“E' importante definire percorsi diagnostici e terapeutici per l'approccio standardizzato al paziente”, spiegava all'inizio di questo mese il professor Corrado Giua Marassi, eletto all'unanimità alla presidenza della Società Italiana di Farmacia Clinica, in assemblea a Cagliari, con un proposito prioritario: “La stesura e la validazione delle prime linee guida per il farmacista di comunità”, allo scopo di definire “ in modo preventivo le situazioni in cui il farmacista è tenuto a inviare dal medico e quelle di sua pertinenza”. A tale scopo, è stata ultimata un'indagine che ha approfondito proprio il nodo decisivo delle prescrizioni dei farmaci equivalenti.
In particolare, si è cercato di sondare le ragioni del permanere di qualche diffidenza in parte degli addetti ai lavori in Italia. Ebbene, l'85% dei medici “scettici” spiega le proprie perplessità sostenendo che l'efficacia dei bio-equivalenti sia assicurata solo per alcune classi di farmaci, e il 36% dei farmacisti ritiene che la qualità sia differente a seconda delle ditte produttrici. La conseguenza ulteriore è che se il paziente esprime perplessità sui generici, l'operatore è pronto ad accondiscendere, anziché rassicurarlo o indagarne le motivazioni, sicché il 54% dei medici e l’82% dei farmacisti finisce col ritornare alla “marca”.
Insomma, nonostante le numerose campagne dell'Agenzia Italiana del Farmaco (garante della completa bio-equivalenza dei generici, a iniziare dai principi attivi), le mobilitazioni delle associazioni dei pazienti visto il loro minor costo (è ancora in corso tra l'altro il tour nazionale dell'iniziativa “IoEquivalgo” di Cittadinanzattiva) e gli appelli di tanti esperti schierati in prima linea per la loro tutela, l'Italia resta ancora lontana dagli altri paesi avanzati sull'uso dei medicinali equivalenti. “ Dopo più di un decennio di utilizzo stupisce che ci siano ancora perplessità da parte dei professionisti sanitari”, lamenta Paola Minghetti, Direttrice del Master in Clinical Pharmacy a Milano.
Di qui l'importanza delle “linee guida”, che saranno perfezionate entro l'anno. Possono rappresentare “un valido strumento di informazione per vincere le distorte concezioni in atto dei medici e farmacisti” , plaude anche Michele Uda, direttore generale di Assogenerici.
Unanime peraltro l'appello a un seguito concreto da parte dei decisori. “ Queste ricerche aiutano a capire il fenomeno, ma ora è auspicabile un intervento da parte di ordini, associazioni e istituzioni ”, incalza la stessa professoressa Minghetti. E sono ora proprio farmacisti a invocare una svolta, a beneficio dei pazienti e all’attacco dei costi a cui sono chiamati.
Le insinuazioni circolavano da tempo, anche a mezzo stampa. E lo scorso anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha annunciato un’indagine in proposito. Ebbene, la “messa in stato d’accusa” ha ora un esito che pare definitivo, ed è negativo. Il caffè non provoca tumori. Eliminati gli spauracchi, fatti salvi i suoi effetti benefici accertati da altre ricerche scientifiche, la bevanda più amata dagli italiani esce a testa altissima, fatte salve alcune precauzioni.
Era stata la stessa Oms un quarto di secolo fa ad accreditare l’ipotesi di possibili effetti cancerogeni, senza peraltro inserirlo nella sua “lista nera”. L’approfondimento è stato ora compiuto dalla sua International Agency for Research on Cancer (Iarc), tramite la rielaborazione degli esiti di circa 500 pubblicazioni scientifiche in materia, da parte di 23 esperti internazionali.
L’esito è netto, e la bevanda, prima classificata nella categoria “2b”, ossia come “possibilmente cancerogena” (con particolare riferimento al tumore alla vescica), ora sale al livello “3”, ossia nella casistica del tutto priva di prove di possibili rischi.
Di più, “l’assoluzione” suona come una promozione, avvalorando altre indicazioni pregresse circa i benefici del caffè per la salute. Alcuni studi, nel Regno Unito e in Italia ne avrebbero dimostrato le virtù proprio verso alcune patologie tumorali, rispettivamente all’utero e al fegato. Altri hanno scoperto benefici per la memoria e contro le malattie neurodegenerative, il diabete, perfino la disfunzione erettile.
Tutto bene, dunque? Sembra dunque di sì, eccetto due avvertenze. La prima è naturalmente quella di non esagerare nel consumo di caffè, con un limite solitamente stabilito dagli esperti sull’ordine delle 3-4 tazzine quotidiane. La seconda rileva dalle indicazioni della stessa Oms. L’assoluzione del caffè, come di altre bevande calde quali il “mate”, è “chimicamente” completa, ma bisogna fare attenzione alle alte temperature. Oltre i 65 gradi, si innescherebbero rischi cancerogeni, a iniziare dall’esofago. Questione non di ingredienti, dunque, ma solo di calore, che il corpo fatica a metabolizzare.
“Tutto questo vale anche per noi”, precisa subito il presidente della Federazione Italiana Medici Pediatri Giampiero Chiamenti. Non è che ci si debba incollare sempre a quel che “dicono gli americani”, ma sul tema del sonno le ultime “linee guida” dell’American Academy of Sleep Medicine paiono sacrosante. “Sono, in crescita i lavori che documentano l’importanza del sonno rispetto anche allo sviluppo mentale dei bambini”, ricorda Chiamenti, accogliendone le “indicazioni precise”, anche “per le nostre famiglie”.
Ebbene, tra un bimbo e l’altro le esigenze psico-fisiche di riposo divergono (rispetto al passato si riconosce dagli esperti un po’ più di “flessibilità” in relazione alle esigenze psico-fisiche del singolo), ma alcuni paletti vanno rispettati. Sono questi: fino al primo anno di vita bisogna dormire tra le 12 e le 16 ore al giorno, inclusi i sonnellini; al secondo da 11 e 14; da 3 a 5 anni il sonno può ridursi dalle 10 alle 13 ore; dai 6 anni, quando il riposino pomeridiano viene ritenuto non più necessario, si va dalle 9 alle 12 ore, fino all’adolescenza dei 12 anni; poi, fino alla maggior età, si scende dalle 8 alle 10.
Quando non si rispettano tali paletti il danno può essere multiplo. Naturalmente c’è il disagio psicologico e comportamentale, con connesse difficoltà di memoria e apprendimento. “L’apnea del sonno è associata a uno scarso rendimento scolastico, iperattività e sbalzi di umore”, spiega il professor Stuart F. Chan, curatore delle nuove direttive. Ma i danni possono andare oltre, coinvolgendo problemi fisiologici. “ Nei casi più gravi anche a disturbi cardiaci”, spiega Chan.
