L'italiano compra più specialità di quanto dovrebbe. Secondo i medici di famiglia è perché non vuole confondersi tra tanti generici alternativi proposti in farmacia. Secondo i farmacisti, è una scelta personale: il rischio di confondersi non nasce dalla sostituzione. Quale che sia la causa, Assogenerici, l'associazione di produttori di farmaci equivalenti, ha deciso di pubblicare online ogni giorno il calcolo della spesa che i cittadini sostengono per le i farmaci di marca. La spesa degli italiani è aumentata del 2,1% nel 2013, e quest'anno si aggira sul miliardo di euro.
La vitamina C aiuta i chemioterapici ad uccidere le cellule del cancro all'ovaio riducendone gli effetti collaterali. Per poterne sfruttare i benefici non è però sufficiente assumerla per via orale: solo la somministrazione endovenosa permette di raggiungere le alte dosi necessarie per produrre questo effetto. A svelarlo è uno studio pubblicato su Science Translational Medicine da un gruppo di ricercatori del Medical Center dell'Università del Kansas che grazie alla collaborazione con i National Institutes of Health hanno gettato luce sui meccanismi che permettono a questa molecola naturale di esercitare il suo effetto antitumorale.
In effetti l'uso della vitamina C contro il cancro non è una novità. “Negli anni '70 l'ascorbato, o vitamina C, era una terapia non convenzionale contro il cancro – racconta Qi Chen, responsabile del nuovo studio – Era sicuro, e c'erano racconti della sua efficacia clinica quando somministrato per via endovenosa. Ma dopo che la somministrazione per via orale si è rivelata inefficace in due studi clinici sul cancro, gli oncologi tradizionali hanno abbandonato l'idea”. Ciononostante i sostenitori delle medicine complementari hanno continuato ad utilizzare la vitamina C nelle terapie antitumorali. Chen e collaboratori hanno deciso di cercare di far chiarezza sull'argomento studiando l'effetto della somministrazione di questa molecola sia in laboratorio, sia nei pazienti, arrivando così a definire il suo meccanismo di azione.
“Ciò che abbiamo scoperto - spiega Chen – è che, a causa delle sue differenze farmacocinetiche, la vitamina C somministrata in endovena, contrariamente a quella assunta per via orale, uccide alcune cellule tumorali senza mettere in pericolo i tessuti sani”. In particolare, nei fluidi che circondano le cellule tumorali la vitamina C porta alla formazione di perossido d'idrogeno, induce danni al Dna, riduce i livelli di ATP (fonte di energia per le cellule), attiva la cosiddetta via dell'AMPK e inibisce l'attività di mTOR (coinvolte nella regolazione della crescita e della morte delle cellule). “Ora conosciamo meglio l'azione antitumorale della vitamina C – commenta Jeanne Drisko, coautrice dello studio – cui si aggiungono un chiaro profilo di sicurezza e una credibilità biologica e clinica. Nel loro insieme – conclude la ricercatrice – i nostri dati forniscono forti prove che giustificano la conduzione di studi più ampi e robusti per studiare definitivamente i benefici dell'aggiunta della vitamina C alla chemioterapia convenzionale”.
Fonte salute24.ilsole24ore.com
È un dato acquisito almeno dall’inizio del secolo scorso: ignorare le evidenze scientifiche ha un costo. Nel caso della diffidenza verso i farmaci equivalenti è possibile determinare questo costo al centesimo, giorno per giorno e regione per regione. Questa è infatti la funzione del widget “Il salvadanaio della salute” da ieri on-line sul sito web, che calcola quotidianamente quanto spendono i cittadini italiani per coprire la differenza di prezzo tra l’equivalente e il farmaco di marca.
Si scopre, così, che nel 2013 dalle tasche dei cittadini sono usciti oltre 850 milioni di euro, e che dall’inizio dell’anno a oggi la tendenza si mantiene, tanto che dal 1° gennaio la somma totalizzata è 103 milioni, e 30 milioni solo dal 1° febbraio ad oggi. Insomma, ogni giorno in media si spendono 2,3 milioni di euro sottratti ad altri bisogni sanitari e non solo.
