Il “winter blues”? Tutta colpa di una regolazione alterata della serotonina, l’ormone delle “coccole”. Uno studio dei ricercatori dell’Università di Copenhagen ha scoperto che un difetto nella proteina deputata al trasporto della serotonina (Sert) è alla base del winter blues, o depressione stagionale nota anche come “seasonal affective disorder” (Sad). Lo studio, presentato al Congresso dell’European College of Neuropsychopharmacology (Ecnp) appena tenutosi a Berlino, contribuisce a chiarire un fenomeno che inizia a manifestarsi in autunno, quando i livelli di luce diurna si riducono. Chi vive nei paesi del Nord Europa, infatti, ha una probabilità maggiore di soffrire di depressione stagionale, tanto è vero che una persona su sei la sviluppa. I ricercatori danesi hanno studiato, mediante una metodica sofisticata, cioè la tomografia a emissione di positroni (Pet), 11 persone con depressione stagionale e 23 soggetti sani di controllo. La Pet ha permesso di individuare le differenze nei livelli della proteina Sert (trasportatrice di serotonina) in estate e in inverno. In particolare, le vittime di depressione invernale avevano livelli più alti di Sert nei mesi freddi, cosa che porta a una maggior rimozione dal circolo sanguigno di serotonina in inverno. Poiché la serotonina rappresenta una componente importante per il buonumore, meno ormone c’è in circolo, maggiore è la probabilità di sviluppare una sindrome depressiva.
“Abbiamo riscontrato che in media, i pazienti con disordine stagionale dell’umore hanno il livelli di Sert più alti del 5% in inverno rispetto all’estate, mentre nei soggetti sani non ci sono differenze significative”, spiega Brenda MacMahon, responsabile della ricerca. “Crediamo quindi di avere scoperto l’interruttore che il cervello utilizza per regolare i livelli di serotonina nelle diverse stagioni”.
La terapia della depressione stagionale si basa su farmaci che agiscono aumentando i livelli di serotonina e che sono disponibili oggi come equivalenti, quindi efficaci e accessibili.
I portafogli italiani sempre più leggeri anche per l’acquisto dei farmaci.
La spesa a carico dei cittadini italiani per i medicinali di classe A, quelli cioè eleggibili a rimborso dal sistema sanitario, è aumentata dal 2003 al 2013 del 69,4%. Lo denuncia il 10° Rapporto Sanità dell'Università Tor Vergata di Roma, elaborato dai ricercatori del Consorzio per la ricerca economica applicata in sanità (Crea), appena presentato nell'Aula dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati.
I dati rilevati dagli esperti dell’università di Tor Vergata dimostrano che la compartecipazione alla spesa per i farmaci incidono molto più nel meridione che nel settentrione (7,7% sulla spesa farmaceutica della Regione Sicilia, contro il 2,2% della P.A. di Bolzano). Una dimostrazione, quindi, di iniquità in Sanità con differenze regionali nella spesa out of pocket notevoli, superiori anche al 40%. "In campo farmaceutico - spiegano gli esperti del Consorzio - le spese dirette 'sgravano', ormai in misura rilevante, il sistema pubblico da oneri, aiutando di fatto a mantenerne la sostenibilità".
E il ministro Beatrice Lorenzin, in una nota inviata alla presentazione del Rapporto dice che “è necessario aumentare le capacità del sistema sanitario di convertire le risorse in valore, tenendo presente che l'investimento in salute è il presupposto per la crescita e lo sviluppo di un paese”.
“La pubblicazione, da parte dell’AIFA, del documento di consenso della Commissione Europea dedicato ai farmaci biologici e biosimilari è un contributo importante a chiarire ulteriormente il ruolo fondamentale di questi farmaci non tanto e non solo nella ricerca del contenimento dei costi, ma quanto per perseguire la miglior e più equa assistenza possibile” dice il vicepresidente di AssoGenerici Francesco Colantuoni. “Eppure ancora oggi c’è chi chiede ulteriori studi sui biosimilari dopo la loro approvazione da parte dell’agenzia europea dei prodotti medicinali (EMA), dimostrando così di non riuscire a cogliere la differenza tra il percorso regolatorio e produttivo di un farmaco biotecnologico e quello di un farmaco di sintesi.
Quando un biosimilare ottiene l’autorizzazione all'immissione in commercio da parte di EMA è perché ha dimostrato - nel paziente e nel confronto con il farmaco originatore - efficacia, sicurezza e qualità”.