Non è un guaio da poco, né di pochi. Negli Stati Uniti soffre di insonnia un adolescente su quattro e un bambino su tre. “ Le cause sono molteplici, ma ruotano intorno a dinamiche familiari, questioni sociali e, nel caso dei ragazzi, agli orari di inizio della scuola”, aggiunge l’esperto di Boston.
Per affrontarle bisogna valutare le situazioni specifiche e i contesti di ciascuno, ma qualche indicazione di base andrebbe osservata da tutti. Mai permettere l’accesso di televisioni, telefoni cellulari, tablet o altri dispositivi elettronici in camera da letto, anche per l’emissione di luce che ritarda l’addormentamento. Non sovraccaricare i bambini di eccessive attività sociali ed extrascolastiche. Mantenere orari tendenzialmente regolari del sonno, anche durante i fine settimana e le vacanze. Magari non basta ma aiuta. Non necessariamente i genitori, ma i bimbi sì.
Donare sangue è uno dei gesti più belli, per la sua portata simbolica e per il suo concreto contributo sanitario. La ricorrenza dello scorso 14 giugno, la dodicesima edizione della “Giornata mondiale del donatore”, è servita a fare il punto, tra dati incoraggianti e non poche ombre, alcune delle quali chiamano in causa anche i paesi avanzati.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) rileva che il numero delle donazioni è globalmente salito alla considerevole cifra di 108 milioni all'anno. Al contempo in molte aree la domanda supera l'offerta, e questo coinvolge soprattutto le aree povere. “Quasi il 50% delle donazioni sono effettuate nei paesi ad alto reddito dove vive solo il 20% della popolazione”, nota l'Organizzazione, calcolando un tasso di donazione pro capite superiore di nove volte rispetto ai paesi meno abbienti.
In questi ultimi, quantomeno per avvicinare il proprio fabbisogno, dilaga poi la prassi della remunerazione delle donazioni, duramente contestata dagli esperti, per considerazioni etiche e non solo. Il rischio è anche sanitario. Quando si innesca la variabile monetaria si va a incentivare, magari involontariamente, la logica affaristica, abbassando così la guardia sui controlli. Il che è ancor più grave nei contesti sprovvisti delle strutture – spiega l'Oms – “ in grado di schermare tutto il sangue donato per uno o più infezioni, spesso causate da fornitura irregolare dei kit di analisi, carenza di personale, kit per il test di scarsa qualità, o mancanza di qualità di base nei laboratori ”.
Nei paesi avanzati, d'altronde, si sconfina talora nell'errore opposto, con alcuni divieti alla donazione che suonano perfino discriminatori. Al seguito della recente strage in un locale gay in Florida, la comunità omosessuale americana ha rilanciato la denuncia sul fatto di non poter donare sangue per i feriti. Il divieto per gay e bisessuali fu introdotto nel 1983 dalla Food and Drug Administration al seguito dell'epidemia dell'Aids. E' stato “ammorbidito” solo nel dicembre scorso, consentendone la donazione ma a condizione che sia trascorso almeno un anno dall'ultimo rapporto sessuale. “ Abbiamo tutti lo stesso sangue”, ricorda invece l'Oms.
In Italia, secondo l'ultimo rapporto in materia presentato nei giorni scorsi dall'Istituto Superiore di Sanità, i donatori sono oltre 1.700.000, rendendo il nostro paese sostanzialmente autosufficiente. C'è però un problema anche da noi, e sta nel fatto che le donazioni risultano scarse tra i giovani. Solo il 31% dei donatori ha meno di 36 anni, ed è un dato che reclama un rilancio nella sensibilizzazione.
Le “cavie” sono state le infermiere, e non è certo la prima volta. Da un’ampia indagine sulle loro emicranie è emersa una correlazione con i rischi di malattie cardiovascolari, inclusi l’ictus e l’infarto. Sappiamo ancora relativamente poco dell’emicrania, e meno ancora dei possibili ulteriori risvolti patologici. Tuttavia una ricerca negli Stati Uniti aiuta quantomeno a identificare fattori e categorie a rischio, utili alla prevenzione e alla ricerca.
Pubblicata sul British Medical Journal, è stata condotta in collaborazione tra le università di Berlino e Harvard, rielaborando e approfondendo i dati di un precedente “censimento” sulla salute di oltre 114mila operatrici americane tra i 25 e i 42 anni, seguite tra il 1989 e il 2011. Tutte erano in buona salute all’inizio dell’osservazione, ovvero senza patologie cardiovascolari o sintomi anginosi. Al contempo molte infermiere, il 15,2% del campione, risultava affatto da emicrania.
In tale lasso di tempo si sono poi verificati 1329 eventi cardiovascolari maggiori (quali l’ictus e l’infarto del miocardio), mortali in 223 casi. Ed è emersa una chiara associazione statistica con l’emicrania, che aumenterebbe il rischio di patologie cardiovascolari del 50%. Scomponendo tra le varie patologie, la maggiorazione è inferiore sull’infarto (39%), ben superiore sull’ictus (62%) e ancor di più per l’angina/procedure di rivascolarizzazione coronarica (73%). Tendenze che si confermano anche sulla mortalità cardiovascolare, incrementata del 37% tre le infermiere soggette a emicrania.
A ulteriore conferma della solidità di tali tendenze, esse si confermano anche nelle scomposizioni tra vari sottogruppi, in base all’età, all’abitudine al fumo, alla presenza o meno di ipertensione, all’eventuale utilizzo di contraccettivi orali. La correlazione tra emicrania e patologia cardiovascolare si riproduce ovunque.
L’indagine del resto non distingue tra le diverse forme di emicrania, né chiarisce i rapporti di causa ed effetto. Altre ricerche avevano rilevato un nesso tra emicrania e ictus, ma sulle spiegazioni siamo ancora all’ambito delle ipotesi. Nondimeno il segnale qui emerge lampante: l’emicrania va curata e trattata anche per la sua natura di fattore di rischio cardiovascolare. Tenendo inoltre conto di un ulteriore fattore: essa colpisce le donne almeno tre volte in più rispetto agli uomini.
A leggerlo superficialmente, il dato emerso in questi giorni sull’impennata delle assicurazioni sanitarie potrebbe suonare come un indicatore di benessere, e magari anche di una pur parziale ripresa dei redditi familiari al seguito della più grave crisi economica del dopoguerra. La realtà è tuttavia ben più complessa, e fornisce viceversa segnali allarmanti sull’andamento dell’assistenza pubblica in Italia.
Nel 2015 le polizze private per malattia, rivela il Censis, hanno sfondato la quota di 2 miliardi di euro, il doppio rispetto a vent'anni fa. Il dato va ad alimentare quello delle spese private nella Sanità che, nonostante la recessione, ora superano i 33 miliardi di euro, cinque in più rispetto al 2004.