“Questo della spesa privata per l’acquisto del medicinale di marca, è un dato che abbiamo più volte riportato all’attenzione, e intendiamo informare periodicamente il pubblico a questo riguardo. Crediamo, però, che una rappresentazione dinamica possa rendere più concretamente l’idea di che cosa accade dal punto di vista economico, e nell’era dell’informazione in tempo reale e diretta questa soluzione web-based ci sembra la più adeguata”, ha detto il direttore generale di AssoGenerici, Michele Uda.
“La nostra Associazione ha sempre guardato con attenzione alla comunicazione digitale finalizzata alla concretezza e alla trasparenza del messaggio - ha concluso - e questo rispecchia lo spirito stesso del farmaco equivalente: molecole note, di cui si conosce tutto, affidabili e sicure ma prodotte e distribuite con tecnologie al passo con i tempi”.
Fonte quotidianosanita.it - assogenerici.org
Molto spesso sia i pazienti che i medici non sanno che molti medicinali di utilizzo comune sono di derivazione animale, come per esempio le eparine a basso peso molecolare derivate dai maiali, la gelatina dalle mucche, e gli estrogeni coniugati dai cavalli; ma anche per gli eccipienti di uso comune, come il lattosio e il magnesio stearato, la provenienza non è specificata in etichetta. Infatti, un gruppo di ricercatori britannici ha verificato che nei 100 farmaci più prescritti almeno 74 contenevano uno o più eccipienti tra lattosio, gelatina e stearato di magnesio, ma era molto difficile individuarne la provenienza, anche contattando direttamente il produttore. Un problema emergente, se si considera che sono sempre di più le persone che per motivi personali scelgono di seguire una dieta vegetariana o vegana: che si tratti del rispetto di dogmi religiosi o di scelte condizionate da preoccupazione per l’ambiente, il fenomeno riguarda in Gran Bretagna il 5% della popolazione generale, ma il 12% dei cittadini di razza non caucasica. Sarebbe utile per tutte queste persone che la provenienza dei vari ingredienti fosse specificata in etichetta, o nel foglio illustrativo dei medicinali, ma al momento ciò non è permesso dalle norme europee che obbligano i produttori a segnalare solo la presenza di sostanze che possono provocare reazioni cliniche avverse. D’altra parte forse non sarebbe possibile elencare in etichetta tutte le possibili specifiche di ogni singolo ingrediente. La soluzione definitiva, suggeriscono gli autori dell’indagine, potrebbe essere quella di eliminare i prodotti di derivazione animale dai medicinali. Quando possibile, ovviamente. Il lattosio, per esempio, viene già prodotto da alcune aziende senza l'utilizzo di caglio, lo stearato di magnesio può essere ottenuto per sintesi chimica, senza ingredienti di origine animale, e sono già disponibili capsule vegetali per sostituire la gelatina.
Fonte farmacista33.it
Rapporto Osmed. Primi nove mesi 2013: spesa farmaceutica a 19.5 mld. Boom della privata. Continua ad aumentare l'ospedaliera. Diminuisce la territoriale.
In allegato il rapporto dell'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA)
La non-profit inglese Sense About Science ha realizzato un volume guida per aiutare a distinguere la ricerca seria dai venditori di speranze.
Il volume è stato tradotto a cura dell'Aifa ed è disponibile cliccando sul link qui sotto
Luca Pani, Direttore Generale dellAIFA: “E' importante far capire ai cittadini la differenza tra il mondo della ricerca, che lavora per offrire trattamenti efficaci e sicuri, e i venditori di speranze che speculano sulla sofferenza della gente”
Ulteriori info sul sito dell'Agenzia Italiana del Farmaco
I fenomeni di scarsità di medicinali denunciati dalle associazioni di categoria e dalla stampa non riguardano i generici, che sono disponibili per la stragrande maggioranza delle specialità definite carenti. “E’ un’occasione per guardare con occhi diversi alla scelta di un farmaco equivalente quando si inizia una terapia cronica” sottolinea il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann.
- “Il fenomeno delle carenze di specialità medicinali nelle farmacie è un fenomeno sempre più frequente in Italia, che richiede un’attenzione costante” dice il presidente di AssoGenerici, Enrique Häusermann. “Tuttavia, per quello che riguarda la garanzia dell’accesso al farmaco da parte del cittadino, è bene tenere presente che per la stragrande maggioranza dei farmaci di cui si accusa scarsità sono disponibili le versioni equivalenti, che si tratti di un antiacido comel’esomeprazolo o di un antitumorale come l’anastrozolo”. Per AssoGenerici questa è una situazione in cui il medico potrebbe valutare con occhi diversi la possibilità di avviare una terapia cronica con un farmaco equivalente: “proprio perché è importante la continuità terapeutica, chi prescrive dovrebbe valutare il vantaggio per il paziente che deriva dalla scelta di un medicinale che non è soggetto a questo genere di fenomeni. Non è un caso che le carenze di questo o quel medicinale si verifichino soprattutto in paesi in cui minore è la penetrazione del generico” conclude Enrique Häusermann.