Caratteristiche che sono riportate come d’obbligo nella scheda tecnica e nel foglietto illustrativo del medicinale, per il quale quindi non ha senso richiedere etichettature speciali o ulteriori sistemi di tracciabilità, come se non bastassero quelli già esistenti che hanno ulteriormente migliorato la farmacovigilanza. Mentre ancora si avanzano richieste immotivate di questo tenore, si stima uno sfondamento della spesa farmaceutica ospedaliera di 1,5 miliardi e si assiste a un andamento irrazionale della diffusione dei biosimilari, con un impiego che varia dal 5% al 60% a seconda delle Regioni. “Si paventa la riduzione di servizi e l’inasprimento dei ticket quando un adeguato impiego dei farmaci biosimilari potrebbe contribuire alla sostenibilità del SSN, come avviene in altri Paesi moderni e tecnologicamente avanzati. E’ imprescindibile” conclude Colantuoni “che dal Ministero della Salute e dall’AIFA vengano indicazioni univoche sul ruolo del biosimilare, le stesse delineate nel documento di consenso europeo che si richiama esplicitamente, fin dal titolo, all’equità nell’accesso ai medicinali.Ci auguriamo che il Ministero della Salute possa e voglia presenziare alla presentazione della ricerca condotta da GFK sul biosimilare commissionata dal Gruppo Europeo Biosimilari, parte della nostra associazione europea (EGA), che si svolgerà a Roma il prossimo 4 novembre: siamo certi che in quell’occasione potremo presentare elementi senz’altro utili a una completa ricognizione del tema”.
La menopausa preoccupa ancora il gentil sesso. Un recente sondaggio dell’Osservatorio nazionale della salute della donna (Onda) condotto su 600 donne di età compresa tra 45 e 65 anni, presentato in occasione della Giornata mondiale della menopausa, mostra alcune incertezze, paure e talvolta reticenze che aleggiano ancora intorno a questo periodo della vita.
Gli effetti più temuti sono l'osteoporosi (60%), le vampate (58%) e l'aumento di peso (50%), mentre tra i problemi più frequenti vi sono le difficoltà nella vita intima, legate prevalentemente al calo del desiderio (38%) e a problematiche vaginali quali secchezza o irritazioni (28%).
Le più preoccupate sono le donne che stanno entrando in questa nuova fase della vita: una su due vorrebbe essere più seguita e più informata. Va detto che buona parte del campione intervistato ha riconosciuto come utili alcuni comportamenti, tra cui una corretta alimentazione (46%), controlli regolari (46%), una regolare attività fisica (41%), assumere integratori specifici (35%). Di fatto, però, solo una parte di questi accorgimenti viene messa in pratica e solo il 25% delle donne (vale a dire una su quattro) afferma di non fare/avere fatto nulla di tutto ciò, per prepararsi ad affrontare meglio la menopausa. Un dato è particolarmente significativo. “Il 75% delle donne (tre su quattro) dichiara di avere avuto problemi della sfera sessuale, ma ben il 30% di loro non ne ha parlato con nessuno e altrettante, a causa di tali difficoltà, sono state costrette a rinunciare o limitare molto la vita sessuale”, dice Francesca Merzagora, Presidente di Onda. Il fai da te, comunque, non è consigliato. "Il ginecologo è la figura più indicata a discutere i temi della sessualità, che spesso vengono taciuti per imbarazzo o per rassegnazione – afferma Rossella Nappi dell’Ircss San Matteo di Pavia. - E', infatti, più facile parlare delle vampate di calore, dell'aumento di peso o del rischio di osteoporosi. Arrivare preparate alla menopausa sembra fondamentale, per avere un atteggiamento attivo". Nel caso sarà questo specialista a prescrivere terapie, come ad esempio quelle ormonali, disponibili come farmaci equivalenti, quindi di sicura efficacia e convenienza.
“L’operazione zero ticket sui farmaci fuori brevetto allineati al prezzo di riferimento attuata dalla Regione Lombardia ha messo in evidenza come le resistenze all’uso dei farmaci equivalenti pesino economicamente sui cittadini e non poco: a livello nazionale circa 850 milioni l’anno stando agli ultimi rilevamenti”.
Lo spiega il presidente di AssoGenerici, Enrique Häusermann. “Oggi in Lombardia i cittadini appartenenti alle fasce esenti hanno la possibilità di ottenere i farmaci prescritti senza versare alcun contributo se si tratta di equivalenti e questo a nostro avviso è fondamentale per incentivare i comportamenti virtuosi e allineare le dinamiche dell’assistenza farmaceutica italiana a quelle prevalenti in Europa”.
Così AssoGenerici commenta l’intervista rilasciata dal Consigliere regionale Stefano Carugo a Il Giornale, nella quale rispondeva alle critiche rivolte alla Giunta lombarda, accusata di non aver ridotto la spesa a carico del cittadino. “Il consigliere Carugo ha toccato anche un altro punto fondamentale, e cioè la scarsa informazione fornita ai cittadini sul fatto – fondamentale – che gli equivalenti costituiscono una grande occasione di risparmio anche quando il paziente acquista farmaci di fascia C, cioè non rimborsati dal Servizio sanitario, si tratti di medicinali da banco o di farmaci soggetti a prescrizione sulla cosiddetta ricetta bianca.
Questo, se vogliamo, è un fatto ancora più grave sul quale sta diventando sempre più urgente intervenire
La pubblicazione dei dati di ripiano della spesa farmaceutica ospedaliera 2013 ripropone tutta l’irrazionalità del meccanismo del payback applicato ai produttori di farmaci equivalenti.