Non siamo diventati più ricchi, anzi. Lo stesso istituto di ricerca ha documentato come siano addirittura undici milioni gli italiani che rinunciano alle cure perché non possono permettersele, mentre solo nel 2012 erano due milioni in meno. La spiegazione di quell'incremento di spesa sta piuttosto nel fatto che ci si sente sempre meno assistiti dal Sistema Sanitario Nazionale, i cui ticket sono del resto saliti fino a rendere alcune prestazioni pubbliche perfino più onerose di quelle private. Oltre il 57% degli italiani ritiene, pertanto, che una polizza sia la soluzione più adeguata, alla ricerca non tanto di “corsie preferenziali” quanto anzitutto dell'assistenza di base.
E quando non ce la possiamo permettere, ci indebitiamo: secondo un'altra indagine, i prestiti per coprire cure mediche sono saliti al 4% del totale nel 2015, due anni prima erano al 2,5%. Gli assicuratori si sfregano le mani e moltiplicano anche gli accordi con le Asl per potenziare i propri prodotti, ma lo scenario tratteggiato è quello di una crisi crescente del servizio pubblico, per ragioni anzitutto finanziarie.
“ In questo quadro non si può continuare a ricorrere a misure contabili di corto respiro. Esistono fattori destinati a durare nel tempo, a cominciare dall’innovazione farmacologica ”, avverte il Presidente di Assogenerici Enrique Häusermann, ricordando i contributi pregressi e quelli potenziali del settore all'obbiettivo di contenimento dei costi: “ Se si pone l’accento sul valore di ciò che il Servizio Sanitario acquista, è arduo non considerare che equivalenti e biosimilari ottimizzano il valore dell’investimento pubblico in salute ”.
Nel diabete di tipo 2 i controlli e la terapia sono salvifici. Tuttavia è bene anche non esagerare, perché un eccesso di test e di dosaggi farmacologici può addirittura risultare controproducente. I medici europei ne sono generalmente abbastanza consapevoli, ma è stavolta dagli Stati Uniti – ossia proprio dalla culla della filosofia del “more is better”, anche in ambito sanitario – che arriva un documentato appello alla moderazione.
L’iniziativa è della “Mayo Clinic”, celebrata organizzazione di ricerca medica dell’Arizona. Il fatto di base, rilevato dall’endocrinologa Rozalina McCoy, coordinatrice dello studio, è un “numero esagerato di test per la glicata”, con la conseguenza di terapie “ con una quantità esagerata di farmaci, rispetto a quelli necessari visti i livelli accertati di glicata stessa”. Obiettivo della ricerca è stato allora valutare le eventuali controindicazioni di tali eccessi. Quanto poi emerso risulta in effetti preoccupante.
Sono stati analizzati i dati tra il 2001 e il 2013 di quasi 32mila pazienti americani con diabete 2, a livello “stabile” e “ben controllato”. Nessuno era in terapia con insulina o aveva avuto episodi pregressi si ipoglicemia – considerati entrambi fattori di rischio per l’insorgere di quest’ultima. Sono quindi stati esaminati distintamente i giovani e i soggetti clinicamente “complessi”, ossia gli anziani (almeno 75 anni) e i pazienti con rilevanti comorbilità (patologia renale, demenza, altre patologie croniche gravi).
Ora, è emerso anzitutto che il 18,7% dei “complessi” e il 26,5% dei “non complessi” ricevevano un trattamento ingiustificatamente “intensivo”. Poi, è stato rilevato che i primi hanno manifestato un tasso di ipoglicemie doppio rispetto agli altri, e che il trattamento aumentava il rischio di un ulteriore 77% nell’arco di due anni. In altre parole, è emerso che, soprattutto tra i “complessi”, “ il trattamento intensivo arriva quasi a raddoppiare il rischio di gravi episodi di ipoglicemia”.
In conclusione, secondo McCoy, ci si concentra “ troppo sui livelli di emoglobina glicata e si mira a obiettivi troppo bassi e ambiziosi da raggiungere per mezzo di un trattamento molto intensivo, che può creare problemi seri soprattutto ai pazienti più anziani e fragili ”. Le linee guida indicano tale livello intorno al 6,5%, ma molti scienziati consigliano di modularlo a seconda delle caratteristiche del paziente, che definiscono i rischi ipoglicemici. Bisogna curarsi, ma con moderazione. La corretta valutazione dei paletti sta ai medici, nonché ai pazienti, nonché al loro imprescindibile rapporto. E questo non vale solo per l’epatite 2.
“Il cancro è curabile”, e lo è sempre di più. Lo reclama da tempo l’Associazione Italiana per la Ricerca sul cancro. A molti può suonare perlopiù come uno “slogan”, per incoraggiare i decisori e gli operatori della sanità a fare di più, segnalando appunto che tanto si può fare. La realtà è che a ritmo quasi quotidiano si annunciano progressi incoraggianti dalla ricerca medica. E a questa realtà fanno riscontro alcune novità che riguardano anche il nostro paese.
Una notizia, già rimbalzata sulla stampa, riguarda proprio i nostri ricercatori, anzi ricercatrici. Due connazionali hanno ricevuto il prestigioso “ Conquer Cancer Foundation Merit Award” della Società Americana di Oncologia Clinica (Asco), che ha riunito a Congresso nei giorni scorsi a Chicago migliaia di specialisti di tutto il mondo. Di recente era uscita una polemica tra una studiosa e il governo italiano, accusato di “vantare” alcuni risultati conseguiti in realtà all’estero, nell’ambito della “fuga di cervelli”.
In questo caso però non è così. Le due scienziate sono Emanuela Palmerini e Carlotta Antoniotti, la prima è oncologa all’Istituto Rizzoli di Bologna, l’altra all’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa. Per la dottoressa Palmerini è addirittura il sesto riconoscimento Asco, premiata stavolta per gli ottimi esiti di una ricerca chemioterapica sul Sarcoma di Ewing, condotte in collaborazione con un istituto londinese. “ Un grande risultato perché è un tumore raro che interessa soprattutto i bambini”, commenta. A ulteriore dimostrazione che molto si può e viene fatto in Italia, specie quando ci si apre alla collaborazione scientifica internazionale.
Alle novità sul fronte della ricerca italiana si sovrappongono quelle, ancor più imminenti, sulla salute degli italiani. Sono annunciate sempre da Chicago, dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom): nel 2015, per la prima volta, si registra una diminuzione dei tumori nel nostro paese, 363300, rispetto ai 365500 dell’anno precedente, e per giunta si rileva un +15% di guarigioni. Merito della ricerca, appunto, nonché dell’investimento farmacologico (100 miliardi spesi nel 2014, il 33% in più rispetto a quindici anni prima), sicché oggi oltre il 70% supera la malattia.
Ma il merito è anche altrove. Si chiama prevenzione, un’accresciuta consapevolezza pubblica, con effetti visibili sul fumo, qualità dell’alimentazione, attenzione alla diagnosi precoce. E si può fare ancor meglio. “Eliminare gli sprechi”, incalza il presidente dell’Aiom Carmine Pinto, tracciando un bilancio, tra esami strumentali e terapie di non comprovata efficacia, da “circa 350 milioni di euro ogni anno”. E’ vero, dunque, molto si può fare. Tra comportamenti privati, ricerca e scelte mediche oculate, anche sul nodo dei costi.