Fonte: Comunicato stampa Assogenerici
www.assogenerici.org
Il mondo dei Big Data sta entrando sempre di più anche nel campo della ricerca e dello sviluppo di nuovi farmaci e, considerando la quantità di dati e le numerose possibilità di incrociarli, la sua gestione supera di gran lunga il livello nazionale e persino quello europeo per approdare necessariamente al mondo globale.
I Big Data in farmacologia sono rappresentabili da grandi aggregazioni di informazioni legate strettamente alle popolazioni che assumono i farmaci, come dati biometrici (tra questi, ad esempio, altezza, peso, pressione, quantità di grasso corporeo, etc.), dati correlati alle abitudini delle popolazioni, dati omogenei sugli obiettivi che si vogliono raggiungere con la terapia, compresi quelli sugli effetti collaterali, dati di riferimento sull’andamento naturale delle stesse patologie e dati sulla durata della risposta farmacologica nel tempo. Alcune altre variabili biologiche, tra cui anche quelle geografiche, sono importanti per stabilire gli effetti dei medicinali, così come ha un peso significativo sapere se l’effetto di un farmaco può essere influenzato da variabili non-biologiche delle popolazioni, cioè come determinati stili di vita possano realmente modificare il modo in cui un farmaco esprime la sua efficacia o modifica il profilo di sicurezza (per esempio consumo di alcolici e possibili danni epatici).
Pensiamo alla UK Biobank. È un agglomerato enorme di dati: circa mezzo milione di adulti britannici ha donato campioni di sangue e urine, ha acconsentito a farsi misurare altezza e peso, ha risposto alle domande sugli stili di vita e la dieta adottati e ha dato informazioni sulla propria storia medica. Un gruppo di ricerca studierà come la salute di queste persone cambierà nel tempo, utilizzando ampi dati che abbraccino le cure primarie, le statistiche ospedaliere e i registri su tumore e decessi. Lo scopo? Studiare le cause, la prevenzione e il trattamento di malattie comuni, ma anche scoprire gli eventuali legami con l’ambiente e le funzioni cognitive.
Attraverso la raccolta e l’analisi di dati sanitari è pertanto possibile definire in maniera più accurata le malattie e sviluppare un’attività di sorveglianza che favorisca l’individuazione di nuove risposte e misure di sanità pubblica.
Ricordate John Snow? Quando nel 1854 si diffuse il colera nel quartiere di Soho, a Londra, Snow ne studiò la diffusione, utilizzando una piantina della città e la mappatura della diffusione dei casi nei diversi periodi. Questo metodo gli permise di notare che i casi si concentravano attorno ad una pompa dell’acqua presente nel distretto di Soho e di fermare la malattia, bloccando la pompa stessa. Recentemente un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford con sede in Nepal e Vietnam ha avuto un approccio simile per studiare la diffusione del tifo in Nepal: ha infatti combinato il sequenziamento del DNA con le rilevazioni GPS per mappare i casi di tifo ed è riuscito a rintracciare l’origine dei focolai, fornendo così un esempio concreto dei benefici che potremmo ottenere combinando insieme diversi set di dati.
Le più recenti tecniche di sequenziamento del DNA offrono potenti strumenti per identificare le cause delle malattie, aiutare la diagnosi, prevedere le risposte ai trattamenti e determinare quali possano essere le migliori cure per il paziente. Uno studio a livello mondiale, guidato da Dominic Kwiatkwoski, ha ad esempio dimostrato come attraverso queste tecniche si possano affrontare problemi di portata globale, in grado di mettere in pericolo centinaia di migliaia di vite. La diffusione in Cambogia di alcuni parassiti della malaria resistenti al farmaco antimalarico più efficace è stata, infatti, controllata attraverso il monitoraggio genetico dei parassiti stessi.