“Un meccanismo, introdotto dalla Legge 135/2012 che penalizza in modo insopportabile il comparto dei farmaci a brevetto scaduto” dice Francesco Colantuoni, vicepresidente di AssoGenerici. “I generici vengono acquistati esclusivamente attraverso il meccanismo delle gare che, come spesso si dimentica, si basano sul criterio del minor prezzo, stabilito non da chi vende, ma da chi compra. Nel momento in cui i produttori di questi farmaci si aggiudicano una gara hanno quindi già fatto risparmiare il Servizio Sanitario Nazionale. Se la spesa complessiva supera il tetto, come nel 2013, anche il comparto fuori brevetto è chiamato alla restituzione attraverso il pay back nonostante gli acquisti di equivalenti abbiano contribuito in maniera determinate al contenimento di questa parte della spesa rispetto al 2012. Ma non basta: ci troviamo ogni anno a restituire somme che ancora non abbiamo incassato, visti i cronici ritardi nei pagamenti”. In alcune regioni, a nove mesi dalla chiusura del 2013 le forniture non sono state saldate. “Se si aggiunge che la Legge stabilisce che non è possibile interrompere le forniture alle strutture ospedaliere in vigenza di contratto anche a fronte della più ostinata morosità, c’è da domandarsi se la vendita di generici in ospedale in Italia sia un modello di attività proponibile” prosegue Colantuoni.
Per le aziende di AssoGenerici resta fondamentale che i farmaci fuori brevetto vengano esclusi dal meccanismo del payback sulla spesa ospedaliera, e intendono mettere in atto tutte le possibili azioni per contrastare una norma che nel tempo potrebbe portare, come di fatto in alcuni casi già accade, alla scomparsa della concorrenza con il ritorno del monopolio. Un intervento del legislatore nel caso specifico sarebbe quanto mai auspicabile.
La quota di farmaci generici di fascia C a carico del cittadino è mediamente molto più bassa di quella dei generici in fascia A, a carico dello Stato.
«Insomma - conferma sulle pagine del quotidiano Libero Gualtiero Pasquarelli, AD di DOC Generici - a 13 anni dall'entrata in commercio in Italia, è una situazione paradossale; eppure sui prodotti a carico del consumatore, secondo logica, la quota dovrebbe essere maggiore che non su quelli a carico del Servizio Sanitario, visto che sui primi il risparmio è diretto per le tasche del cittadino. E anche l'introduzione della prescrizione per principio attivo non ha di fatto avuto alcun impatto né modificato questo trend». I cittadini in pratica continuano a pagare di tasca propria una cifra più alta, senza motivo. «O meglio - precisa Pasquarelli - il motivo c'è ed è molto chiaro: perché il pubblico non ne è informato, non sa che può risparmiare e quanto, a causa di una legge sulla pubblicità, nata ben prima del generico, che nei fatti impedisce il diritto del cittadino all'informazione».
Emblematico al proposito il caso del sildenafil generico - prodotto per la disfunzione erettile –che ha avuto, una volta immesso sul mercato, un tale battage informativo da parte della stampa tale per cui i cittadini hanno saputo da subito che si trattava di un risparmio importante per un prodotto equivalente. «Questa situazione ha avuto due importanti ricadute: abbattimento degli acquisti per vie 'illegali' tipo internet e passaggio al generico di quasi il 60 percento del consumo in pochissimo tempo», sottolinea Pasquarelli. Il sildenafil ha avuto un trattamento informativo di cui non godono gli altri prodotti di fascia C, nonostante quasi il 90 per cento abbia un equivalente generico a costo minore.
«Non si spiega altrimenti, è solo una mancanza d'informazione - insiste l'AD di DOC Generici - perché la legge impedisce di informare il cittadino dell'esistenza di un farmaco equivalente e a prezzo minore per i prodotti soggetti a prescrizione medica. La qual cosa può essere comprensibile per i prodotti di fascia A, visto che medico e farmacista svolgono un ruolo attivo nell'informazione, ma non di certo per quelli a carico del cittadino sui quali l'informazione è carente a tutti i livelli. Insomma, equiparare l'informativa sul differenziale di prezzo ad una pubblicità equivale ad impedire al cittadino di sapere che può spendere meno per un prodotto al 100 per cento identico, ledendo un diritto essenziale soprattutto nel momento in cui paga di tasca propria».
Far conoscere al consumatore il differenziale di prezzo tra due prodotti equivalenti non dovrebbe essere considerato 'pubblicità' ma 'informazione' a tutti gli effetti
“I tre farmaci biosimilari disponibili già oggi potrebbero fare risparmiare ben oltre il 25% rispetto alla spesa attuale” dice Francesco Colantuoni, vicepresidente di AssoGenerici, a margine di un convegno romano dedicato ai farmaci biotecnologici a brevetto scaduto. “Invece la situazione italiana continua a mostrare elementi illogici. Certamente se paragoniamo il dato complessivo del nostro Paese rispetto a quello dei sistemi sanitari europei possiamo concludere che stiamo riallineandoci al dato generale: in Italia i biosimilari rappresentano circa il 30% del mercato di riferimento, contro il quasi 50% della Germania e il 40% circa di Francia, Spagna e Gran Bretagna. Tuttavia non si può non sottolineare come preoccupante la constatazione di una grande variabilità regionale e, addirittura, tra una ASL e l’altra nell’impiego dei biosimilari” prosegue Colantuoni. Le alternative ai farmaci biotecnologici originatori non sono copie a basso prezzo, ma farmaci frutto della ricerca e dell’innovazione con le stesse caratteristiche terapeutiche. Eppure stentano ancora ad affermarsi da noi.