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A trentacinque anni dalla scoperta della malattia, nel complesso e lungo notiziario sull’evoluzione dell’Aids, le ultime novità sono sostanzialmente due, come emerso anche dal vertice delle Nazioni Unite dei giorni scorsi sul tema. Una buona e una cattiva. La prima è che la ricerca e la cura stanno producendo risultati incoraggianti, sebbene permangano criticità, specie tra i Paesi più colpiti e meno abbienti. La seconda è che il percorso di sensibilizzazione sembra segnare il passo, con indicatori allarmanti anche dall’Italia.
Cominciamo dalle cattive notizie, e dal nostro Paese. “ C’è ancora un preoccupante scarso livello di conoscenza specie tra i giovani, ossia le fasce più a rischio”, nota Rosaria Iardino, presidente onorario dell’Onlus Nps Italia, che ha commissionato un’indagine all’Swg, presentata una settimana fa all’Italian Conference of Aids and Antiviral Research, tenutasi a Milano. Tra i dati più eclatanti: il 50% degli intervistati neppure sa cosa sia l’Hiv, proporzione che aumenta tra i giovani; e il 55% dei ventenni ha paura di un semplice contatto fisico con un sieropositivo. Insomma, permane la disinformazione e lo stigma sui malati, complice anche larga parte dei media, “impreparati e orientati tuttalpiù all’allarmismo”. E questo è gravissimo, perché va a colpire il più efficace degli antidoti, ossia una corretta prevenzione.
Dal Palazzo di Vetro di New York arrivano invece segnali positivi sul progresso delle cure, per qualità ed estensione dei pazienti raggiunti. Questi sono raddoppiati negli cinque ultimi anni, arrivando a circa 17 milioni, sulla scia di un accordo globale che ha fissato l’obiettivo (peraltro difficilmente perseguibile fino in fondo), di raggiungerne 30 entro il 2020. C’è però un grande “ma”, rimarcato tra gli altri dal Medici Senza Frontiere, e sta nel fatto che c’è un’estesa area del pianeta che è rimasta quasi del tutto tagliata fuori dagli interventi. Si tratta dell’Africa centrale e occidentale, dove vivono quasi cinque milioni di malati, cifra da vera e propria emergenza umanitaria.
Un altro paese africano ad altissimo rischio – seppur con un’assistenza generalmente più adeguata – è il Sudafrica, con sette milioni di sieropositivi. Ed è lì che la ricerca ha compiuto un passo rilevante, ed è un passo italiano (che segue un finanziamento di 22 milioni di euro dalla Farnesina). E’ stato testato con successo, in un esperimento che ha coinvolto 200 pazienti, il “vaccino Tat”, sviluppato nei laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss). Si tratta di una proteina che permette la replicazione del virus e, così, incrementa significativamente le cellule immunitarie “T CD4”, moltiplicando l’efficacia dei farmaci anti-Hiv.
“Un esempio di eccellenza”, si congratula il presidente dell’Iss Walter Ricciardi. Un segnale di quanto si possa fare, quando c’è la volontà dei governi a sostegno della ricerca. E quando l’informazione non abbassa la guardia.
Preoccupazioni eccessive, paure, tendenze all'isolamento. Sono alcune tra le forme più lievi di quel fenomeno dilagante rappresentato dai disturbi dell'ansia, fonti di malessere psichico ma anche di una maggiore esposizione ad altre patologie psicofisiche. Talmente esteso dall'aver indotto l'Institute of Public Health dell'Università di Cambridge, previa finanziamento pubblico, a compiere una “ricerca delle ricerche”, raggruppando le indicazioni emerse da tutto il mondo al fine di individuare le categorie più sensibili e potenziare in prospettiva le capacità di prevenzione e cura.
Dalle 1200 indagini riesaminate emerge anzitutto la portata del problema, che colpisce ogni anno ben 60 milioni di cittadini europei, oltre il 10% della popolazione continentale, e proporzioni analoghe negli Stati Uniti, dove il costo sanitario annuale calcolato a oltre 42 milioni di dollari. In ambedue i casi la variabile più vistosa emersa è quella di genere. L'ansia colpisce le donne il doppio degli uomini, con una prevalenza riscontrata soprattutto al di sotto dei 35 anni.
La ricerca non è intesa a fornire spiegazioni sulle ragioni di tali tendenze. Possono dunque ora scatenarsi psicologi, biologi e sociologi. Tuttavia c'è qualcosa che già salta agli occhi e sgombra il campo da possibili eccessi di “dietrologia” sulle differenze di sesso. Difficilmente l'ansia è immotivata, vi sono anzi associate problematiche assai concrete. Ad esempio, i disturbi ossessivo-compulsivi sono rilevati con particolare frequenza tra le donne incinta e nella fase immediatamente successiva alla nascita, ossia nel momento più rilevante e delicato dell'esistenza umana, quello della creazione.
Analogamente, l'ansia colpisce primariamente persone che soffrono di gravi patologie, ad esempio l'11% degli adulti con malattie cardiovascolari, e addirittura un terzo dei pazienti di sclerosi multipla. L'indicazione più rilevante di tale ricerca dimora proprio nel fatto che l'ansia non spunti “dal nulla” nella nostra psiche, bensì sia largamente il correlato di reali sofferenze e fondate preoccupazioni.
Alcuni dati sembrerebbero entrare in contraddizione. Sono quelli che rilevano minori livelli d'ansia nelle minoranze etniche o linguistiche nei paesi occidentali, nonché in continenti più poveri. Invece non c'è paradosso, anche qui agisce un semplice fatto di sostanza, riconosciuto dagli stessi ricercatori: quello che in tali contesti il livello e la capillarità dell'assistenza sanitaria sono inferiori, impattando anche sulla diagnosi.
“Deve essere chiaro a tutti che non si possono fare le nozze con i fichi secchi”. È l'amara ammissione della Ministra della Salute Beatrice Lorenzin. Il riferimento era a una serie di dati emersi nei giorni scorsi sulle difficoltà della sanità e dei pazienti italiani, che a ben vedere ruotano tutti intorno al nodo dei costi, senza esclusione per quelli farmaceutici.
A far rumore, e a indurre la Ministra a commentare – e a prospettare anche una “una norma che imponga di valutare i manager anche in relazione agli obiettivi di riduzione delle liste d'attesa” - è stata soprattutto un'indagine del Censis che ha svelato l'allarmante cifra di 11 milioni di persone costrette nell'ultimo anno a rinviare o a rinunciare alle prestazioni sanitarie. La causa principale è appunto il loro costo che, sommato ai tempi lunghi d'attesa, induce molti a lasciar perdere, e altri a rivolgersi ai privati, anche perché i ticket sono aumentati (del 5,6% negli ultimi tre anni) fino a risultare talora più onerosi della prestazione al di fuori delle strutture pubbliche.