Se si pensa ai database contenenti dati individuali, tra cui quelli genetici, è inevitabile porsi il problema della privacy, che va affrontato dal punto di vista giuridico per bilanciare le esigenze di trasparenza e la necessità dei soggetti che partecipano alla ricerca di essere tutelati nella loro riservatezza. Tuttavia, l’ingresso dei Big Data nel mondo della farmacologia porta con sé un potenziale grande vantaggio per la salute dell’uomo: il beneficio che ne consegue è legato alla capacità di incrociare enormi masse di dati e analizzare così una quantità ineguagliata di informazioni, riferite a milioni di pazienti e pertanto in grado di consentire analisi di ampia portata mai tentate sinora.
Quella dei Big Data è una disciplina che richiede, in tutte le fasi del processo, l’intervento di strumenti molto più sofisticati rispetto a quelli tradizionali. Se da un lato è vero che l’intelligenza artificiale e quella umana devono completarsi per trasformare i dati in informazioni e le informazioni in conoscenza (passaggi non proprio scontati), su cui si possano prendere delle decisioni a carattere universale, dall’altro la cooperazione tra le intelligenze umane, che non sarà – almeno a breve termine – imitabile da programmi computazionali, è la caratteristica che rende davvero unica la specie umana e che servirà anche per innovare lo sviluppo farmaceutico negli anni a venire.
Luca Pani
Editoriale su agenziafarmaco.gov.it
Un gioco per ogni età. Questo il titolo della guida che il Ministero della Salute ha diffuso per aiutare i genitori a scegliere il regalo più indicato per i propri figli. Questa attenzione perché è importante che il gioco possa assolvere alla sua funzione infatti, ed è necessario che mamma e papà individuino quello in grado di rispondere meglio al bisogno del bambino in relazione alla fase di sviluppo.
I consigli sono destinati ai genitori di bambini dai 0 ai 12 anni, suddivisi per fasce di età.
Nella premessa della guida online del Ministero, si legge:
In occasione delle festività natalizie l’interesse per i giocattoli rapisce l’attenzione di grandi e bambini. I primi perché vorrebbero soddisfare tutti i desideri dei piccoli, i secondi perché attribuiscono ai doni che giungono in questa circostanza un particolare valore “magico”.
Il giocattolo ricevuto a Natale, spesso anticipato da una lettera inviata a Babbo Natale, acquista uno speciale significato soprattutto per i bambini, in quanto implica l’aspettativa di vedere riconosciuto dai propri genitori tutto l’auspicato meritato affetto. È questa la ragione per cui è importante soffermarsi, non solo sull’oggetto da donare, ma anche sul significato che esso assume per grandi e piccoli.
Perché il gioco è una cosa seria?
Perché tutti noi, per l’intero arco di vita, usiamo il gioco come mezzo per esprimere liberamente quello che siamo e quello che vorremmo essere, anche se, man mano che cresciamo, usiamo “giocattoli” diversi. Infatti, qualunque cosa si dica sul gioco dei bambini, vale anche per gli adulti.
Pur essendo considerato un bisogno prevalente dell’infanzia, esso rappresenta una necessità che, se soddisfatta in tempi e modi adeguati, riveste una funzione utile per la costruzione della personalità dell’individuo.
È a questo che serve il gioco?
Non solo! Il gioco aiuta ad acquisire la capacità di fare esperienza. Giocando, impariamo ad esprimere la nostra creatività. E, la creatività ci aiuta a scoprire chi siamo e a prendere coscienza di noi stessi come individui.
È grazie al gioco che si possono muovere i primi passi verso l’esperienza di autonomia dalla madre, cosa che favorisce la crescita del bambino.
Quando pensiamo ad un lattante, ad esempio, dobbiamo sapere che vive in uno stato di fusione con la madre, da cui è totalmente dipendente. Per compiere il difficile viaggio verso l’autonomia, il bambino si serve dei cosiddetti “oggetti transizionali”, la cosiddetta “copertina di Linus”. Un pezzo di stoffa, un pupazzo o semplicemente il pugnetto portato alla bocca o la manina che esplora l’altro seno durante l’allattamento, servono al bambino per capire che esiste un mondo esterno, un mondo nel quale deve approdare.
Ci sono cose particolari che una mamma dovrebbe fare?
La mamma oltre ad allattare, vestire e pulire il bambino, dovrebbe preoccuparsi di fornirgli cure amorevoli e sensibili, grazie alle quali il bambino può acquisire quella fiducia necessaria per creare, attraverso il gioco, il proprio spazio nel mondo, il proprio diritto di essere al mondo.