“E’ un dato che non trova alcuna giustificazione sul piano clinico e scientifico: ormai da quasi un decennio sono disponibili le prove che il farmaco biosimilare è efficace e sicuro, perché lo dimostrano gli studi clinici necessari alla registrazione così come la sorveglianza post-marketing, che monitora l’uso quotidiano in corsia”, sottolinea Colantuoni.
Le Regioni devono essere sostenute nel raccogliere e mettere a disposizione dei clinici e del decisore sanitario tutte queste evidenze. “Spesso si sente dire che alla base della diffidenza nei confronti del biosimilare ci sia un principio di cautela nei confronti del paziente, ma si trascura di dire che questa diffidenza non c’è nel momento in cui il clinico decide di passare da un farmaco biotecnologico a quello “innovativo” appena registrato. Ma questi nuovi farmaci sono supportati dalle stesse prove di efficacia e sicurezza che può esibire anche il biosimilare, che è anch’esso un farmaco “nuovo”. Bisogna creare le condizioni perché il medico possa acquisire confidenza con l'uso del biosimilare, considerando anche la necessità di poter continuare a offrire le migliori cure possibili senza mettere a rischio i bilanci e, anzi, allargando l’impiego a una più vasta platea di pazienti”.
La diagnosi di depressione attraverso un semplice esame del sangue. Proprio come si fa per misurare il livello di colesterolo o di zucchero nel sangue, un gruppo di ricercatori statunitensi della Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago ha scoperto come individuare la presenza di depressione dosando nel sangue alcuni marcatori della malattia. Gli studiosi spiegano sulle pagine della rivista Translational Psychiatry che il test si basa sulla misurazione di nove specifici marker e che mediante il comportamento di tre di queste “spie” di malattia è anche possibile predire quanto risulti efficace la terapia cognitivo-comportamentale, permettendo così di personalizzare i trattamenti.
La diagnosi di depressione si basa sulla sintomatologia come cattivo umore, stanchezza cronica e alterazioni dell'appetito, riferita dal paziente e sull’uso di interviste psicologiche strutturate. Una diagnosi quindi che è sostanzialmente fondata sulla capacità dei medici di interpretare quello che il paziente riferisce loro. «Non esisteva fino a oggi un metodo di laboratorio, che fosse sensibile e affidabile», dicono i ricercatori che ricordano come la depressione sia spesso sottodiagnosticata. «Si osserva un ritardo che va da due a quaranta mesi nella diagnosi del disturbo psichiatrico e più tardi si individua questa malattia più difficile è il trattamento». La depressione è molto frequente tra gli assistiti dei medici di famiglia tanto che si stima che il 12,5% di tutti i pazienti abbiano sviluppato un episodio depressivo maggiore in un momento o l’altro della loro vita, ma solo il 47% ha ricevuto una diagnosi e un trattamento.
La dottoressa Eva Redei, coautrice dello studio, spiega che i risultati ottenuti indicano «chiaramente che è possibile avere un test del sangue in grado di rilevare la depressione fornendo una diagnosi scientifica al pari di quanto si fa con l’ipercolesterolemia. Questo test offre per la prima volta un approccio di medicina personalizzata per le persone che soffrono di depressione». Considerate le ricadute della depressione sulla qualità della vita del malato e della sua famiglia, si comprende l’importanza di una diagnosi tempestiva per mettere in atto trattamenti adeguati, che possono giovarsi oggi anche di farmaci equivalenti, con i quali ottenere il duplice obiettivo dell’efficacia terapeutica e del risparmio economico.
Aumentano i consumi dei farmaci a brevetto scaduto, sia dei cosiddetti originator o di marca, sia degli equivalenti (che contengono gli stessi principi attivi), ma per questi ultimi siamo ancora lontani dalla diffusione osservata in altri Paesi europei.
«I prezzi degli originator a brevetto scaduto sono ormai bassi, qualche volta superiori solo di pochi centesimi rispetto agli equivalenti - spiega Federico Spandonaro, professore aggregato di economia dell'Università di Tor Vergata a Roma -. In termini di risparmio per il Servizio sanitario, tuttavia, non cambia nulla, perché la differenza è totalmente a carico del cittadino». Una differenza non trascurabile: solo nel 2013, gli italiani hanno speso 861 milioni di euro per pagare la differenza tra un ex griffato a brevetto scaduto e un generico "puro", come evidenziano i dati di Assogenerici, l'associazione che raggruppa i produttori di #farmaci #equivalenti e #biosimilari (simili ai biotecnologici in commercio di cui è scaduto il brevetto).
Molte Regioni hanno scelto di incentivare l'uso degli originator a brevetto scaduto e degli equivalenti per contenere la spesa di farmaci di fascia A. «Se tutte raggiungessero i risultati delle Regioni più virtuose – dice il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann - i risparmi sarebbero di 767 milioni di euro l'anno per 18 categorie terapeutiche, come segnala il documento dell'Aifa "Indicatori di programmazione e controllo dell'assistenza farmaceutica convenzionata"».