Eppure, perfino in tempi di crisi, gli italiani sono disposti a spendere prioritariamente per la salute, quando possono. Tra il 2013 e il 2015 l'esborso da loro sostenuto nel settore è cresciuto del 3,2%, il doppio del resto dei consumi. Il problema è che molti invece non possono, e questo naturalmente riguarda soprattutto le fasce deboli, ossia gli anziani e i giovani. Ulteriore aggravante, mentre i costi salgono, la qualità del Servizio Sanitario Nazionale è percepita in peggioramento dal 45% degli italiani.
A tali cifre si incrocia l'ultimo consuntivo dell'Agenzia Italiana del Farmaco, che certifica per il 2015 un rosso da 1,880 miliardi di euro. Eppure, la spesa convenzionata netta è scesa dell'1,40% e le ricette sono calate del 2,17%. Com'è possibile tale contraddizione? Sta nel fatto che quasi l'intero “buco” è causato dalla spesa farmaceutica ospedaliera. Si tratta cioè dell'ambito su cui rimane più marginale il ricorso ai farmaci equivalenti. “E' tempo di promuoverne l'utilizzo”, ha nuovamente protestato al Senato il presidente dell'Aifa Mario Melazzini.
Il tema della sostenibilità finanziaria e della qualità dei generici ha fatto irruzione anche nella festa per il trentennale di Slow Food, a Roma. Al Centro Congressi di Eataly, la rete associativa Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato ha tenuto giovedì scorso un altro, solido incontro pubblico nell'ambito della campagna nazionale “IoEquivalgo”. L'equivalente è rigorosamente tale in tutto (principi attivi, efficacia e sicurezza terapeutica), tranne che in quella variabile oggi non più trascurabile, pena l'esclusione di milioni di pazienti dalle terapie: il prezzo, nettamente inferiore.
Nei giorni scorsi in Nigeria un signore di 62 anni si è recato dal giudice invocando lo scioglimento del matrimonio sulla base del fatto che la moglie sessantenne era divenuta riluttante al sesso. Dinanzi al magistrato la donna si è difesa ammettendo il proprio raffreddamento, e attribuendolo alla perlopiù menopausa. È una storia curiosa come tante, che però svela l’alone di pregiudizio culturale che ancora avvolge quella fase delicata di passaggio femminile. L’alone è del resto nel titolo stesso del giornale africano: non è dedicato all’iniziativa giudiziaria dell’uomo, ma alla menopausa della donna. La “notizia” starebbe nella sua risposta.
E invece non è lì la notizia. La menopausa è un naturale momento di passaggio nella vita di ogni donna, benché forse il più drammatico. Termina il ciclo mestruale, e con esso la fertilità, quel mistero che consegna al gentil sesso la magia e il potere ineguagliabile di creare vita. Quella fase è tipicamente assai poco ritualizzata nelle civiltà umane, il che ne sottolinea la marginalità e la marginalizzazione delle interessate. Eppure è una costante perfino anagrafica nella storia. Oggi è riscontrata in media tra i 45 e i 50 anni; ai tempi dei greci, con speranze di vita ben più basse, era ugualmente stimata verso i 45.
Ci sono risvolti psicologico-culturali, dunque, ma anche fisici, che è cruciale affrontare adeguatamente. Dalla Regione Toscana si annuncia un interessante progetto di ricerca (con un rilevante investimento da un milione di euro) che sarà sviluppato in collaborazione tra l’Università di Pisa, l’Istituto di informatica e telematica del Cnr e tre imprese locali (Signo Motus, Medea e Lucense). Può suonare strano, ma l’obiettivo è quello di sviluppare un’app, già battezzata “Vita Nova”, ad adeguato sostegno della donna.
“Mira a costruire un’applicazione adattiva capace di proporre strategie personalizzate per migliorare lo stile di vita delle donne che si avvicinano alla menopausa, adattando i suggerimenti alla tipologia di persona, ai suoi sintomi, alla condizione individuale ed anche alle sue risorse di tempo o economiche”, spiega il Professor Tommaso Simoncini, dell’Ateneo toscano che coordina il progetto. Potenziare l’automonitoraggio dei sintomi, dunque, modificando al contempo in modo dinamico le strategie per affrontarli.
Dalla ginnastica all’agopuntura, dal farmaco agli stili di vita, sono molteplici le consulenze su come affrontare la sintomatologia di quel poco celebrato rito di passaggio. A margine, come ha scritto una settimana fa un giornale canadese, va comunque ricordato “le donne non odiano i loro mariti durante la menopausa”, né, salvo un periodo transitorio, “perdono l’interesse nella sessualità”. Quel che chiedono è essenzialmente di essere ascoltate.
Giugno è il mese della prevenzione urologica, ed è un po' una contraddizione in termini perché - lamentano gli stessi promotori - gli uomini la fanno pochissimo. L'iniziativa è della Società Italiana di Urologia (Siu), e prevede l'apertura di circa duecento centri italiani a consulti e visite gratuite.
L'auspicio è proprio quello di innescare un cambio di rotta rispetto alla riluttanza tutta maschile verso il medico, nutrita da vecchi retaggi “machisti” nonché da qualche paura a scoprire e affrontare le proprie patologie. “L'uomo non fa prevenzione - incalza il Segretario Generale della Siu Vincenzo Mirone – Solo il 10-20% si è sottoposto nella vita a una visita preventiva, contro oltre il 50-60% delle donne”. L'esito ultimo è che “nove maschi su dieci vanno dallo specialista solo se affetti da patologie gravi”, quando magari è troppo tardi. E perfino quando ci vanno “sono estremamente reticenti a parlare con lui delle proprie problematiche”.
Una tempestiva prevenzione, affiancata da stili di vita sani, sarebbe cruciale per inibire o comunque debellare le patologie tipiche degli uomini. Sono la prostatite, un'infezione che colpisce circa il 25% dei maschi, specie in età tra i 18 e i 45 anni. Ancor più diffusa e altrettanto curabile l'iperplasia prostatica benigna, affliggendo sei milioni di italiani, ovvero la metà degli over-60, e praticamente la totalità degli over-80, incidendo parecchio sulla loro qualità della vita, specie con disturbi alla minzione. Poi il dolorosissimo calcolo urinario, causa della colica renale, peraltro trattabile oggi con interventi mini-invasivi e comunque, di nuovo, largamente prevenibile con una buona alimentazione, ampio consumo idrico e visite frequenti. E ancora, l'infertilità, che per almeno il 50% dei maschi colpisce gli uomini, nonché la disfunzione erettile, che coinvolge ufficialmente due milioni e mezzo di italiani, ma in realtà sono molti di più, considerando che solo uno su tre si rivolge al medico.