Come cambia il gioco man mano che il bambino cresce?
Il gioco varia con il variare delle fasi dello sviluppo.
Nel lattante i primi giochi coinvolgono la bocca, le manine, la vista, l’intera superficie del proprio corpo e di quello della madre.Man mano, il bambino comincia a cercare oggetti con caratteristiche simili a quelle della madre, come un orsacchiotto, un cuscino o un golfino.
Successivamente, quando comincia a percepire la presenza di emozioni dentro di sé, il bambino ricerca oggetti che possono essere utilizzati per manifestare i propri sentimenti. Ad esempio, i sentimenti di amore e odio che cominciano ad albergare nella mente del bambino si manifestano attraverso il maltrattamento o il vezzeggiamento dei propri giocattoli, come a voler mettere in scena gli stati d’animo che ancora non riesce a governare.
Pian piano, l’interesse del bambino si orienta verso altri giochi che possono avere a che fare con il riempire/svuotare, aprire/chiudere, costruire/distruggere. Questi giochi, che il bambino può fare usando qualunque oggetto ritrovato in casa, gli consentono l’esplorazione di attività motorie piacevoli.
Da un certo punto in poi, l’attività ludica acquista anche un carattere di godimento e di piacere per la buona riuscita del compito. Ciò implica non solo il piacere di fare bene qualcosa, come costruire un oggetto, fare un disegno, ma anche il piacere che ne deriva dalla possibilità di esibirlo ai propri genitori che dovranno mostrare interesse e apprezzamento.
In conclusione, perché il gioco possa assolvere alla sua funzione, è necessario che mamma e papà individuino i giochi in grado di rispondere al bisogno del bambino in relazione alla fase di sviluppo.
Non è importante il giocattolo in sé (costoso o moderno che sia) ma ciò che esso significa per il bambino: anche semplici oggetti ritrovati in casa (pezzi di stoffa, pentole, coperchi, carta, cartoncini ecc.) possono soddisfarlo e aiutarlo ad esprimere la propria creatività.
(Fonte: Guida online "Giocare aiuta a crescere" del Ministero della Salute)
È calata la spesa farmaceutica territoriale totale, pubblica e privata. Sembrerebbe una buona notizia, ma ciò avviene grazie soprattutto alla riduzione della copertura del Servizio Sanitario, a fronte di un notevole aumento per la spesa per i ticket a carico dei cittadini (+117,3% dal 2008 al 2012).
Lo ha dichiarato uno studio Censis 2013 sulla situazione sociale dell'Italia, rielaborando dati Osmed e Farmindustria. Secondo la ricerca, la spesa totale, pubblica e privata, si sta via via riducendo, attestandosi, nel 2012, a 19.389 milioni di euro, con una calo rispetto al 2008 dell'1,9% e del 5,6% rispetto all'anno precedente.
A fronte della riduzione costante della spesa pubblica, diminuita in termini nominali in un solo anno dell'8%, come si diceva, nel Rapporto si osserva che la spesa privata segue un andamento opposto di crescita costante, pari a +12,3% dal 2008 al 2012. In particolare è aumentata la spesa per ticket sui farmaci, raggiungendo nell'ultimo anno la quota di 1,4 miliardi di euro. È diminuita pertanto la quota di spesa coperta dal SSN, che è passata dal 65,9% del 2008 al 61% del 2012.