Per quanto riguarda i biosimilari, in analogia a quanto avviene per gli equivalenti, il loro impiego è limitato rispetto ad altri Paesi europei, ma sta crescendo. Il Rapporto dell’Osservatorio sul consumo dei medicinali (OsMed) relativo all’anno 2013, mostra che, per i soli biosimilari a base di epoetina, il miglioramento degli indicatori di appropriatezza ha fatto risparmiare al Servizio sanitario circa 8 milioni di euro.
Nel 2015 scadranno i brevetti di altri medicinali di ampio utilizzo per diverse malattie e quindi è prevedibile un ulteriore risparmio per il Sistema sanitario nazionale. Tutto bene quindi? Non proprio. Sulle modalità di prescrizione dei biosimilari, infatti, secondo il recente rapporto sul "Federalismo in sanità" di Cittadinanzattiva, si registrano importanti difformità di interventi e interpretazioni da Regione a Regione. A scapito prima di tutto dei cittadini.
“A distanza di alcuni anni dalla sua introduzione e dopo notevoli sforzi per spiegarne qualità e valore, il farmaco equivalente soffre ancora in Italia di una carenza di conoscenza e di fiducia che ne limitano l’utilizzo rispetto alla media europea. A questo contribuiscono alcune barriere lessicali e di comunicazione fra pazienti e operatori del settore salute.” sostiene Marco Grespigna, direttore Business Unit Off Patent di Zentiva Italia. “Il termine «generico», ad esempio resta il più utilizzato per indicare gli equivalenti, nonostante presenti una connotazione che può evocare, nell’immaginario del paziente, una seconda scelta, utile esclusivamente a risparmiare. Zentiva promuove da quest’anno il progetto “Zentiva Più”, una serie di iniziative, di cui l’indagine è un esempio, con il duplice obiettivo di promuovere la conoscenza del farmaco equivalente e i principali ostacoli che ne limitano l’utilizzo, e di supportare la relazione diretta tra le farmacie del territorio e i cittadini.”
Zentiva, la divisione farmaci equivalenti di Sanofi, ha condotto una ricerca, conclusa nei primi mesi del 2014, in collaborazione con Sege-Attoma Group, allo scopo di comprendere i comportamenti, il linguaggio e gli stili di consumo dei farmaci che non hanno o hanno perso il brevetto, i cosiddetti off-patent: brand, equivalenti e uguali. L’indagine, caratterizzata da un approccio qualitativo, ha preso in esame oltre 300 interazioni tra farmacisti e pazienti in 7 farmacie di Milano e provincia. Completano la ricerca 15 video interviste a farmacisti e i risultati di 8 focus group realizzati con i pazienti delle farmacie coinvolte. Nell’ambito dell’indagine promossa da Zentiva, è stato osservato che, nelle interazioni in cui il farmacista propone il cosiddetto “switch”, cioè il passaggio da farmaco brand ad equivalente, tre volte su cinque il paziente lo accetta. In questa scelta, svolgono un ruolo di rilievo la comunicazione con il farmacista e il lessico utilizzato. Infatti, se il farmacista è maggiormente propositivo e utilizza determinati termini, la percentuale di pazienti che accetta il passaggio all’equivalente con consapevolezza e fiducia aumenta sensibilmente.
L’ingresso dei generici nel mercato ha modificato non solo lo spazio della farmacia, le attività di gestione e quelle legate alla dispensazione, ma soprattutto la durata dell’interazione al banco, con la richiesta di maggiori informazioni e supporto da parte del paziente. Se la farmacia in sè continua ad essere considerata come uno spazio sicuro, al cui interno si trovano prodotti di qualità e soluzioni efficaci, cresce il ruolo del farmacista quale educatore e facilitatore. Nel percepito, infatti, il farmacista emerge come una figura di riferimento “più accessibile” del medico per richieste di cure e informazioni.
Addio alla ricetta rossa per la prescrizione dei farmaci.
La “rivoluzione” parte dal Nord-Est: in Veneto, è ufficialmente entrata infatti in vigore la ricetta “dematerializzata”. Le circa 40 milioni di prescrizioni di farmaci annualmente emesse non saranno più scritte sul ricettario rosso. Poco cambia per l'utente, che arriverà in farmacia con il 'promemoria', un foglio bianco con il medicinale prescritto, ma questa nuova modalità assicurerà risparmi per circa 3.500.000 euro.
Il medico di medicina generale, in pratica, inserirà i dati del farmaco, equivalente o di marca, nel sistema informatizzato, dove verranno verificati dal farmacista. “La sperimentazione era già partita in Veneto – spiega Claudio Saccavini, direttore tecnico del consorzio per la digitalizazione del sistema sanitario regionale - e così da maggio i medici inserivano nel sistema le ricette elettroniche, ma quella rossa era mantenuta, per sicurezza. Da oggi questa ricetta è sostituita dal promemoria. Quando il processo di informatizzazione della sanità sarà completato, sparirà anche questo, sostituito dal Fascicolo sanitario elettronico del paziente". Anche in Friuli si è partiti ufficialmente con la ricetta dematerializzata ma, in questo caso, i cittadini non hanno avvertito cambiamenti. "Dal primo settembre i 250 medici individuati dal progetto avevano l'obbligo di passare alla dematerializzata, ma i tempi sono stati anticipati già nei mesi scorsi. E gli altri hanno tempo fino a ottobre per adeguarsi", spiega Francesco Innocente presidente di Federfarma Pordenone. In generale ritardo sulla tabella di marcia, le Regioni si muovono in ordine sparso.