Fin qui le patologie e i disturbi “benigni”. Ma c'è anche il cancro alla prostata, che rappresenta il tumore più frequente tra i maschi (circa 36mila nuove diagnosi e 7mila morti all'anno) e la seconda causa di morte per neoplasia, dopo quello al polmone. Anche e soprattutto qui, la visita di prevenzione è essenziale perché la patologia è spesso asintomatica nelle fasi iniziali, quando è ancora curabilissima.
L'iniziativa della Siu va allora presa sul serio. Per trovare la struttura più vicina si può consultare un apposito sito (controllati.it) o telefonare a un numero verde (800.822.822). Sperando che la visita diventi una salvifica abitudine annuale.
Si chiama Chris Wright, è un 26nne giocatore di basket. Viene dal Maryland, è alto 1,85 metri, che è pochino per un professionista della massima serie italiana. Invece gioca, ed è anzi tra i migliori, in forza come playmaker nella gloriosa Varese. Ha peraltro un handicap ulteriore, ben più grave. Quattro anni fa gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla, la sta combattendo e al contempo si sta esponendo molto in incontri pubblici per raccontarla, e spiegare come la si può affrontare, almeno in parte ma perfino ad altissimi livelli sportivi.
Ora, almeno per il momento, il giovane statunitense si è “bruciato”. E’ stato sospeso per l’imperdonabile onta della positività al doping. La sua società si è subito schierata con lui declamando che il farmaco contestato, uno stimolatore , è utilizzato per difendersi dalla patologia. Motivazione plausibile, a tale scopo lo hanno usato in molti, ma questo non viene formalmente riconosciuto dalle autorità sanitarie, anche italiane (eccetto per combattere la narcolessia), mentre è incluso nell’elenco dei prodotti dopanti. Lo sa, e infatti non ha granché protestato, autorità sportive incluse, e la legalità è imprescindibile. Nondimeno, e qualunque sia l’esito, il caso “illustre” getta un po’ di luce sulle difficoltà a ad affrontare tale patologia, e sulla solitudine in cui si trova spesso il paziente alla faticosa ricerca di una terapia.
Quella solitudine è documentata anche dal silenzio con cui è passata nei giorni scorsi la diciottesima “Settimana della sclerosi multipla”, culminata nella Giornata “mondiale” il 25 maggio, coinvolgendo una settantina di paesi. Largamente sotto silenzio nei media, nonostante le decine di convegni e la mobilitazione massiccia dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, fondata oramai quasi mezzo secolo fa e nutrita da oltre settemila volontari, e quotidianamente mobilitata – al di là della settimana – nell’assistenza sanitaria e amministrativa, nella pressione politica, nella promozione della ricerca e nell’organizzazione di campagne on-line e di piazza per la sensibilizzazione.
In Italia ne sono affette circa 110mila persone, e ogni anno sono accertati 3400 nuovi casi, uno ogni tre ore, in larga parte prima dei 40 anni. “ E’ una malattia neurodegenerativa demielinizzante – spiega il professor Giancarlo Comi, del San Raffaele di Milano, tra i massimi esperti italiani - Per motivi ancora poco chiari, i linfociti T, cellule responsabili della risposta immunitaria specifica, vengono sensibilizzati, si attivano e attraversano le pareti dei vasi sanguigni, superando la barriera emato-encefalica e penetrando nel sistema nervoso centrale ”.
Tuttavia, anche dinanzi agli sviluppi peggiori della malattia, ossia quelli “progressivi”, Comi riferisce ad esempio degli ottimi esiti dell’Ocrelizumab, “un anticorpo monoclonale in grado di distruggere in modo selettivo la popolazione dei linfociti B”. Insomma molto si può fare oggi, e molto altro si potrà con lo sviluppo della ricerca. Senza dover ricorrere a sostanze “dopanti”. L’importante è andare avanti, e smetterla col silenzio.
Credits foto: Pallacanestro Varese
Ci sono le parole, e sono oramai le stesse, da parte di tutti, dalle associazioni dei pazienti al Ministero, dal governo alle Università, dall’Agenzia Italiana del Farmaco alle imprese produttrici, incluse quelle dei farmaci “di marca”. Principi attivi, efficacia terapeutica, sicurezza, sono identici nei farmaci equivalenti, la sola differenza è nel loro prezzo inferiore. Solo che quella differenza è enorme, con potenziali inesplorati per i bilanci delle famiglie come della sanità pubblica. E allora le cifre dicono ancor meglio delle parole. Le ultime sono uscite nei giorni scorsi sul Journal of the American Medical Association.
Gli studiosi delle Università dell’Ohio e del Michigan hanno analizzato la spesa farmaceutica di oltre 107mila utenti americani, pari a complessivi 760 miliardi di dollari, di cui 170 pagati direttamente dai cittadini. Ora, anche compiendo una serie di sottrazioni (legate a prescrizioni, permanenza del brevetto, indisponibilità del sostituto), la spesa nella marca, laddove c’era l’alternativa del generico, è stata conteggiata sui 73 miliardi di dollari. Ebbene, ricorrendo agli equivalenti, i pazienti ne avrebbero risparmiati 25.
Sono dati impressionanti, che poi risultano ancor più vistosi considerando che negli Stati Uniti le percentuali del ricorso agli equivalenti sono ben più alte che in Italia. La loro quota nel mercato farmaceutico complessivo oltreoceano, in base all’ultima indagine comparata dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), è all’84%. Nel nostro paese è solo al 19%, in volume, addirittura l’11% in valore, ai bassifondi nella classifica dei paesi avanzati.
E ci sono un po’ di altri dati concomitanti che lo stesso rapporto Ocse segnala e dovrebbero indurre alla riflessione. Il più generale e vistoso è quello del taglio alla spesa sanitaria pro-capite nel nostro paese dal 2011, addirittura del 3,5% in termini reali nel solo 2013. Livelli complessivi “ ampiamente al di sotto della spesa di alti paesi OCSE ad alto reddito”, nota l’organizzazione, che sottolinea anche come la quota di spesa farmaceutica pubblica italiana sia inferiore alla media. E tutto questo nonostante “ molti indicatori sull’assistenza primaria e ospedaliera rimangano invece al di sopra della media”.
C’è insomma una Sanità che resiste, per l’impegno dei suoi operatori. Ma il quadro, a conti fatti, è quello di un declino nell’impegno pubblico che, anziché spingersi verso ulteriori orizzonti di “tagli”, potrebbe trovare risorse altrove, nel mondo dei farmaci stesso, con il ricorso agli equivalenti. Le cifre potenziali di tale risparmio sono aggiornate mensilmente dal “Salvadanaio della Salute” di Assogenerici. Sarebbero tali da cambiare radicalmente il quadro della Sanità italiana.
Sull’obiettivo di contenere i costi sanitari dinanzi a una popolazione che invecchia si dibatte un po’ ovunque, nel mondo, e non sempre a proposito. Tra un’alchimia e l’altra il rischio è quello di finire a tagliare la qualità della cura, il che tipicamente impatta principalmente sulle fasce deboli. Soprattutto, talora si perdono di vista le soluzioni di risparmio semplici, a portata di mano, che potrebbero viceversa elevare la qualità delle cure, sprigionando nuove risorse. E’ il caso delle scadenze brevettuali, che aprono la strada a un più massiccio ricorso ai farmaci equivalenti.