“Le dichiarazioni uscite dal Congresso dell’Associazione Italiana Tiroide a proposito dei farmaci equivalenti ripropongono un tipo di argomentazione che a tutto serve salvo che a fare chiarezza” dice Enrique Häusermann, presidente di AssoGenerici. “Per cominciare, non è corretto dire che il generico, in questo caso della tiroxina - ma il discorso vale per qualsiasi medicinale generico - non ha provato la sua equivalenza. L’equivalenza, se il farmaco è stato autorizzato, è già provata in base ai criteri universalmente accettati da tutte le agenzie regolatorie del mondo; se invece si tratta di differenze in ambito clinico, cioè nell’impiego su un vasto numero di pazienti, sarebbe il caso di provarle dati alla mano e non limitarsi a parlare di fantomatiche “segnalazioni di pazienti”. In questo senso” prosegue Häusermann “ben venga il recepimento delle direttive europee sulla farmacovigilanza, che prevedono anche le segnalazioni dell’inefficacia di un farmaco da parte di tutti i soggetti: siamo certi che sulla base di dati documentati gli equivalenti non abbiano nulla da temere”. Quanto all’aspetto della continuità terapeutica, AssoGenerici ha sempre concordato sul fatto che, soprattutto quando si tratta di pazienti particolarmente complessi, è bene proseguire con il farmaco con cui la terapia è stata iniziata con soddisfazione e che i cambiamenti vadano adeguatamente monitorati “ma questo nulla ha a che vedere con il fatto che quando la terapia viene avviata si può cominciare senza timori di sorta con il farmaco equivalente”. AssoGenerici auspica che queste nozioni basilari, che sono patrimonio comune in tutta Europa, vengano finalmente condivise anche dalla comunità medica italiana nella sua interezza.
Fonte assogenerici.org
Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo per il recepimento della direttiva Ue in materia vendita di farmaci via Internet. La direttiva 2011/62, riguarda in generale le norme comunitarie relative ai medicinali per uso umano, «al fine di impedire l''ingresso di medicinali falsificati nella catena di fornitura legale». Il provvedimento a tutela della salute umana disciplina, tra le altre cose, la vendita online dei farmaci senza obbligo di prescrizione medica, e «rafforza, attraverso il sistema nazionale antifalsificazione, l''efficace tutela dalla contraffazione dei medicinali». Attraverso tale sistema, in collaborazione con i Carabinieri per la tutela della salute (Nas), si potrà impedire l''immissione in commercio e la circolazione sul territorio nazionale di medicinali falsificati, potenzialmente pericolosi per la salute dei pazienti. Con il recepimento della direttiva Ue, verranno dunque armonizzate le norme italiane a quelle europee in materia di farmaci venduti online, che il più delle volte risultano contraffatti. I farmaci potranno essere venduti solo da farmacie o parafarmacie con un'autorizzazione ad hoc e sarà compito del ministero della Salute intervenire su eventuali attività commerciali illecite, oscurare siti non autorizzati, nonché curare un elenco disponibile sul sito istituzionale che riporta tutti i soggetti autorizzati. L'approvazione, afferma Andrea Mandelli presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani «ha indubbiamente apportato un elemento di chiarezza che avevamo più volte richiesto, e cioè l'esplicito divieto di vendita on-line di medicinali soggetti a prescrizione medica anche nel momento in cui, fatte salve le garanzie poste a livello comunitario, si disciplina la vendita a distanza dei farmaci da automedicazione».
L'adeguamento arriva dopo un sollecito da parte della Commissione Sanità del Parlamento Ue che aveva recentemente inoltrato la richiesta poiché l'Italia avrebbe già dovuto farlo entro il 2 gennaio scorso.
Articolo di Simona Zazzetta per www.farmacista33.it
Ricercatori della Università di Dundee e dello University College di Londra hanno scoperto come alcune medicine frizzanti di uso comune, come aspirine, vitamine e alka-seltzer siano associate a un aumento del 16% del rischio di incorrere in eventi cardiovascolari, come infarto e attacchi di cuore.
Una scoperta di cui medici e pazienti dovrebbero di certo tenere conto. La ricerca è stata pubblicata sul British Medical Journal. Sono stati analizzati per 7 anni oltre 1.200.000 pazienti che assumevano questo tipo di medicamenti confrontandoli con chi assumeva gli stessi farmaci ma in versione priva di sodio. I pazienti del primo gruppo erano anche 7 volte più esposti a divenire ipertesi e il tasso di mortalità è risultato essere più elevato del 28% rispetto al gruppo controllo. I ricercatori concludono che le formulazioni effervescenti e solubili contenenti sodio dovrebbero essere prescritte solo nei casi in cui i benefici superano i rischi, e che le persone dovrebbero essere più informate circa il contenuto di sodio di tali farmaci che si comprano senza ricetta medica.