"Quasi tutte ormai stanno sperimentando questa modalità, anche se con risultati diversi- spiega Daniele D'Angelo, direttore di Promofarma, la società di Federfama che si occupa di sanità digitale. "Va meglio in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana. Nelle Marche in agosto ci sono stati rallentamenti, problemi anche in Molise, Campania e Puglia. Liguria e Sardegna sono partite da poco, in Abruzzo dove in agosto ci sono stati incontri informativi per i farmacisti. Ferme Lazio, Calabria e Bolzano. A regime Sicilia, Val D'Aosta, Basilicata e Trento".
La Società Italiana di Farmacologia (SIF) e AssoGenerici hanno siglato un importante accordo per promuovere la ricerca italiana sul farmaco mirata al “mondo reale”: farmacologia clinica, farmacovigilanza, farmacoepidemiologia e farmacogenetica. Per l’anno 2014, infatti, sono stati istituiti quattro premi del valore di 5.000 euro per lavori pubblicati nel 2013 e nei primi sei mesi di quest’anno, riservati ai Soci SIF da almeno tre anni, non strutturati, di età massima 38 anni, ricercatori dell’Accademia e di altri Enti di Ricerca.
“Siamo grati alla SIF e al suo presidente professor Francesco Rossi, per averci dato l’opportunità di contribuire all’opera della comunità scientifica italiana e, in particolare, a quella dei più giovani, che sono una preziosa risorsa del nostro paese. Il mondo del farmaco equivalente vive della ricerca per molti aspetti fondamentali” dice il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann. “Il primo è che solo i farmaci frutto della grande ricerca, che hanno dimostrato sicurezza ed efficacia ai massimi livelli, divengono equivalenti. Non meno importante è che il vasto impiego che conoscono i nostri medicinali richiede una grande attenzione a tutti gli aspetti di farmacovigilanza. Infine, gli ultimi vent’anni hanno dimostrato ampiamente che farmaci di uso consolidato possono rivelare nuove indicazioni di grande importanza e rientra nella nostra mission sostenere queste ricerche”.
“A nome di tutta la Società, ringrazio AssoGenerici per voler contribuire insieme a tanti altri a sviluppare ulteriormente la ricerca dei nostri giovani soci” dichiara il presidente della SIF, Professor Francesco Rossi. “La SIF negli ultimi anni sta stabilendo collaborazioni con varie società scientifiche e ultimamente anche con AssoGenerici, che incontreremo anche in un convegno scientifico nel prossimo autunno. I giovani della SIF che vogliono partecipare a questo bando troveranno tutte le indicazioni sul nostro sito."
I farmaci contro l’insonnia a base di zolpidem, di marca o equivalenti che siano, potrebbero dare sonnolenza anche il giorno dopo la loro assunzione. Lo ha dichiarato l’Ema, European Medicines Agency.
Il rapporto beneficio-rischio di questi farmaci rimane positivo, tuttavia l’EMA ha raccomandato di modificare le informazioni sul prodotto relative agli effetti di ridotta capacità di guida e prontezza mentale al mattino dopo il risveglio.
La revisione delle informazioni sullo zolpidem è stata avviata dopo le notizie di alcuni incidenti stradali avvenuti al mattino dopo che i pazienti avevano assunto il farmaco. Il foglietto illustrativo del farmaco fornisce già queste informazioni ma si è ritenuto di riportare ulteriori informazioni sui vantaggi e i rischi dello zolpidem. Per ridurre al minimo i rischi, l’Agenzia Europea raccomanda di prendere “la più piccola dose efficace possibile, ovvero una singola dose prima di andare a letto. Il paziente non deve quindi ricorrere ad un’ulteriore dose di notte, anche se è sveglio. Inoltre, i pazienti anziani o che presentino una ridotta funzionalità epatica perché affetti da problemi al fegato, devono ridurre l’assunzione a 5 mg invece che 10“.
L’Ema raccomanda di non guidare o svolgere attività che richiedono attenzione fino a otto ore dopo l’assunzione. Lo zolpidem non deve essere assunto con altri farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale). Allo stesso modo non deve essere assunto insieme ad alcolici.
La terapia contro il virus dell’Aids potrebbe essere efficace anche contro la sclerosi multipla.