Lo spunto arriva da un convegno tenutosi nei giorni scorsa da Roma, in relazione a uno studio ad hoc del gruppo EEHTA (Economic Evaluation, HTA and Corruption in Health) diretto dal professor Francesco Saverio Mennini, nell’ambito del Centre for Economic and International Studies dell’Università Tor Vergata, con il sostegno non condizionato della società Mylan. E’ stato analizzato un campione di 9 molecole e 311 forniture, delle quali 52 rinegoziate, 210 cessate senza essere rinegoziate e 49 con scadenza nel triennio 2016-2018 non ancora rinegoziate.
Il “risparmio mancato”, sintetizza Mennini con riferimento solo a quelle molecole, è quantificato “in oltre 81 milioni, dovuto al ritardo o alla mancata rinegoziazione”, in relazione alla “ scadenza brevettuale di prodotti farmaceutici inseriti in lotti già aggiudicati”. Cifra che salirebbe a diverse centinaia di milioni di euro sulla totalità del mercato.
I margini sono rilevanti anche in considerazione del numero e tipologia dei medicinali in scadenza di licenza. L’Ims Health nei mesi scorsi ha rilevato che, dopo quattro anni di calo, sono ben 29 i farmaci che perdono quest’anno la protezione, “per un valore stimato di circa 466 milioni di Euro, un valore di 100 milioni più alto rispetto a quanto avvenuto nel 2015”. Si tratta perlopiù di “terapie specialistiche soprattutto antineoplastiche, antivirali ed antibiotiche”, il cui fatturato più esposto coinvolge per oltre il 60% il canale ospedaliero, che ora presenta i ritardi maggiori nel ricorso ai generici.
“Promuovere anche negli ospedali il loro utilizzo”, è stato il proposito prioritario annunciato il gennaio scorso al Corriere della Sera dal neopresidente dell’Aifa Mario Melazzini, prefigurando ricadute benefiche per l’intera assistenza sanitaria: “Con i soldi risparmiati – disse -si potranno avere le risorse da investire per cure come quella dell’epatite”. Paletto ribadito da Mennini: “Tutti i risparmi generati devono necessariamente restare all’interno del sistema ed essere indirizzati a supporto dell’assistenza”. Sull’“ importante ruolo dei farmaci equivalenti” è intervenuto in proposito anche il Ministero della Salute, tramite il Direttore Generale del settore farmaceutico Marcella Marlatta. Tutti apparentemente d’accordo, dunque. E’ tempo però di accelerare.
Sembra un po’ roba da “Dr. House” o da altre serie televisive e film “catastrofici” americani, in cui il medico è una specie di “top gun” alle prese con le più gigantesche e improbabili emergenze. La realtà è che la simulazione del reale, specie tramite i più recenti “manichini speciali”, nella formazione alla gestione medica di crisi di larga scala, è entrata da un paio d'anni in alcune strutture italiane. Con buone ragioni. Saper curare non è solo tema di conoscenze e competenze. Ci sono aspetti psicologici, tecnici e strategici che possono risultare determinanti nell’efficacia dell’intervento. Le cifre di tali modelli didattici mostrano un ritardo del nostro paese, che però si riscatta con un “istinto” al soccorso umanitario, che non è certo una leggenda.
Tali sistemi didattici sono in effetti ancora pochi nelle nostre strutture ospedaliere. Un paio in Piemonte, altrettanti a Firenze, uno a Trento, un altro in Sicilia e uno in Sardegna. Tutto qua, nonostante, secondo gli esperti del settore, “ un’ora al simulatore chirurgico equivale a 100 ore in sala operatoria”. E’ col primo che si riuscirebbe rapidamente a inscenare emergenze e complicanze di ogni tipo ed entità, per imparare a gestirle.
Su questo la giornata finale di Exposanità, tenutosi a Bologna, ha riunito in un simposio, su iniziativa dell’Associazione Italiana Ingegneri Clinici (Aiic), accanto ai medici, esperti della difesa e del peace-keeping, tecnici biomedici, comandanti in aviazione. Tecnologia, formazione “militare”, capacità di stabilire priorità, sangue freddo. Temi non avulsi dal tradizionale bagaglio formativo del medico, ma su cui i moderni strumenti di simulazione sembrano aiutare. “Il 36% delle denunce contro medici riguarda l'ambito chirurgico”, si nota. Su quella cifra pesa la pericolosa prassi della “penalizzazione” della professione, ma gli errori ci sono e i margini per ridurli anche.
Del resto a Bologna non si discuteva solo dell’“emergenza ordinaria”, bensì di possibili scenari devastanti come “ una catastrofe naturale o un afflusso enorme di feriti dopo un attacco terroristico”. Le citate capacità, “psicologiche e strategiche”, diventano allora imprescindibili, come del resto già sanno molti, inclusi i medici impegnati nelle forze di polizia e dell’esercito.
In tali scenari, laddove non arriva ancora la moderna didattica, interviene tuttavia una tradizione italiana riconosciuta all’estero. E’ quella dell’attenzione, dell’istintiva dote e sensibilità nel gestire contesti emergenziali ovunque. Chiedere alle Ong internazionali, alle missioni Onu o Ue, circa la quantità e qualità professionale degli operatori sanitari italiani. Una tradizione che merita sostegno, oltre che plauso. Con quella base, e con le nuove tecnologie, potremmo esser noi a costruire centri di eccellenza formativa di attrattiva mondiale, suggerisce l’Aiic.
Interventi rapidi e poco invasivi. L'Italia rivendica progressi epocali e una posizione d'avanguardia nella chirurgia pediatrica. Dietro, c'è tanta ricerca medica e tecnologica, e altrettanta dedizione degli operatori sanitari. Un convegno in questi giorni all'Auditorium dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha fatto il punto della situazione nel nostro paese e sulle nuove opportunità di cura.
“Sono 55 i centri italiani che fanno chirurgia pediatrica”, riferisce Alessandro Inserra, direttore del dipartimento chirurgico dell'ospedale romano, che detiene il record di interventi, 28mila l'anno, ossia un terzo del totale in Italia. Seguono il Gaslini di Genova, la Chirurgia Pediatrica dell'Università di Padova, il Burlo Garofalo di Trieste e il Meyer di Firenze. Tutte strutture del centro-nord, si noti, confermando l'allarmante ritardo, nell'insieme, del Mezzogiorno.
