilità dei farmaci biosimilari sul mercato.
“Lo studio suona a conferma della linea tenuta finora da AssoGenerici” sottolinea il vicepresidente dell’Associazione, Francesco Colantuoni. “Il nostro impegno nel favorire la discussione sui biosimilari nella comunità scientifica è costante, così come il lavoro per garantire al pubblico un’informazione corretta. Resta comunque la necessità di creare un coinvolgimento ancora maggiore di tutti gli stakeholder”.
Per meglio articolare questa azione, è stato costituito l’Italian Biosimilar Group (IBG), il gruppo interno ad AssoGenerici che raccoglie le aziende leader del settore, che hanno introdotto la concorrenza nel mercato del farmaco biotecnologico, favorendo così l’accesso ai trattamenti più innovativi da parte di una platea più vasta di pazienti italiani e contribuendo alla sostenibilità della tutela della salute. Da oggi il gruppo IBG”, prosegue Colantuoni, “potrà essere il punto di riferimento per tutta l’industria”.
L’integrazione quotidiana di vitaminaD potrebbe migliorare la dermatite atopica che peggiora in inverno nei bambini.
Lo hanno scoperto i ricercatori dell’università di Harvard dopo avere studiato 107 bambini affetti da questa malattia cutanea. La dermatite atopica è una malattia infiammatoria cronica della pelle, con intenso prurito e secchezza cutanea. Interessa il 5-20% dei bambini e l’1-3% degli adulti, con notevoli effetti negativi sulla qualità della vita di chi ne soffre e delle loro famiglie. D’inverno, per cause fino a oggi non chiare, questo disturbo tende a peggiorare. Un trattamento comune per la dermatite atopica grave è quello con luce ultravioletta che favorisce la sintesi di vitamina D. Partendo da questa osservazione i ricercatori statunitensi hanno supposto che una carenza di vitamina D possa essere alla base del peggioramento osservato nella stagione invernale.
I 107 bambini studiati sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi: uno ha ricevuto per un mese 1000 unita al giorno di vitamina D, l’altro del placebo. Alla fine del mese di terapia, i ricercatori hanno osservato che i bambini trattati con vitamina D avevano migliorato la gravità della dermatite in modo nettamente superiore (30% rispetto a 15%) ai bambini che avevano assunto il placebo.
La supplementazione con vitamina D, disponibile anche come farmaco equivalente, può secondo gli scienziati americani migliorare la gravità della dermatite atopica soprattutto nei bambini che abbiano una quantità minore di questa vitamina nel loro organismo.