Alcuni ricercatori inglesi e australiani delle università di Oxford, Londra e Sidney hanno scoperto che le persone infettate dall’Hiv e curate per questa infezione hanno un rischio molto più basso di sviluppare la sclerosi multipla, anche se non è ancora chiaro se ciò dipenda dal virus o dai farmaci antiretrovirali. E' quando sostiene lo studio pubblicato sul Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry. Lo studio che ha rilevato i potenziali e inaspettati benefici dei farmaci antiretrovirali, ha preso le mosse dalla scoperta di un paziente sieropositivo e con la malattia neurologica, il quale non ha avuto alcun sintomo della sclerosi per oltre 12 anni. Un'analisi dei pazienti sieropositivi inglesi tra il 1999 e 2011 ha riscontrato un'associazione negativa tra infezione da Hiv e sclerosi multipla. In particolare i ricercatori hanno passato in rassegna i dati relativi a oltre 21mila persone sieropositive per l’Hiv, confrontandoli con un gruppo di oltre 5 milioni di non sieropositivi. Si è così osservato che quelli infetti avevano il 62% in meno di probabilità di ammalarsi di sclerosi multipla rispetto alle persone che non avevano il virus.
''Se futuri studi dimostreranno un effetto protettivo causale tra l'Hiv e i suoi farmaci - si legge nello studio - questo potrebbe essere il maggior fattore protettivo mai osservato per la sclerosi multipla''. Secondo gli studiosi, andrebbe ricercato nell'indebolimento del sistema immunitario nei sieropositivi il motivo per cui viene prevenuto lo sviluppo della sclerosi, mentre gli antiretrovirali potrebbero agire sopprimendo altri agenti patogeni virali forse implicati nella malattia. Una notizia comunque rassicurante che rilancia il ruolo cruciale della terapia antiretrovirale oggi offerta ai pazienti anche con farmaci equivalenti.
I colossi dell’informatica scendono in campo contro il morbo di Parkinson. Intel ha annunciato una partnership con la fondazione dell'attore Michael J. Fox per la ricerca su questa malattia degenerativa del sistema nervoso. L'obiettivo è quello di usare l'hardware e il software del gigante statunitense dei microchip per monitorare l'evoluzione della malattia. Sono in studio una nuova app per cellulari e dispositivi hi-tech indossabili e una piattaforma di analisi dei dati. Grazie agli smartwatch si potranno controllati parametri come il sonno e il tremore associato al morbo, analizzando i dati raccolti per ogni paziente.
Intel non è l'unico big della tecnologia che guarda con interesse al settore sanitario.
Stando ad alcune indiscrezioni, Apple starebbe lavorando con diversi operatori sanitari per portare negli ospedali l'HealthKit, il sistema di monitoraggio dei parametri biomedici che sarà integrato nel nuovo sistema operativo per iPhone e iPad, l'iOS 8, e che dialogherà con l'iWatch, lo smartwatch della Mela atteso nei negozi entro l'anno. I dati raccolti consentirebbero ai medici di tenere sotto controllo le condizioni dei pazienti tra una visita e l'altra in modo da aggiustare la terapia. Cura che si basa ancora su un vecchio ma fondamentale farmaco, la levo-dopa, scoperto nel 1969 da Oliver Sacks e oggi disponibile come equivalente, capace di unire efficacia ed economicità.
Tra qualche tempo potrebbero arrivare sugli scaffali di supermercati e negozi di alimentari le noccioline specifiche per i soggetti con allergia a questo genere di frutta secca.
Ricercatori della scuola di agricoltura del North Carolina hanno, infatti, creato le prime arachidi anti-allergiche mai esistite. Jianmei Yu e il suo team di scienziati all'università del North Carolina sono riusciti a rimuovere la maggior parte delle componenti responsabili della reazione allergica (le proteine Ara h1 e Ara h2), immergendo le noccioline in una soluzione enzimatica. "Le noccioline così trattate - ha spiegato la ricercatrice statunitense - possono venire utilizzate intere o a pezzetti, per fare la farina, o creare piatti contenenti arachidi, fino a oggi off-limits per i soggetti allergici".Test cutanei condotti dal team di ricerca hanno mostrato l’assenza di reazioni allergiche dopo il consumo delle noccioline così trattate.
Il prodotto dunque potrebbe venire usato in una quantità vastissima di alimenti, estremamente popolari specialmente negli Stati Uniti, dove il burro di arachidi fa parte della dieta quotidiana.
Si tratta di uno dei prodotti tecnologicamente più avanzati nel campo dell'industria alimentare, secondo gli esperti americani. Il processo di “pulizia” delle componenti allergiche non altera né il sapore, né i valori nutritivi e la composizione delle noccioline, che sono ricche di acidi grassi omega 6 preziosi per la salute. Resta il fatto che rimanga indispensabile per i soggetti con allergia tenere sempre pronto contro le reazioni allergiche un kit di primo intervento in cui devono essere presenti, tra gli altri, medicinali antistaminici e cortisonici, fortunatamente disponibili come farmaci equivalenti.
Una mutazione genetica riduce il livello di trigliceridi nel sangue e protegge dall’infarto miocardico.
La scoperta, pubblicata sul "New England Journal of Medicine", è frutto del lavoro di un Consorzio internazionale di ricerca coordinato dall'Università di Harvard di cui fa parte l'Università di Verona.
Secondo lo studio i soggetti portatori di queste varianti genetiche hanno un livello di trigliceridi nel sangue del 40% in meno dei non portatori e un corrispondente 40% di rischio in meno di sviluppare patologie cardiache. Questa caratteristica genetica si riscontra in una persona ogni 150.