Globalmente gli interventi effettuati annualmente in Italia sono circa 70mila. Tra i più frequenti, tonsillectomie, appendiciti, ritenzioni del testicolo e interventi agli occhi per strabismo, miopia. Tutti questi, fino a pochi anni fa, richiedevano il ricovero, mentre oggi si fanno in “day surgery”. L'incremento di quest'ultimi è stato dell'81% dal 2012 al 2014. “L'aggressività chiururgica e costosa appartiene al passato”, commenta Inserra, sottolineando come sia proprio “ in età pediatrica e adolescenziale che è necessario esprimere tutte le migliori capacità terapeutiche disponibili”, per la loro salute presente e futura.
Alla “rivoluzione” ha contribuito la messa a punto di strumenti ad altissima precisione, che hanno segnato ad esempio il passaggio dal taglio ampio “a cielo aperto”, al taglio minimo. In neurochirurgia si è passati dagli interventi a occhio nudo al “virtuale”, che permette di trattare tramite robot epilessie o tumori al cervello riducendo al minimo la ferita. Nell'oculistica, il laser ha addirittura preso il posto del bisturi.
Ma il cambio di rotta è dovuto anche ad altro, a mutamenti organizzativi, con approcci multidisciplinari capaci di assistere il paziente pediatrico minimizzando l'impatto delle cure dal punto di vista fisico, psicologico e sociale. Un passo avanti “filosofico” complessivo, a cui contribuisce inoltre l'ambito farmacologico. Mini-invasività significa anche questo, dosaggi e formulazioni specifiche per i bambini, inclusa un'anestesia “light”.
La principale rete associativa italiana in ambito (tra l'altro) sanitario si rinnova. Confermando i propri vertici, e rilanciando la propria azione, stabilendo tra le sue priorità anche quella per i farmaci generici. E' successo tutto nello scorso fine settimana a Fiuggi, culmine del V Congresso di Cittadinanzattiva, e al contempo, come dev'essere, festa popolare, quella di “SpreK.O.”, densa di incontri, scambi, spettacoli, laboratori per i piccoli, cucina e punti informativi.
Al centro, in Piazza Martiri di Nassiriya, il villaggio di “IoEquivalgo” ha tagliato il nastro di partenza di un tour che fino al prossimo ottobre percorrerà le strade di Chieti, Campobasso, Asti, Caltanissetta, Perugia, Salerno, Senigallia, Udine, Vicenza, Taranto e Crotone. Le migliori campagne si fanno così: non bastano gli appelli nazionali, lanciati ripetutamente anche dall'Agenzia Italiana del Farmaco per l'urgenza del ricorso agli equivalenti. E' cruciale inoltre recarsi a incontrare fisicamente i cittadini, i pazienti, i consumatori. E a Fiuggi è andata benissimo, con migliaia di visitatori alle due iniziative e la diffusione vis-à-vis della corretta informazione sui farmaci equivalenti a centinaia di persone. Viva le feste locali, quindi, e viva anche i giornali locali. Quelli nazionali a volte tendono a disperdersi nel mare magnum dei “massimi sistemi”, i più esigui fogli locali, per loro ampiezza e vocazione, cercano di andare al sodo delle notizie e degli appuntamenti rilevanti, perfino quelli lontani dalla loro distribuzione.
E' ad esempio il caso del toscano Il Tirreno che, nel sottolineare la scorsa settimana l'importanza dell'evento ciociaro, ha ben chiarito i capisaldi della questione dei generici. “Oltre a contenere nella propria formulazione la stessa quantità di principio attivo hanno anche una bioequivalenza con altri medicinali "di marca" e con brevetto scaduto. In sostanza stesso principio attivo, stessa forma farmaceutica, cambia soltanto la marca ed il prezzo”, si legge, rilevando “risparmi considerevoli, che arrivano anche al 50%”. Poi viene citata la testimonianza del Coordinatore di Cittadinanzattiva-Tribunale del Malato: “Riceviamo ogni giorno segnalazioni dai cittadini, che mostrano quanto i costi per i farmaci stiano diventando pesanti per loro – denuncia Tonino Aceti - spingendoli in alcuni casi anche a rinunciare alle cure, come accade al 9,5% degli italiani” E' arrivato dunque il tempo di scendere in piazza. E di metter fine a quello “SpreK.O.”, per la salute e per i bilanci delle famiglie e della collettività, costituito dal ritardo italiano nell'utilizzo di farmaci equivalenti.
Preziosa allora la mobilitazione di Cittadinanzattiva e delle organizzazioni che vi concorrono. Con i complimenti ai suoi leader, confermati in Congresso proprio a Fiuggi, ossia il Segretario Generale Antonio Gaudosio e il Presidente Marco Frey.
Sono numeri da vera e propria strage. Nel Vecchio Continente, culla del Welfare State, le “morti evitabili” superano la cifra di mezzo milione l’anno. La stima allarmante è di Eurostat, su elaborazione di dati nazionali, e non assolve il nostro paese, quello dell’un tempo celebrata “ miglior Sanità al mondo”. I dati vanno letti con cautela, ma vanno letti.
Nel dettaglio, le morti che si sarebbero potute evitare sono state oltre 577mila nel 2013, ossia nel 33,7% dei casi. La percentuale è riferita all’1,7 milioni di europei deceduti sotto i 75 anni. Il concetto di “morte evitabile” si riferisce infatti a fasce d’età e ambiti patologici che consentirebbero la sopravvivenza in caso di “un’assistenza sanitaria tempestiva ed efficace”. E’ dunque solo una stima, che tuttavia viene da tempo riconosciuta in ambito scientifico, inclusa l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
In cima alle 86 cause di morte evitabile si confermano gli attacchi cardiaci, quasi un terzo dei casi, seguiti dagli ictus, con circa 94mila decessi, poi il cancro al colon (12%), quello al seno (9%) e, a seguire, patologie legate all’ipertensione e polmoniti.
Il dramma è anche nell’ampiezza delle differenze tra paesi. Se la mortalità evitabile è contenuta al 23,8% in Francia, arriva a sfiorare il 50% in Romania e Lettonia. Le sperequazioni regionali continuano a coinvolgere purtroppo anche il nostro paese, con vistosi scarti tra Nord e Sud, e lo stesso dato complessivo non è lusinghiero, siamo al 33%, solo alcuni decimi di punto al di sotto della media europea. Per giunta sono dati destinati ad aggravarsi, alla luce delle stime, da noi già segnalate, sulla recente diminuzione nella speranza di vita, che si aggiungono a quelle pregresse sul calo della “ speranza di vita sana”.
I vertici della Sanità naturalmente difendono i loro sforzi. “ L’approvazione dei nuovi Lea, un grande lavoro che abbiamo ultimato e che adeguano i livelli essenziali di assistenza fermi dal 2001 – spiega ad esempio Beatrice Lorenzin - fornirà uno strumento fondamentale per la riduzione della mortalità evitabile”. In ogni caso la ministra riconosce il dato, “migliorabile”, citando il caso dell’aumento delle patologie infettive, che “ riscontra la caduta delle coperture vaccinali, soprattutto nell’adulto e nell’anziano”. Più prevenzione, dunque, e, come si invoca in tutti i 28 paesi europei, basta tagli alla Sanità.