L’adeguamento dell’Italia alla Direttiva europea in materia di farmaci venduti online dovrà far sì che si potranno vendere via internet solo quelli senza ricetta e solo da parte di siti gestiti da vere farmacie certificate secondo un sistema di riconoscimento. Questo l’auspicio di Annarosa Racca, presidente di Federfarma che intervenendo sul tema ha ricordato che «per ora la vendita online di medicinali non è gestita da farmacie ma da siti dove vengono venduti dimagranti, farmaci per sportivi e per disfunzioni erettili a elevato rischio di contraffazione, 7 farmaci su 10 risultano infatti falsi». E aggiunge: «In Italia la contraffazione di farmaci venduti in farmacia quasi non esiste. Il problema, quindi, è solo online, ed è importante che si intervenga con una regolamentazione che stabilisca quali farmaci si possano vendere, nella fattispecie quelli senza ricetta, e che dia un riconoscimento alla farmacia che vende online perché ci sia la garanzia che sia davvero una farmacia. Questo è ciò che noi sosteniamo perché sia garantita la sicurezza dei cittadini e l’auspicio è che l'Italia recepisca quanto prima la Direttiva europea». Recepimento che dovrà avvenire entro due mesi, su sollecitazione della commissione Sanità del Parlamento dell'Unione Europea. In caso contrario, la Commissione potrebbe deferire il caso alla Corte di giustizia dell'Unione. L’augurio che si velocizzino le procedure di recepimento arriva anche dal senatore Luigi D'Ambrosio Lettieri che lo scorso luglio aveva firmato, insieme al senatore Andrea Mandelli, presidente Fofi, un ordine del giorno, approvato dal Senato, che impegnava il Governo a «vietare la vendita online dei medicinali soggetti a prescrizione medica». «Mi auguro» scrive in una nota D'Ambrosio Lettieri «che, entro dicembre, il governo recepisca la Direttiva europea che punta a regolare in un quadro più omogeneo il settore della vendita online dei farmaci, per combattere in maniera decisiva il fenomeno della contraffazione». L'evoluzione della normativa, europea e nazionale, prosegue il senatore «dovrebbe essere finalizzata a fornire strumenti utili a contrastare la distribuzione di farmaci contraffatti e dannosi per la salute. La legge di delegazione europea 2013 prevede la delega al governo per il recepimento della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, con l'obiettivo di impedire l'ingresso di medicinali falsificati nella catena di fornitura legale. Emblematico è stato il caso recente, segnalato alle autorità competenti, del sito '121 doc', una specie di farmacia online considerata legale in Gran Bretagna».
Fonte farmacista33.it
Secondo un'indagine di Astraricerche, i rimedi che gli italiani portano sempre con sé in valigia, per vacanza o per lavoro, sono il paracetamolo e i fermenti lattici.
Questi i risultati emersi da un'indagine commissionata da neoNisidina e condotta da Astraricerche su un campione di 200 farmacisti italiani distribuiti su tutto il territorio nazionale, intervistati telefonicamente circa gli acquisti farmaceutici o parafarmaceutici in preparazione dei viaggi degli italiani.
Oltre il 90% dei farmacisti ha affermato che gli italiani mettono "sempre" o "spesso" in valigia il paracetamolo e i fermenti lattici.
In aprticolare, poi, il 32% degli uomini non rinuncia a una confezione di antiacido, mentre il 24% delle donne porta con sé anche un lassativo. Ovidio Brignoli, vicepresidente della Società Italiana di Medicina Generale, spiega: “Quando si viaggia o si è in vacanza è saggio portare con sé i farmaci che possono risolvere i problemi acuti più frequenti come la febbre, o un dolore. È importante in ogni caso praticare una automedicazione consapevole e intelligente, limitandosi a intervenire sui sintomi che conosciamo bene e con farmaci di provata efficacia e sicurezza”.
Arriva dagli Stati Uniti un nuovo messaggio dei cardiologi: non è più il colesterolo a dover essere curato, ma i pazienti. Cosa singifica? Che non bisogna concentrarsi sul colesterolo alto quando già è a liveli problematici, ma bisogna preoccuparsi della prevenzione, in un modo innovativo: secondo le nuove linee guida, i pazienti vengono divisi in due gruppi: quelli che hanno già avuto problemi cardiovascolari e quelli che hanno il colesterolo alto, ma non hanno disturbi.
Nel primo gruppo, si suggerisce di somministrare statine (che sono i farmaci anti colesterolo più utilizzati) alle dosi indicate dagli studi clinici. Questa è la prevenzione secondaria. La prevenzione primaria, invece, punta a impedire che una patologia si manifesti: il punto di partenza è considerare che il colesterolo non è una malattia, ma solo una spia di pericolo che va valutata tenendo conto della situazione complessiva, caso per caso.