Dallo studio si è capito che solo una specifica frazione dei trigliceridi è pericolosa, quella in cui è presente una proteina chiamata apolipoproteina C3 (Apo C3) che impedisce ai sistemi biochimici di smaltimento dei grassi di agire, lasciando così una elevata concentrazione nel sangue di questi lipidi.
I soggetti con la mutazione genetica hanno una minore presenza della Apo C3 e quindi riescono a eliminare più efficientemente i grassi dal sangue. Questa scoperta apre nuove possibilità terapeutiche perhé ha identificato un nuovo bersaglio per futuri farmaci diretti a bloccare la Apo C3.
Nel frattempo, però l’eccessiva presenza di trigliceridi nel sangue (o ipertrigliceridemia) si può combattere con una dieta a basso contenuto lipidico e farmaci che sono disponibili anche come equivalenti.
Italiani in fuga dal Servizio sanitario nazionale. Ticket sempre più cari e tempi di attesa troppo lunghi stanno spingendo sempre più persone - oltre 12 milioni - verso gli operatori della sanità privata. Secondo le stime che emergono da un'indagine conoscitiva sulla sostenibilità economica del Servizio sanitario nazionale (Ssn), condotta dalle commissioni Bilancio e Affari Sociali della Camera, la spesa privata ha sfondato il muro dei 30 miliardi l'anno. Per l'esattezza 30,3 miliardi tra farmaceutica, diagnostica e assistenza, che - come si legge nel documento - costituiscono "una percentuale rilevante della spesa sanitaria complessiva". Una spesa ingente che - osservano i deputati - "pur non collocandosi su un livello non dissimile da quella di altri Paesi europei, è nel nostro Paese quasi per intero 'out of pocket', cioè a carico del cittadino, mentre altrove è in buona parte intermediata da assicurazioni e fondi".
Se solo si ricorresse con maggior frequenza ai farmaci equivalenti si potrebbero risparmiare ogni anno decine di milioni di euro, che rimarrebbero, così, nelle tasche dei cittadini italiani.
Questa fotografia trova conferma nei dati elaborati dal Censis. Seconda un recente studio dell'istituto di ricerca sono infatti sempre di più gli italiani che pagano di tasca propria i servizi sanitari che il pubblico sembra non garantire sufficientemente: nel 2013 la spesa sanitaria privata è infatti aumentata del 3% rispetto al 2007. E nello stesso arco di tempo quella pubblica è rimasta quasi ferma (+0,6%). Aumentano gli italiani che pagano per intero gli esami del sangue (+74%) e gli accertamenti diagnostici (+19%). Ormai il 41,3% dei cittadini paga per intero le visite specialistiche. Cresce anche la spesa per i ticket, sfiorando i 3 miliardi di euro nel 2013: +10% in termini reali nel periodo 2011-2013. La fuga nel privato riguarda soprattutto l'odontoiatria (90%), le visite ginecologiche (57%) e le prestazioni di riabilitazione (36%). Ma il 69% delle persone che hanno effettuato prestazioni sanitarie private reputa alto il prezzo pagato e il 73% ritiene elevato il costo dell'intramoenia.
Non giovano solo al buon funzionamento dell’intestino, ma aiutano anche la salute del cuore. I probiotici, in base a uno studio pubblicato su Hypertension, una delle riviste ufficiali dell’American Heart Association, sembrano, infatti, essere in grado di ridurre la pressione alta del sangue. La ricerca ha messo in evidenza come i probiotici contenenti popolazioni di batteri multiple siano più efficaci contro l’ipertensione rispetto ai fermenti lattici composti da un solo ceppo batterico. Inoltre, gli effetti sulla pressione arteriosa risultano particolarmente evidenti nelle persone con valori è pari o superiori a 130/85.
I ricercatori hanno incrociato i risultati di nove studi analizzando i valori della pressione sanguigna e il consumo di probiotici in 543 adulti: hanno così rilevato che il consumo regolare di probiotici abbassa in media la pressione sanguigna massima (nota anche come sistolica) di 3,56 millimetri di mercurio (mmHg) e la pressione minima (la diastolica) di 2,38 mm Hg.
L’efficacia dei probiotici sulla pressione alta sembra essere legata alla durata dell’assunzione dei fermenti: non è stato infatti evidenziato alcun effetto sulla pressione del sangue con un consumo di probiotici inferiore a due mesi
«Altre ricerche hanno mostrato che i probiotici migliorano i livelli di colesterolo totale, riducono la presenza di glucosio nel sangue e intervengono nel regolare il sistema ormonale - spiega Jing Sun, della Griffith University, in Australia, uno degli autori dello studio – ma il nostro studio aggiunge un’altra “buona azione” dei fermenti lattici, quella di aiutare ad abbassare la pressione sanguigna».
Nonostante i risultati lascino ben sperare, Sun spiega però che è necessario condurre nuovi e più ampi studi su questo argomento «prima che i medici possano consigliare il consumo di probiotici per il controllo e la prevenzione dell’ipertensione».
La cura della pressione alta del sangue si basa su uno stile di vita corretto, con un’alimentazione sana e attività sportiva costante e, quando necessario, sull’uso di diverse classi di farmaci, oggi tutte fortunatamente disponibili come medicinali equivalenti, efficaci e di basso costo.