Va considerato che di colesterolo ne esistono due tipi, l’Ldl, o colesterolo "cattivo", il cui livello ideale nel sangue dovrebbe essere inferiore ai 130 milligrammi per decilitro (mg/dl) di sangue, e l’Hdl, quello "buono", che dovrebbe essere superiore ai 60.
Quello che suggeriscono gli americani è quindi di mettere in terapia farmacologica persone con più di 21 anni che hanno l’Ldl al di sopra di 190 mg/dl (data l'età, si tratta in genere di soggetti in cui l’aumento di questa sostanza ha cause genetiche), i soggetti diabetici e tutti coloro che hanno una probabilità di andare incontro a problemi cardiovascolari perché hanno altri fattori di rischio: il fumo, la pressione arteriosa elevata o una ridotta presenza di Hdl.
In tutti gli altri casi che non rientrano in queste categorie, il suggerimento è quello di ricorrere ad altri sistemi per ridurre il colesterolo, come la dieta o l’attività fisica.
Le nuove linee guida americane hanno quindi il pregio di rimettere in prima linea la clinica (cioè il paziente) e, in seconda, il laboratorio (e cioè il livello del colesterolo nel sangue). E potranno anche avere delle ripercussioni in Europa, dove, però, la situazione è un po’ diversa. Per esempio, secondo le linee guida europee i pazienti che hanno avuto incidenti cardiovascolari vengono messi in terapia quando hanno valori di colesterolo più alti rispetto a quelli previsti dagli americani: noi, cioè, siamo un po’ meno aggressivi sulla terapia.
«Anche le nostre regole guardano ai valori di laboratorio - commenta Cesare Sirtori, direttore del Centro Dislipidemie dell’Azienda Ospedaliera Niguarda Ca’ Granda di Milano - ma noi siamo da sempre più attenti ai pazienti».
Insomma, lo «spettro colesterolo» assume nuove connotazioni e viene reinterpretato dalla clinica. Forse si è anche esagerato nel propagandarlo come il «nemico numero uno per la nostra salute cardiovascolare».
E si ha anche la sensazione che l’atteggiamento aggressivo del passato nei confronti di questa condizione clinica (terapia a tutti i costi per ridurre i «valori bersaglio» dei test di laboratorio) sia stata dettata più da interessi commerciali di chi voleva vendere farmaci che da serene valutazioni cliniche. Ora che molte medicine hanno perduto il brevetto, si ritorna a scelte più ragionate. «Noi cerchiamo anche di prendere in considerazione elementi - aggiunge Sirtori - che gli americani hanno trascurato. Per esempio: anche i trigliceridi hanno la loro importanza. E ci sono anche altri farmaci che possono essere utili per ridurre colesterolo e trigliceridi che gli americani hanno ignorato nelle loro linee guida».
Fonte corriere.it
Gli italiani non sono buoni utilizzatori di antibiotici, spesso usati senza reale necessità, per curare patologie per le quali non sarebbero necessari. È emerso dal rapporto dell’Osservatorio sull’impiego dei Medicinali (OsMed) dell’Aifa, l’Agenzia italiana del Farmaco, secondo cui l’impiego inappropriato degli antibiotici «supera il 20% in tutte le condizioni cliniche», nonostante, contemporaneamente, sia diminuito il dato sul consumo generale per questa categoria di farmaci.
L’impiego inappropriato di antibiotici, afferma l’OsMed, coinvolge particolarmente la cura della laringotracheite (48,6%) e della cistite non complicata (37%). Per quanto riguarda la distribuzione geografica, le Regioni del Centro mostrano i livelli più alti di trattamento inappropriato dell’influenza e del raffreddore comune. Particolarmente inappropriato risulta l’uso di antibiotici tra gli anziani: il 56% dei pazienti tra i 66 e i 75 anni è stato trattato per l’influenza con antibiotici rispetto al 24% dei pazienti d’età inferiore ai 45 anni.
Quanto ai consumi, per gli antibiotici si registra però un calo una diminuzione del 6,1% rispetto al 2011. E nel 2012 si è ridotta anche la spesa: -16,3% rispetto al 2011.
I maggiori consumi si rilevano in Campania, seguita da Puglia e Calabria, mentre i più bassi sono in provincia di Bolzano, in Liguria e in Friuli-Venezia Giulia.